Parrocchie di Santo Stefano e San Leonardo
Casalmaggiore
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Il 9 aprile 2006, Domenica delle palme, si è costituito l'UFFICO STAMPA della parrocchia attraverso il quale il parroco e gli organismi parrocchiali manifestano le proprie valutazioni e riflessioni sui maggiori temi della vita ecclesiale e civile.

 

COMUNICATO DEL 19 FEBBRAIO 2009

Caso Eluana
Le riflessioni del parroco

Da cittadino comune, che cerca di capire come sono andate le cose nella brutta pagina scritta dal nostro Paese nella vicenda di Eluana, mi rimangono alcune perplessità: certo di natura etico-antropologica soprattutto (Eluana non è morta di morte naturale, ma è stata lasciata morire di sete, di fame e di abbandono relazionale, dopo il suo trasferimento a Udine da Lecco, dove era amorevolmente curata dalle suore misericordine), ma anche di natura ideologico-giuridico-procedurale, E’ su questo secondo aspetto che vorrei proporre due serie di riflessioni.
La prima riguarda il percorso giuridico. Attraverso un iter giuridico contraddittorio e altalenante risulta, per chi ha onestà intellettuale, che le ultime pronunce dei vari tribunali hanno di fatto introdotto, a colpi di sentenza e in assenza di una legge, l’eutanasia nel nostro sistema sanitario. E l’eutanasia è un corpo estraneo rispetto all’impianto della lettera e dello spirito della nostra Costituzione. Se si ha la pazienza di ripercorrere tutto l’iter giuridico, si nota che ad un certo punto la magistratura - contraddicendo le sette sentenze precedenti che si collocavano nella tutela costituzionale del diritto alla vita e quindi ritenevano inammissibile la richiesta del padre Englaro di interrompere l’alimentazione e la idratazione della figlia Eluana – cambia radicalmente linea. Gli stessi principi contenuti nella nostra Carta e per anni ritenuti validi per negare al padre l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione, vengono improvvisamente capovolti nel pronunciamento della Cassazione dell’ottobre 2007, che riapre il caso, rinviandolo alla Corte d’Appello di Milano. Da notare: la stessa Corte d’Appello di Milano, ancora nel decreto del novembre 2006, confermava tutta l’impostazione precedente, dichiarando che “nel caso di un paziente non più in grado di intendere e di volere, occorre verificare la sua pregressa volontà”. Qualora questa non sia certa, deve essere effettuato un bilanciamento tra diritto all’autodeterminazione e diritto alla vita che, “in base a dati costituzionali e normativi deve risolversi a favore del diritto alla vita e non della morte del soggetto”. La novità arriva il 16 ottobre 2007, quando la Cassazione, annullando il precedente decreto della Corte d’Appello di Milano del 2006, rinvia tutto a un nuovo processo, sostenendo – ecco la novità – che il giudice può autorizzare la sospensione in presenza di due precise circostanze: l’accertamento della condizione di stato vegetativo irreversibile della paziente e l’accertamento della volontà pregressa della paziente a respingere, nel caso di grave malattia menomatoria, la continuazione del trattamento medico. Saranno esattamente queste due condizioni a costituire, nel caso risultassero positivi gli accertamenti richiesti, la base giuridica che porteranno alla sentenza – che in realtà è un decreto, e come tale è revocabile ove venissero meno le condizioni richieste – del 9 luglio 2008 della Corte d’Appello di Milano, che autorizza la sospensione. Tale decreto sarà ribadito il 13 novembre 2008 anche dalla Cassazione, chiamata in causa dal ricorso contro tale decreto dalla Procura di Milano. E ciò prepara il percorso che, attraverso un “protocollo”, per altro, pare, non correttamente seguito, avvierà alla morte Eluana.
