Parrocchie di Santo Stefano e San Leonardo
Casalmaggiore
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12 gennaio 2008

TAZEBAO

Sì alla moratoria
Lettera di adesione del parroco all'appello per la moratoria per l'aborto, lanciata da Giuliano Ferrara, direttore de "Il Foglio", il 19 dicembre 2007


Caro Direttore,
aderisco cordialmente e convintamene alla Sua proposta di una moratoria per l’aborto. Finalmente, il Suo appello del 19 dicembre scorso ha sdoganato questo tema cruciale, finora o chiuso nel perimetro del “popolo cattolico” (comunque anch’esso parte integrante del popolo italiano!, e quindi con tutto il diritto e il dovere, costituzionalmente garantito dall’art. 21, di “manifestare liberamente il proprio pensiero”) o univocamente monopolizzato da coloro che, usciti vincitori dal referendum sulla 194, non hanno mai – contrastando gli elementari diritti di ogni matura democrazia, e perfino silenziando chi, fino ad oggi (compreso il card. Ruini), pur non approvando la 194, ne ha ripetutamente chiesto l’applicazione integrale – voluto riaprire il problema, ribadendo, con pervicacia irrazionale, che “la 194 non si tocca”. Anche Benedetto XVI, con il garbo che gli è abituale nella scelta del lessico, ma con la fermezza che gli è altrettanto abituale sui contenuti, ha auspicato l’apertura di un pubblico dibattito - che non è mai venuto meno nella Chiesa cattolica – sulla sacralità della vita umana.
Si è aggiunta in questi giorni la riflessione del ministro Amato, per tanti aspetti condivisibile e apprezzabile, laddove afferma che la legge 194 doveva servire come una iniezione di “consapevolezza, di responsabilità, di disponibilità di supporti e di aiuti”, e proprio per attuare lo spirito della legge, la quale afferma “non già un diritto, ma la liceità penale di una scelta tragica”. Ma è davvero così? Nella cultura di massa, invece, l’aborto è diventato un diritto e chi ha tentato di rimuovere, secondo lo spirito e la lettera della stessa 194, le cause di una “scelta tragica”, è stato messo alla gogna e accusato di oscurantismo e di negazionismo dei diritti fondamentali.
Trovo invece almeno due contraddizioni nella riflessione di Amato.
La prima: non cogliere la profonda analogia delle due moratorie. Si tratta in realtà di evitare pericolose schizofrenie culturali, piuttosto frequenti nel nostro tempo, e che sono debitrici nient’altro che a posizioni ideologiche. La vita che non può esser negata neppure al peggior delinquente, perché dovrebbe essere sacrificata nel caso dell’embrione? Non si tratta della stessa sostanza umana? Dello stesso palpito umano? Si faccia vedere a un bambino qualsiasi di una qualsiasi scuola elementare l’ecografia di un feto e chiedetegli: è qualcuno o è qualcosa? Appartiene alle cose o appartiene all’umanità? La risposta sarà meravigliosamente univoca. Dunque, le due moratorie sono strettamente imparentate, anzi, sono due facce dello stesso rispetto della vita. Amato scrive: “Ho sempre chiamato bambino, non feto, la creatura che cresce nel ventre materno”. Che cosa impedisce allora ad Amato, alla sua razionalità, alla sua onestà intellettuale, di essere conseguente fino in fondo, se non una schiavitù ideologica, ossia la dipendenza da un concetto di progresso che vuole a tutti i costi ridurre a “cosa” l’embrione e vuole a tutti i costi rendere la madre proprietaria di una vita che, una volta accesa, è da lei distinta e quindi chiede il sommo amore, appunto il “diritto di nascere” e tutto l’aiuto possibile a nascere?
La seconda contraddizione. Amato è debitore di un altro luogo comune, quando vorrebbe mettere insieme, mentre in realtà cade in una pericolosa deriva che sfiora il razzismo, gli embrioni e i bambini del Darfur e i figli degli immigrati. Proprio perché “bisogna amare gli embrioni come i bambini e i bambini come gli embrioni”, che senso ha lanciare un grido di pietà verso i bambini poveri e derelitti del mondo e non impedire che 50 milioni all’anno di embrioni siano privati della vita? I primi contano forse più dei secondi, se anche “gli embrioni sono bambini”? Quando una società diventa incapace di tutelare il più debole dei suoi membri, che è il cucciolo umano, può autodefinirsi emancipata fin che vuole, ma in realtà è così affetta dal morbo del cinismo e del soggettivismo da conferire un sapore di sinistra ipocrisia a tutte le sue denuncie sui mali della società, a tutte le sue lacrime sui dolori del mondo, a tutte le sue proteste sui disastri ecologici, a tutte le sue marce contro la guerra.
I diritti umani non consentono scelte arbitrarie: simul stabunt, simul cadunt. Ogni selezione porta inevitabilmente a forme di discriminazione e di ingiustizia.
Caro Ferrara, siamo in tanti con lei, perché siamo in tanti con la vita. Grazie.


Don Alberto Franzini
Parroco di Santo Stefano




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