Legalità? Certo! Ma che cosa è davvero la “legalità”
Seguendo in questi giorni il dibattito che si è innescato su Facebook in sede locale, mi è sorta la voglia di intervenire. Per evitare facili, ma anche pericolosi slogans, che ben poco hanno a che fare con la giusta preoccupazione di salvare la legalità nel nostro Paese.
Come è noto, tutto è partito dal “pasticcio” delle liste elettorali e dal successivo decreto del governo, firmato dal Presidente della Repubblica, avente lo scopo di riportare il problema nel suo giusto ambito. Appunto, quello della legalità. Ma, come è noto, si è gridato allo scandalo: l’iniziativa del governo è stata criticata come arrogante e addirittura lesiva della democrazia. Non ho alcuna competenza giuridica per entrare nel merito del problema, la cui soluzione va lasciata alla professionalità e alla responsabilità degli addetti ai lavori e delle sedi istituzionali. Ma voglio, invece, entrare nel merito delle espressioni che ho letto su Facebook in questi giorni e che hanno esaltato la legalità con tale enfasi – spesso a danno della moralità, considerata quest’ultima soggettiva, fluttuante, ideologica e quindi priva di valore per tutti i cittadini, di fronte alla legalità, ritenuta invece “laica” e quindi universalmente valida – che ho provato qualche sinistro brivido e ho provato a riflettere.
Una prima riflessione, che mi era già familiarmente presente ai tempi di Eluana Englaro, riguarda appunto l’interpretazione del “diritto”. C’è chi legge il diritto in una luce formale e procedurale (il “rispetto del protocollo e delle carte bollate”, appunto) e chi legge il diritto secondo una prospettiva sostanziale. Io sono tra coloro – e non sono certo il solo – che ritiene il diritto formale e procedurale, per quanto importante ed essenziale in una democrazia, un valore penultimo, un valore nell’ordine dei mezzi, rispetto al valore ultimo che deve essere attribuito invece alla giustizia, che è il fine ultimo del diritto. Entrando nel merito della vicenda italiana di queste settimane, mi sembra che proprio la giustizia e la democrazia esigano che in una competizione elettorale i cittadini elettori non possano essere esclusi dal voto. Chi ha sbagliato, ossia chi non ha adeguatamente osservato le procedure, è doveroso che in qualche modo debba pagare: ma credo profondamente lesivo di una giustizia sostanziale far pagare ai cittadini – e dunque accogliere a cuor leggero una competizione elettorale zoppa – la eventuale inadempienza di qualche responsabile di partito o di lista. La giustizia amministrativa italiana credo possa e debba avere tutti gli strumenti per colpire gli inadempienti e gli inosservanti: ma sarebbe grave e antidemocratico colpire, anziché i pochi responsabili, la vita democratica proprio in uno dei suoi momenti più caratteristici quali sono le competizioni elettorali. Nel caso di un conflitto fra diritto formale e diritto sostanziale, nel nostro caso fra il dovere di non lasciare impunite le inadempienze burocratiche e il dovere costituzionale di garantire il rispetto della vita democratica, non ci dovrebbero essere dubbi da che parte stare. Ritengo, fra l’altro, che a questo criterio – di rispetto del diritto sostanziale dei cittadini a votare – si sia attenuto il Presidente della Repubblica, firmando il decreto governativo. Bastava che tutti i responsabili delle varie forze politiche riconoscessero questo diritto sostanziale e avessero riconosciuto eventuali inadempienze e superficialità – non del tutto assenti anche in altre liste, oltre a quelle contestate a Roma e a Milano – che una soluzione si poteva e si doveva trovare: in nome della democrazia, in nome della Costituzione, ossia in nome del diritto di tutti i cittadini a partecipare al gioco democratico. Il diritto esiste per garantire e promuovere la vita sociale e non viceversa. Parafrasando una celebra espressione evangelica, il diritto esiste per l’uomo, e non l’uomo per il diritto.
La seconda riflessione deriva dalla storia: fin da quando Cicerone scrisse che “summum ius, summa iniuria” (De officiis, I, 10,33), ossia che la somma giustizia spesso sconfina nella somma ingiustizia, l’umanità ha assistito e assiste ai più gravi crimini e assassinii perpetrati in nome della legge. Forse che Hitler non è salito al potere attraverso le vie legali? Forse che nei gulag e nei lager non si sono uccise milioni di persone in nome della “legalità”? E che dire dei 5 milioni di aborti legali, per rimanere soltanto in Italia, che pesano come un macigno sulla nostra società e che, nella cultura odierna, sono annoverati addirittura fra i diritti della donna? Nemmeno il principio laicissimo di precauzione – che dovrebbe promuovere un atteggiamento di rispetto nei confronti di una vita almeno germinalmente umana - ha impedito e impedisce di tutelare la vita dei nascituri, che vengono eliminati “nel rispetto della legge”.
