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COMUNICATO DEL 22 GENNAIO 2008

  di don Alberto Franzini, pubblicato su "La Cronaca" del 21.01.2009

HAMAS

La tregua che si sta profilando nella guerra tra Israele e le milizie di Hamas non risolve certo l'annosa questione palestinese. E' soltanto una pausa di tempo che permette agli attori in gioco di trovare altre strade che non siano quelle, rovinose e sanguinose, della guerra che, come hanno ripetutamente detto i nostri Papi, non risolve alcuna questione. L'invocazione della pace – una invocazione sacrosanta – non è soltanto un'esigenza della ragione: la ragione vuole anche che si conoscano le cause di questo conflitto e che non si confondano le responsabilità delle parti in causa. Non sono un esperto della materia. Ma chi è addentro alle questioni, sa perfettamente quanta retorica e quanta strumentalizzazione (ideologica e politica) girano attorno alla questione israelo-palestinese, una questione che si trascina fin dal 1947, quando il piano di spartizione previsto dall'Onu aveva assegnato il territorio di Gaza al futuro e mai nato Stato arabo. Da allora le varie guerre in Medio Oriente, combattute da Israele per l'affermazione della propria sicurezza e del proprio diritto ad esistere, non hanno mai risolto il problema del popolo palestinese, quasi sempre “usato” dai responsabili di fazioni estremistiche e terroristiche come scudo per la propria affermazione e come pretesto per addossare a Israele la responsabilità di una non volontà di pace.

Fino al 2005 – quando Israele decide di abbandonare Gaza, il che aveva acceso speranze per la soluzione dell'annosa questione palestinese – le due controparti erano chiare. Da una parte c'era Israele, dall'altra c'erano l'Autorità Palestinese, Fatah e i Paesi arabi moderati. Hamas era soltanto una piccola formazione estremistica, non in grado di imporsi alle milizie di Fatah e tanto meno capace di contrapporsi ad Israele. Negli ultimi tre anni le cose sono profondamente cambiate. L'Autorità Palestinese ha perso prestigio e potere, soprattutto nella striscia di Gaza, dove invece, dopo la morte dello sceicco Yassin e di Rantisi che avevano saputo tenere a freno Hamas, si è imposto proprio Hamas, la fazione più estremistica, grazie anche ai legami con Hezbollah e l'Iran, grande fornitore di armi ad Hamas. La guerra tra Israele ed Hezbollah nell'estate del 2006 e la guerra civile con Fatah combattuta a Gaza hanno indebolito quel concetto di deterrenza strategica che Israele aveva costruito in questi 60 anni della sua esistenza e hanno favorito l'ascesa dell'ala militare di Hamas, che si avvicina sempre di più all'asse sciita e quindi a Teheran. Gaza diventa in tal modo la roccaforte del fondamentalismo islamico nel Medio Oriente, destabilizzando non solo i rapporti con Israele, ma anche i rapporti con il mondo arabo moderato. Il conflitto israelo-palestinese, oggi, è diventato in realtà un conflitto tra Israele - e, politicamente, l'Occidente – e l'Iran. Non solo. Gaza è diventata anche il terreno di scontro tra l'asse sciita e l'asse sunnita per il controllo del Medio Oriente da parte di un diviso mondo arabo.

La “offensiva” israeliana in questo ultimo conflitto in realtà è stata una risposta – militarmente forte e purtroppo con gravissime perdite nel povero popolo civile palestinese – alle provocazioni di Hamas, che, lanciando per primi i missili su Israele e rompendo in tal modo una fragile tregua, hanno tutto il sapore di una dichiarazione di guerra ad Israele e di una resa dei conti all'interno del mondo arabo per la supremazia delle frange fondamentaliste – che non vogliono la pace e quindi hanno come scopo dichiarato la distruzione di Israele – sui Paesi arabi moderati, che invece vogliono la pace e dunque lavorano, insieme all'Occidente, per la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, nel Medio Oriente. Hamas sapeva bene che la forte reazione di Israele avrebbe trasformato, di fronte all'opinione pubblica internazionale, la risposta di Israele nel “male assoluto” di cui solo Israele porterebbe la responsabilità. Certo, nessuno applaude di fronte ai tantissimi morti che la controffensiva israeliana ha causato fra la popolazione di Gaza. Ma di fronte alle distruzioni di persone, di case e di scuole, che abbiamo visto in TV, vengono in mente le distruzioni delle città tedesche bombardate dagli alleati nella seconda guerra mondiale: a nessuno in Occidente sfugge che la responsabilità di quei bombardamenti, ossia la “responsabilità del male” non è degli alleati, bensì di Hitler e del suo sistema nazista. La promozione della pace – in questo consiste il vero amore al martoriato popolo palestinese – non sta negli slogan antiisraeliani e nelle marce pacifiste a senso unico, non sta solo nella denuncia della “sproporzione” della reazione israeliana, ma soprattutto nel lavorare affinchè si rimuovano le vere cause del “male”, a cui l'integralismo antisemita islamico di Hamas non è certo estraneo. La reazione di Israele – che certo va riconosciuta come “dura” – diventa comprensibile all'interno della sua logica: la difesa dei propri territori, la riaffermazione del principio di deterrenza anche militare del suo esercito e la dimostrazione dell'inesistente invincibilità del fondamentalismo terroristico di matrice islamica, che ha soddisfatto anche alcuni Paesi arabi moderati.

Un certo nostro mondo occidentale – di cui è espressione un manifesto firmato nei giorni precedenti a Londra da 300 accademici, in cui si chiedeva di “non permettere a Israele di vincere” (come se l'ebreo può essere onorato e amato solo quando è vittima) – continua ad essere sedotto dallo spirito disfattista di Monaco, quando, anziché appoggiare la soluzione di uno Stato palestinese, accanto allo Stato di Israele, sembra piuttosto intimorito dall'espansione dell'imperialismo fondamentalista, che continua a seminare terrore e miseria, anche nelle popolazioni del Medio Oriente. Nel caso del conflitto a Gaza, come ha ben scritto Piero Ostellino sul Corsera del 5 gennaio scorso, “le guerre e il terrorismo hanno trasformato due diritti eguali, e parimenti legittimi, ad avere un proprio Stato, in due diritti contrastanti”, come a volte appaiono nelle proteste di piazza, sia nel variegato mondo arabo, sia nel nostro mondo europeo.

Sono sempre di monito a tutti, cattolici compresi, le grandi parole di Papa Paolo VI nel suo primo Messaggio della Giornata della Pace, da lui istituita nel 1 gennaio 1968: “La pace non può essere basata su una falsa retorica di parole, bene accette perché rispondenti alle profonde e genuine aspirazioni degli uomini, ma che possono anche servire, ed hanno purtroppo a volte servito, a nascondere il vuoto di vero spirito e di reali intenzioni di pace, se non addirittura a coprire sentimenti ed azioni di sopraffazioni o interessi di parte (…). Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile o pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà, l'amore”.

 


 

 

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