DOPO I MORTI DI NASSIRIYA
Gli eventi di questi giorni hanno riportato alla ribalta,
sia pure con toni più sommessi e con uno scenario nazionale
e internazionale decisamente mutato, il problema - attualissimo
qualche mese fa - della pace e della guerra, soprattutto del
terrorismo e degli strumenti più idonei - o meno inidonei
- per fronteggiarlo. Soprattutto in casa cattolica, sono emerse
di nuovo le due anime principali: un'anima pacifista e un'anima
pacificatrice.
La prima, qualche mese fa, alla vigilia della guerra in Irak,
sembrava avere una legittimazione anche da parte vaticana
e si presentava vincente: sulle piazze, con le bandiere arcobaleno
ai balconi e alle finestre, sui massmedia. Il movimento pacifista
cattolico è ormai giunto alla posizione della illegittimità
della guerra in sé e non solo alla condanna, ovvia,
della guerra preventiva. Tale posizione preferisce parlare,
in genere, di pace come utopia e ritiene che ogni altra posizione
costituisca un tradimento del Vangelo e un allontanamento
dai pronunciamenti dell'attuale Papa. Tende anche a ritenere
ormai superata la dottrina tradizionale cattolica della "guerra
giusta", ancora contenuta nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, sia pure esposta con altra terminologia, quella
del "diritto alla legittima difesa" (così
si esprime ancora il Vaticano II nella Gaudium et spes, al
n. 79), con tutte le strette condizioni che la possono giustificare.
La seconda anima, quella pacificatrice, non va certo confusa
con l'"ideologia della realpolitik della guerra inevitabile"
(l'espressione, di qualche giorno fa, è del card. Scola,
patriarca di Venezia). Tale anima predica la necessità
di compiere ogni sforzo possibile per costruire la pace: ma
appunto preferisce il linguaggio e l'"offensiva"
di una paziente costruzione, da incarnare dentro alle inevitabili
e impreviste difficoltà del vivere, anziché
il linguaggio dell'utopia e di una pace urlata nelle piazze.
Questa posizione ha ripreso forza, almeno in Italia, dopo
la morte dei nostri militari e civili a Nassiriya. Ci si è
accorti, infatti, che indossare una divisa militare non è
in contraddizione con la pace da costruire e nemmeno con la
professione della fede cristiana: nonostante qualche voce
discordante, stavolta i vertici della Chiesa cattolica sembrano
usare un altro linguaggio rispetto a qualche mese fa. Subito
dopo l'attentato a Nassiriya, il 12 novembre, lo stesso Giovanni
Paolo II, in un telegramma al Presidente Ciampi, esprime "la
più ferma condanna per questo nuovo atto di violenza"
(in ciò distanziandosi da tutti coloro che legittimano
le azioni terroristiche in Irak come azioni di "guerriglia
da resistenza"") e non ha timore ad affermare che
"i carabinieri e i soldati italiani hanno perso la vita
nell'adempimento generoso della loro missione di pace"
(sconfessando che la forza militare sia, in quanto tale, perversa
ai fini della costruzione della pace). A ruota, e non certo
in contraddizione, la posizione del card. Ruini durante l'omelia
ai funerali il 18 novembre: "Non fuggiremo davanti a
loro [i terroristi assassini], anzi li fronteggeremo con tutto
il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci.
Ma non li odieremo, anzi, non ci stancheremo di sforzarci
di far loro capire che tutto l'impegno dell'Italia, compreso
il suo coinvolgimento militare, è orientato a salvaguardare
e a promuovere una convivenza umana in cui ci siano spazio
e dignità per ogni popolo, cultura e religione".
La reazione composta dei militari feriti, delle famiglie colpite
dal dolore, di tanto popolo italiano dice che il tema della
pace è sentito da tutti, ma che è anche più
complesso rispetto alla semplificazione di : "guerra
sì o guerra no". La volontà di restare
o di andare in Iraq è avvertita, oggi, come un dovere
morale: per non abbandonare quel popolo alla mercè
delle bande estremistiche e per impedire ogni forma di resa
alla violenza del terrorismo che ormai minaccia tutti, comprese
le popolazioni musulmane.
Mi ha molto colpito un'editoriale di Marina Corradi su Avvenire
del 13 novembre: citando Andrè Glucksmann (filosofo
francese, che qualche giorno dopo, sul Corriere, ha scritto
una Lettera agli italiani, tutta da leggere), la Corradi osserva
che "gli europei credono che basti dire 'no alla guerra'
per esserne al riparo. Gli europei non la vogliono sentir
nominare, ma la guerra è là, non ha mai lasciato
il nostro orizzonte, e bisogna saperla guardare negli occhi
Questo terrorismo pare volere solo distruggere, pare la nuova
forma del nichilismo nella storia". Ci sono due espressioni
che voglio riprendere.