Sorgono a questo punto alcune perplessità. La prima: diversi giuristi hanno fatto notare che il modo di determinare la volontà di morire di Eluana, con testimonianze lontane nel tempo e a senso unico, è un’anomalia, dato che nella nostra giurisprudenza la forma scritta – che manca nel caso di Eluana – è l’unica garanzia per la certificazione della volontà. La volontà di interrompere le terapie deve essere non solo presunta, ma anche formalmente dichiarata (la presunzione non ha alcun valore perfino nelle questioni patrimoniali! La vita è un patrimonio ben maggiore). La seconda: anche nel caso fosse risultata chiaramente certificata tale volontà di Eluana, su quale base giuridica un tribunale può ritenere la “volontà di morte” una delle due famose condizioni per consentire l’interruzione delle cure, dato che in Italia non esiste ancora nessuna legge circa il fine vita? E’ difficile non accogliere la critica, sollevata da più parti e a livelli di alte competenze, di “prevaricazione” del potere della magistratura sul potere legislativo. Al potere giudiziario non spetta fare le leggi, bensì solo curarne la corretta applicazione e sanzionarne l’inosservanza. La terza: appare molto discutibile l’interpretazione dell’art. 32 della Costituzione, laddove dice che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, per sostenere il principio della autodeterminazione: anche per il motivo che subito dopo si afferma che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” e subito prima si afferma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Dunque il principio di autodeterminazione – che sul piano culturale sta diventando la questione centrale di tanti nodi odierni e che è alla base del pensiero radicale e libertario per la soluzione di tante problematiche, a partire dall’aborto – non può essere univocamente radicalizzato, ma va bilanciato tenendo conto, appunto, del “rispetto della persona umana” e del valore sociale e comunitario della persona stessa. Che, tradotto, può significare che la libertà del singolo ha un limite, ma anche un ampliamento, nel fatto che il rispetto per la persona umana passa per il “favor vitae” che deve ispirare ogni intervento sanitario (e non credo che far morire una persona di fame e di sete sia compatibile con tale rispetto) e nel fatto che il principio della libertà individuale deve coniugarsi con il principio del valore sociale della persona, soggiacente a tanti articoli della nostra Carta: il che giustifica la prassi del legislatore di non dover trasformare in legge o di dare consenso legale ad ogni desiderio individuale, compreso il desiderio di morte. Lasciar morire Eluana di fame e di sete su una sua presunta volontà vuol dire aprire il varco ad una radicalizzazione del principio di autodeterminazione che porterebbe inevitabilmente, in un prossimo futuro, all’eutanasia attiva e al suicidio assistito. Insomma, la lettera e lo spirito dell’art. 32 della Carta non giustificano alcun delirio soggettivistico in materia di salute e ben difficilmente possono prestare il fianco a visioni eutanasiche. La quarta perplessità: chi può dichiarare che l’idratazione e l’alimentazione sono “terapie”, e dunque cure sanitarie di cui un’interpretazione restrittiva dell’art. 32 potrebbe autorizzare la sospensione, e non invece diritti inviolabili, da garantire ad ogni persona sana e malata? Sulla base di quale norma la suprema Corte e la Corte d’Appello di Milano hanno potuto identificare il “trattamento medico” a cui una persona potrebbe legittimamente rinunciare con la sospensione del cibo e dell’acqua? Come può essere definito “accanimento terapeutico” il sondino naso-gastrico, usato in altre migliaia di casi in Italia? Per tutti questi motivi, il sospetto che alcuni settori della magistratura siano influenzati ideologicamente e si credano nell’obbligo di surrogare la funzione legislativa, che spetta unicamente ai rappresentanti liberamente eletti dal popolo sovrano, è fondato.
