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PADRE GIACINTO BIANCHI (1835-1914)

La missione di un uomo di Parola

In occasione dell'anno sacerdotale, e' stato proposto all'intera zona pastorale IX, il percorso "VIVIAMO L'ANNO SACERDOTALE", una serie di quattro incontri di catechesi su altrettante figure di preti: lunedi 22 febbraio: DON PRIMO MAZZOLARI a cura del Prof. Don Bruno Bignami (foto); lunedi 1 marzo: DON VINCENZO GROSSI a cura di Sr Rita Bonfrate (foto); lunedi 8 marzo: DON GIACINTO BIANCHI a cura di Sr Antonella Papa; (foto) lunedi 15 marzo: DON CARLO GNOCCHI a cura di Don Emilio Bellani.

Di seguito la relazione del 8 marzo a cura di Sr Antonella Papa

 

Durante quest'anno la Chiesa ci invita a meditare sulla figura del sacerdote. Questa è l'occasione adatta per presentare padre Giacinto Bianchi, un semplice prete che visse la sua vocazione non come una meta raggiunta, un ministero da esercitare, ma nella costante attrazione per la persona di Cristo, che egli testimoniò in ogni circostanza della sua lunga vita. Completamente affidato alla Provvidenza, privo di qualunque sicurezza umana, sempre povero e spesso malato, l'unica sua forza era nella Parola che annunciava.

 

Cenni biografici

Giacinto Bianchi nacque nel 1835 a Villa Pasquali , in provincia di Mantova, nella diocesi di Cremona. Ordinato sacerdote nel 1858 , trascorse i primi anni come coadiutore nelle parrocchie del circondario, dove la sua intraprendenza pastorale suscitò ben presto le ostilità laiciste. Nel 1865 fu quindi costretto a trasferirsi a Genova , che diventerà sua patria adottiva, accolto nella canonica di Santa Sabina dal priore Giuseppe Frassinetti, il grande maestro di ascetica e morale. In quel fecondo ambiente spirituale, padre Giacinto trovò ben presto la sua collocazione divenendo stretto collaboratore del Frassinetti. (anticipando quasi le comunità sacerdotali). Quando il 2 gennaio 1868 Giuseppe Frassinetti morì fra le sue braccia, per padre Giacinto iniziò una nuova fase di vita. Ospitato dapprima nella parrocchia genovese di san Siro, visse col ministero della predicazione; frequentando gli ambienti della chiesa genovese fu attratto della presenza cattolica in Palestina. Proprio nel corso del 1868 compì il primo dei suoi numerosi viaggi in Terra Santa . Ma al ritorno sentì di non avere ancora trovato una propria direzione: il suo animo inquieto lo spinse dunque a continuare la ricerca. Nel luglio 1870 fu ammesso nel noviziato gesuita del Principato di Monaco e durante il breve periodo di permanenza nella Compagnia (ne sarà dimesso ufficialmente il 21 novembre 1871) venne inviato come missionario. Da novizio gesuita, nel marzo 1871 giunse a Pigna, piccolo centro nell'entroterra di Ventimiglia, che sarà la culla della sua opera. Richiesto dalla popolazione, e incoraggiato dal vescovo, vi si poté stabilire come reggente sin dal luglio 1871. Iniziò così un intenso apostolato, che trasformò la sua inquietudine in impegno concreto. Egli seguì in particolare le Figlie di Maria e in poco tempo la Pia Unione prosperò sotto la sua guida; nel dicembre 1874 egli riuscì a portare a Pigna Giovanni Bosco e gli propose di aprire in paese, in una piccola casa in affitto, un noviziato femminile nel quale diverse giovani erano pronte ad entrare. Don Bosco fece una conferenza alle Figlie di Maria e, poco tempo dopo, l'11 febbraio 1875 , alcune di queste iniziarono un'esperienza di vita comune dalla quale sarebbe sorto l'istituto delle Figlie di Maria Missionarie . La qualifica delle giovani pignesi si concretizzò nell'agosto 1876, quando le prime cinque risposero ad una proposta di don Giacinto e partirono per Betlem in aiuto al missionario genovese don Anto nio Belloni, fondatore dell'Opera della Sacra Famiglia. Vi rimasero fino al 1892, quando furono costrette a tornare in Italia poiché l'Orfanotrofio e gli altri Istituti del Belloni furono rilevati dai salesiani, che vi portarono le loro suore. Lentamente le missionarie trovarono un nuovo campo di lavoro e apostolato nell'educazione delle giovani e nelle attività parrocchiali in piccoli centri della zona padana e in pochi anni, grazie anche alla guida e ai sacrifici di padre Giacinto, l'istituto rinacque a nuova vita.