La prima: "bisogna saper guardare la guerra negli occhi".
Sì, i nostri morti italiani a Nassiriya ci hanno svegliato
dal sonno e dal sogno dell'utopia e ci hanno riportato alla
realtà. Alla realtà non solo di una guerra "classica",
ma di una guerra "nuova", inedita, qual è
quella del terrorismo, che ha bisogno di strade e di strumenti
nuovi. Certo, fin che il terrorismo colpisce le Twin Towers
di New York, noi europei ci siamo illusi di essere, codardamente,
al riparo dalla violenza terroristica. Ma in questi giorni
il terrorismo ha colpito ormai l'Occidente (a Bagdad: l'Onu
e la Croce Rossa internazionale) e l'Europa: gli italiani
a Nassiriya, a Istanbul ha colpito gli ebrei, i turchi, gli
inglesi. Le prossime vittime forse - come si minaccia - saranno
in casa nostra, sul nostro suolo europeo, di cui Istanbul
è già l'avamposto. Forse il terrorismo sta pensando
ai nostri simboli più forti: se facessero un attentato
alla Torre di Londra, o alla Tour Eiffel di Parigi, o in piazza
San Pietro a Roma, come reagiremmo, come dovremmo reagire
noi europei? Con le bandiere arcobaleno? Guardare in faccia
alla guerra non significa essere barricadieri e guerrafondai;
piuttosto, significa non abbandonare il "principio di
realtà". La Chiesa ha saputo dire parole molto
forti, che fanno appello alla responsabilità e non
favoriscono certo la fuga e la diserzione: come non ricordare
il celebre grido di Giovanni Paolo II contro la mafia ad Agrigento?
O il forte monito alla Comunità internazionale, sempre
dell'attuale Papa, per una "ingerenza umanitaria"
che fermasse le violenze della guerra civile nei Balcani?
E di fronte al "tiranno" (Hitler, Stalin), chi oserebbe
mai contestare che la posizione pacifista radicale appare
e può costituire una forma di acquiescenza al male
e non risulti invece più legittima una "lotta
di resistenza", che è stata esaltata - anche in
Italia alla fine del secondo conflitto mondiale - anche nella
sua versione "armata"? Insomma, la parola pace non
è un'idea astratta, né un concetto neutrale,
né un'utopia surreale: promuoverla può significare
anche difenderla, e la si difende se non si fugge dalla realtà,
ma ci si assume la responsabilità di "fronteggiare"
(per usare le parole di Ruini) la guerra, la violenza, il
terrorismo, come, mi pare, ha cercato di fare l'Italia con
le missioni umanitarie, condotte dalle forze militari, in
corso in varie zone del mondo. Glucksmann ce lo ha ricordato
con dignità: l'Italia è avanti rispetto a tanta
parte dell'Europa. Riconosciamolo: l'Europa è latitante
da troppo tempo. Di fronte alle tragedie di Sarajevo, dell'Algeria,
del Rwanda, dello stesso Kosovo - con l'intervento, salutato
allora come provvidenziale, promosso dall'America di Clinton,
e con la latitanza perfino dell'Onu - che cosa ha fatto l'Europa?
E' stata vergognosamente a guardare e ha preferito farsi gli
affari propri. Certo non sono così ingenuo da pensare
che Bush, l'America e la Gran Bretagna, nel dichiarare guerra
all'Iraq, o meglio al regime di Saddam Hussein, non abbiano
avuto e non abbiano degli interessi da difendere; ma non sono
nemmeno così ingenuo dal ritenere motivata da nobili
ideali di pace la posizione di Schroeder e soprattutto di
Chirac. Non c'è nulla di peggiore della posizione pacifista
o neutralista, ove questa nascondesse bassi interessi di bottega
in nome del nobile ideale della pace. Non può non rincrescere
che l'Europa sia stata incapace di operare una scelta comune
di fronte alla situazione in Iraq. Ci si lamenta poi dello
strapotere dell'America: in realtà dovremmo lamentarci
della debolezza dell'Europa.