E vengo alla terza riflessione. Trattare la dimensione etica come una dimensione semplicemente confessionale e dunque priva di valore universale, significa mettersi su una china pericolosa, perché in tal modo si pongono le premesse per consegnare il diritto al più forte e al più furbo. La dimensione morale appartiene alla natura umana come tale. Quando la Chiesa parla di “valori non negoziabili” non fa riferimento ai contenuti specifici della morale cattolica, ma a quel patrimonio etico che è scritto nel cuore dell’uomo e che sta a fondamento della legittimità stessa delle leggi positive. La maggioranza parlamentare ha sempre e comunque ragione? Si deve sempre obbedire alle leggi dello Stato? Anche quando palesemente sono ritenute “ingiuste”? Si apre qui tutto il vasto campo del rapporto fra moralità e legalità. Non si dimentichi che una cultura veramente democratica della legalità dà il dovuto spazio anche all’obiezione di coscienza, ovviamente in quei campi in cui viene ritenuta incrinata la fondazione morale della stessa legge civile. E proprio l’obiezione di coscienza rende evidente il fatto che esiste un diritto naturale, riposto appunto nella coscienza dell’uomo, superiore al diritto positivo. E poi: in base a quale criterio è possibile dichiarare “ingiusta” una legge positiva e quindi, coerentemente, dichiarare “giusta” la disobbedienza civile? Solo in base alla sua incongruità con la Carta costituzionale? O non anche – come spesso è avvenuto nella storia – in base alla sua non fedeltà ai valori supremi della coscienza, che precedono ogni legge positiva dello Stato e ne costituiscono il presupposto etico fondativo? Voglio citare a proposito una riflessione di Giovanni Paolo II: “Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del bene comune come fine e criterio regolativo della vita politica. Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli maggioranze di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi” (Evangelium vitae, n. 70). Lo scivolamento della moralità nella legalità – come ad esempio appare nelle legislazioni abortiste – è un grave sintomo che rivela la patologia della cultura contemporanea, che vorrebbe trasformare ogni desiderio soggettivo in un diritto garantito dalla legge, privando la legge stessa di quel radicamento nell’etica che invece ne garantisce la bontà e la legittimità e spianando la strada verso quello Stato etico più volte condannato dalla storia. In un documento dei nostri Vescovi italiani del 1991, Educare alla legalità, si legge: “Proprio perché l’autentica legalità trova la sua motivazione radicale nella moralità dell’uomo, la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell’etica come dimensione fondamentale e irrinunciabile della persona”. E’ proprio il forte richiamo all’etica fondamentale che ha favorito nella storia il ribaltamento di situazioni ingiuste e drammatiche, ribaltamento che in certi casi può giustificare anche una “rivoluzione” o una “resistenza”.
Per noi cristiani, poi, è di massimo valore quanto l’apostolo Pietro dice negli Atti (5, 29): “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, che riecheggia la celebre espressione di Gesù: “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt 22,21). E ciò conferisce al cristiano la grande libertà di rispettare l’autorità costituita, ma di porre la Parola di Dio al di sopra di tutto il resto, come da sempre hanno sommamente testimoniato i martiri.
E’ quanto meno curioso che i figli e i nipoti dei rivoluzionari di un tempo oggi siano diventati i paladini fra i più intransigenti di una legalità spesso formalisticamente intesa e a volte usata solo come clava per la battaglia politica, che invece dovrebbe concentrarsi sui contenuti essenziali della vita sociale e comunitaria. Si tenga alta l’osservanza delle regole e delle norme, perché una democrazia non può vivere senza il rispetto delle regole; ma si tengano alti anche i sommi principi etici, senza dei quali una democrazia è destinata alla morte e la produzione legislativa rischia, nella colluvie burocratica e pletorica odierna, la banalizzazione e la contraddizione interpretativa, generando nei cittadini quello sconcerto e quello smarrimento che produce, a lungo andare, una generale sfiducia non solo nella legge, ma anche nell’attività politica e nella classe politica.
Alberto Franzini
Casalmaggiore, 18 marzo 2010
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