Una seconda riflessione riguarda lo scontro istituzionale fra il Presidente della Repubblica e il Governo nella sua interezza (e non il solo Berlusconi) circa il potere della decretazione di urgenza, un potere che nella nostra Repubblica parlamentare l’art. 77 della nostra Costituzione attribuisce solamente alla responsabilità del Governo. Il decreto, predisposto dal Governo per bloccare la morte per fame e per sete di Eluana, aveva anche lo scopo di accelerare una legge sul fine vita che impedisse un altro caso Eluana, legge che poteva contare su un vasto consenso in Parlamento. Si è gridato alla strumentalizzazione politica del caso Eluana da parte del Governo. In realtà, è stata iniettata nel nostro sistema istituzionale una dose inattesa di interventismo presidenziale, attraverso due gesti quanto meno discutibili. Il primo, con la richiesta preventiva, da parte del Colle, al Consiglio dei ministri di non varare il decreto. Il secondo, dopo che il Governo aveva deciso di procedere unanimemente e legittimamente all’approvazione del decreto, con il rifiuto di emanarlo, a Consiglio dei ministri ancora in corso. Napolitano ha accompagnato il suo rifiuto con una lettera molto articolata, nella quale sostanzialmente motiva la sua decisione nella mancanza dei presupposti di necessità e urgenza e nella necessità di attenersi alle decisioni giudiziali. Fior di costituzionalisti, fra cui due ex presidenti della Consulta, Cesare Mirabelli e Antonio Baldassarre, hanno invece dichiarato che il decreto governativo era ineccepibile, perché aveva i caratteri della necessità e della urgenza, e dunque non poneva problemi di costituzionalità; anche per il motivo che rivestiva una funzione in qualche modo dilatoria, non si contrapponeva alle decisioni giudiziali, semplicemente proponeva una sorta di moratoria – giustificabile nel caso di Eluana, che da 17 anni era in quelle condizioni e dunque si poteva attendere ancora qualche giorno: la fretta di farla morire appariva, quella sì, disumana e incostituzionale – in attesa che il Parlamento varasse una legge sulla materia. Mirabelli ha dichiarato che i rilievi del Colle “non erano tali da escludere un provvedimento di urgenza”, anche per il motivo che il decreto governativo introduceva un elemento di precauzione e di garanzia, che, nel caso di una vita da salvare, deve avere la priorità su tutte le altre pur fondate argomentazioni giuridiche. Insomma, il decreto del Governo si configurava come una norma transitoria e prudenziale, in attesa di una precisa legge. Il presidente Napolitano ha scelto una strada formalmente corretta dal punto di vista delle procedure giuridiche, ma poteva sceglierne un’altra, altrettanto rispettosa del diritto, ma più attenta alla sostanza della posta in gioco, che era quella di impedire che Eluana morisse in quel modo, ponendo in essere, tra l’altro, un pericoloso precedente, che di fatto potrebbe – nelle future discussioni parlamentari e nel dibattito culturale – costituire una sorta di pressing autorevole circa l’introduzione dell’eutanasia nel nostro Paese. Il vecchio adagio “summum ius, summa iniuria” poteva e doveva essere tenuto presente anche dal sommo magistrato, che rappresenta l’unità nazionale e presiede il Consiglio superiore della magistratura: tanto più che si era in presenza non di una materia di carattere economico o di sicurezza e ordine pubblico, bensì di una questione etica, di una visione della vita e della morte, per la quale lo stesso Napolitano aveva saggiamente investito il Parlamento qualche tempo fa, affinchè ne facesse materia di riflessione per la messa a punto di una legge condivisa sul fine vita. In tal modo il Presidente, dietro alla giustezza delle procedure formali, anziché essere “super partes” e consentire una momentanea moratoria che non annullava le sentenze giudiziali, ma semplicemente ne permetteva la dilazione, di fatto può aver ceduto a ragioni ideologiche, tornando ad essere, anziché il garante di tutta la Costituzione, il promotore di alcune parti di essa, a danno di altre: e dunque un uomo di parte. E’ comunque fuorviante, e non comprensibile al senso comune della gente, che una persona possa morire di fame e di sete in nome di un “protocollo”, in nome di procedure giuridiche, addirittura in nome della Costituzione.

Alberto Franzini

19 febbraio 2009


 

 

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