La seconda espressione usata dalla Corradi: il terrorismo
come nuova forma del nichilismo. Aggiungo, provocatoriamente:
il terrorismo, in quanto forma del nichilismo (per cui tutto
può essere distrutto, tanto è forte nel terrorista
la voluptas moriendi, la voglia di morire, come la voluptas
necandi , la voglia di uccidere) rischia di stravincere laddove
trovasse una concezione debole e languida della vita. Il nichilismo
terrorista alligna laddove c'è il nichilismo culturale,
l'apatia esistenziale, il cinismo di massa, come anche l'ottimismo
ingenuo, l'idealismo a buon mercato: ma come stiamo, noi occidentali,
a salute spirituale? La diagnosi che Giovanni Paoo II ha fatto
degli europei nell'Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa,
uscita nello scorso giugno, è lucida in proposito:
"L'aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l'uomo,
per cui non c'è da stupirsi se in questo contesto si
è aperto un vastissimo spazio per lo sviluppo del nichilismo
in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico
e morale, del pragmatismo e finanche dell'edonismo cinico
nella configurazione della vita quotidiana" (n.9).
Insomma, non riesco a scacciare la sensazione che certo pacifismo
sia il prodotto della cultura borghese e salottiera di certo
Occidente, preoccupato più di salvare se stesso, che
delle sorti del mondo: un Occidente che vuole essere lasciato
in pace per conservare (fino a quando?) il proprio processo
vitalistico e il proprio piccolo benessere. La pace ideologica
e astratta, che non richieda sangue, ossia sacrificio personale
e comunitario, assunzione delle proprie responsabilità,
educazione alle cose supreme della vita, immersione nelle
dinamiche della storia (non per rimanerne vittime, ma per
orientarle e risolverle al meglio), esercizio di vera azione
politica, rispetto del diritto internazionale, difesa e promozione
dei diritti fondamentali della persona umana (come diceva
già Giovanni XXIII nella Pacem in terris) non solo
è improponibile e irrealizzabile, ma rischia, anche
contro voglia, di aprire la strada alla violenza e all'ingiustizia.
Pace dunque con tutti gli sforzi possibili, ma non a qualsiasi
prezzo. L'impegno per la pace non può non tenere conto
della realtà del male (che è dentro di noi,
prima che accanto a noi), della realtà del dolore e
del limite, di quella ferita profonda che il linguaggio della
nostra tradizione cristiana chiama "peccato originale",
da cui è venuto a salvarci il Figlio di Dio. Noi viviamo
ancora nella fatica della storia e non possiamo comportarci
come se fossimo già nel mondo beato di Dio. La pace
è dono di Dio, ma da accogliere e da vivere nella responsabilità
degli eventi storici, senza fughe, senza pavidità,
senza diserzioni. E' il paradosso concreto della posizione
cristiana, da non confondere né col bellicismo guerrafondaio,
né con il pacifismo utopistico. La posizione cristiana
sa tendere all'ideale senza mai dimenticare il reale. O, se
si preferisce, mette in gioco l'ideale, ma sempre dentro la
realtà: diversamente siamo all'ideologia. E non c'è
nulla di più dogmatico e di più pernicioso come
la posizione ideologica, soprattutto quando fosse ammantata
di evangelismo o comunque di verniciature religiose. Ecco
perché la posizione cristiana è difficile da
definire una volta per tutte: perché ti costringe a
prendere atto della realtà che è sempre storicamente
cangiante e ti mette in gioco senza offrirti soluzioni prefabbricate
e ti apre a prospettive e a tentativi sempre nuovi, attivando
fino in fondo la responsabilità della tua fede cristiana
e della tua umanità, dentro alle circostanze concrete
della vita. Questo spiega anche tante posizioni di Giovanni
Paolo II, che potrebbero apparire altalenanti o anche contraddittorie,
se fossero semplificatoriamente lette come "teorie ideologiche".
No, il cristiano risponde "qui e ora" agli appelli
di Dio nella storia: questa è la bellezza e l'impegno
dell'esser cristiani. Come ricordava già Paolo VI,
nel suo ultimo Messaggio per la Giornata della Pace del 1
gennaio 1978: "La Pace non è sogno puramente ideale,
non è un'utopia attraente, ma infeconda e irraggiungibile;
è, e dev'essere, una realtà; una realtà
mobile e da generare ad ogni stagione della civiltà,
come il pane di cui ci nutriamo, frutto della terra e della
divina Provvidenza, ma opera dell'uomo lavoratore. Come non
è la Pace uno stato di atarassia pubblica, in cui chi
ne gode è dispensato da ogni cura e difeso da ogni
disturbo, e può concedersi una beatitudine stabile
tranquilla, che più sa d'inerzia e di edonismo, che
non di vigore vigilante ed operoso".
Don Alberto Franzini
Parroco della parrocchia di S. Stefano
22 novembre 2003
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