La modernità e i rapporti con la Chiesa
I VALORI MUTATI DELLA SINISTRA
di Ernesto Galli Della Loggia, (Corriere della Sera, 26
giugno 2006)
E' singolare come a volte la sinistra dimentichi in fretta
i suoi eroi e le loro idee: per esempio come essa si sia dimenticata
in fretta di Pier Paolo Pasolini. Dopo averlo trasformato
in una vera e propria icona di spregiudicatezza intellettuale,
oggi sembra non ricordarsi quasi per nulla di ciò che
egli disse nell'Italia della grande trasformazione degli anni
Settanta. La ragione sta forse nel fatto che lo scrittore
friulano vide allora in anticipo quell'insieme di processi
sociali che nei decenni seguenti avrebbero mutato completamente
il volto non solo del Paese ma soprattutto della sinistra
italiana stessa, e li analizzò in modi che, proprio
perché poi confermati dalla realtà, oggi risultano
alquanto imbarazzanti. Come si è visto nella recente
discussione sulla fine del "cattocomunismo".
Tre i temi di fondo di quell'analisi, sviluppata da Pasolini,
specialmente negli "Scritti corsari". Riduco all'essenziale:
1) Sono i ceti medi i veri protagonisti della modernizzazione
del costume italiano, i cui valori da "sanfedisti e clericali"
di un tempo divengono ora quelli dell'"ideologia edonistica
del consumo" a sfondo individualistico con l'inevitabile
appendice del "laicismo" e della "tolleranza";
2) ma questo mutamento non ha alcun significato politico-ideologico
di tipo democratico o comunque progressivo, così come
non ce l'ha la vittoria del "no" al referendum sul
divorzio o la battaglia per l'aborto. Si tratta di un puro
e semplice adeguamento ai tempi: "Oggi - scrive Pasolini
- la libertà sessuale della maggioranza (il corsivo
è mio) è in realtà (
) un obbligo,
un dovere sociale";
3) la Chiesa cattolica, "gettata a mare cinicamente"
dai ceti medi insieme ai valori tradizionali, è la
principale vittima sociale del nuovo panorama ideologico:
fino al punto che lo scrittore auspica che essa, invece di
"accettare passivamente la propria liquidazione",
passi "all'opposizione": "la Chiesa potrebbe
essere la guida grandiosa ma non autoritaria di tutti coloro
che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista)
il nuovo potere consumistico (
) falsamente tollerante".
Come negare che queste affermazioni descrivano in nuce ma
con sufficiente esattezza alcuni mutamenti dell'antropologia
italiana, i quali a loro volta hanno inciso profondamente
sulla composizione sociale, i valori e gli orientamenti ideologici
della sinistra, in particolare di quella postcomunista? Invece
proprio da questo orecchio la cultura della sinistra non vuole
sentirci. Pasolini, insomma, deve restare un santino da omaggiare,
ma nulla di più. Tutto ciò che in qualche modo
richiama le sue idee va respinto con sdegno: il dire per esempio
che oggi la sinistra politica è diventata per molta
parte lo schieramento dei ceti medi dai valori individualistico-libertari;
l'affermare che in questa posizione non vi è nulla
di particolarmente "coraggioso", "democratico"
o "anticonformista" ma semmai è il contrario,
dal momento che quella è la posizione di gran lunga
maggioritaria in tutta l'area occidentale; che, di conseguenza,
sono coloro che in qualche modo vi si oppongono, a cominciare
dalla Chiesa, a sostenere un punto di vista socialmente minoritario
e dunque, se non altro per questo, più coraggioso.
Si tratta di banali verità suffragate da mille prove,
eppure enunciarle scatena ancora oggi un coro di ripulse.
Evidentemente esse toccano un nervo scoperto, e in effetti
è proprio così. Quelle banali verità,
infatti, mandano all'aria l'idea che l'opinione media di sinistra
ha di sé, minano l'immagine della sua identità
che, proprio perché sempre più vacillante, con
tanta più forza e a qualunque costo va invece ribadita.
Un'identità che è obbligatoriamente sentita
come quella di un'eterna minoranza sempre in lotta contro
forze soverchianti, contro nemici agguerriti e potenti. Tutto
l'immaginario della sinistra, tutte le autorappresentazioni
fantastiche di sé (dalle canzoni, agli spettacoli di
Dario Fo, al modo di presentarsi dei suoi menestrelli televisivi),
tutto è in un certo senso costruito su questo presupposto
eroico-minoritario. Esso serve a conferire grandezza e dignità
morale, a far sentire sempre intimamente migliori dei propri
avversari. Stare dalla parte della storia, dell'evoluzione
"spontanea" della società, può soddisfare
chi ancora si riconosce nel marxismo (ormai peraltro pochissimi)
ma certo non implica nessun prestigio etico: la sinistra ha
invece un forte bisogno psicologico di sentirsi innanzi tutto
buona. E cioè, per l'appunto, di sentirsi sempre e
comunque "contro", in minoranza, controcorrente
nel mare della storia: paradossalmente anche quando, invece,
essa vi naviga con il favore dei venti.
Anche da questo bisogno di minoritarismo nasce il rapporto
psicologicamente e culturalmente difficile della sinistra
con la modernità: di cui essa è da decenni e
per molti versi, specie nel campo dei valori diffusi, degli
stili di vita accreditati, delle mode, un'avanguardia conclamata,
ma rispetto alla quale deve, invece, sempre trovare il modo
di polemizzare, non potendo accettare di stare dalla parte
dei tempi, cioè di qualcosa che per definizione coinvolge
ed è rappresentativa dei "più" anziché
dei "meno".
Da qui, allo stesso modo - dal bisogno di considerarsi essa
sola destinata a recitare il ruolo di minoranza - da qui anche,
infine, il suo non riuscire a intendere affatto le obiezioni
della Chiesa alla ormai proclamata e ultramaggioritaria libertà
moderna in tema di ingegneria genetica, di orientamenti sessuali
e di cose analoghe: il suo travisare tali obiezioni facendole
passare come espressioni di un dogmatismo chiuso e nella sua
arroganza potentissimo, mentre si tratta solo del disperato
tentativo, mi pare, di limitare il dilagare distruttivo dei
tempi.
(Corriere della Sera, 26 giugno 2006)
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