Don Giacinto restò a Pigna fino al 1878 , quando fu costretto ad allontanarsene a causa di un' accusa di appropriazione indebita, del tutto falsa . Tornò a Genova e vi rimase per oltre 30 anni, durante i quali si allontanò spesso dal capoluogo ligure per svolgere un intenso ministero di predicazione in Italia e al servizio degli emigranti in Svizzera. Nel 1911, già malato, si ritirò a Villa Pasquali, dove nel 1901 aveva aperto una casa per le sue suore riscattando l'eredità paterna. Nel suo paese iniziò la costruzione di un oratorio dedicato a S. Ermelinda, vergine belga del IV secolo scelta quale protettrice delle Figlie di Maria Missionarie. Le previste risorse, però, vennero meno per il ritiro di una benefattrice e l'opera rimase incompiuta, destinata ad essere demolita nel 1925. Questa vicenda procurò gravi sofferenze all'anziano sacerdote, ormai infermo, e amareggiò i suoi anni estremi.

All'età di 79 anni , don Giacinto Bianchi morì l'11 febbraio 1914, festa della Madonna di Lourdes: era nato il 15 agosto, solennità dell'Assunzione di Maria. Il 6 dicembre 2008 è stato dichiarato venerabile.

 

Lo spirito missionario

Padre Giacinto visse la propria vocazione missionaria attraverso il ministero della parola. Per molti anni si dedicò ai più umili con la predicazione, l'insegnamento, la catechesi. La sua vita si è identificata con l'annuncio del Vangelo. Non volle mai una sede stabile, né un incarico vincolante. Percorse l'Italia, fu in Svizzera per assistere gli emigranti, fece numerosi viaggi in Palestina insieme alle sue Missionarie. L'unico titolo di cui amava fregiarsi fu quello di Missionario Apostolico, ottenuto nel 1890 da Propaganda Fide come riconoscimento del suo dono di saper parlare al cuore dei fedeli.

La missione popolare è un efficace metodo di evangelizzazione che nei secoli ha raggiunto tanti cuori cristiani risvegliandoli alla bellezza della fede. Questo è stato il compito che padre Giacinto ha sentito affidato alla sua vocazione. La sua esperienza traspare dalle parole che descrivono le attese dei fedeli e la loro accoglienza al missionario:

“Appena in un paese ed anche in una città corre la voce che verranno i Missionari, tutti ne parlano, li aspettano, li ascoltano, e la Dio mercé alla loro parola si convertono, e si commovono alle lacrime quando li vedono partire e quasi non contano i loro preti, e si tengono onorati delle loro memorie, tanto li amano in pochi giorni; nel Missionario riguardano proprio il rappresentante di Dio” .

Padre Giacinto era un predicatore attento e scrupoloso, capace di interessare, attrarre e toccare gli animi. Come dimostrano i numerosi autografi che ci sono restati, egli ha sempre preparato i suoi interventi con metodo e rigore, con ricchezza di riferimenti alla Sacra Scrittura, ai Padri della Chiesa, alla grande storia civile e religiosa. Ma la cura del discorso e il gusto retorico, di cui pure è capace, secondo don Giacinto non devono mai compromettere la piena comprensione del pensiero. Questo è lo stile che raccomanda e che certamente avrà cercato di mettere in pratica:

“Parlare con chiarezza, al punto che occorrendo si sacrifichi per essa e la nobiltà della frase e la purità del linguaggio; però non triviale, ma trasfondere lo spirito colla semplicità, che mentre intende lo zotico ascoltante, ode il dotto; essere popolare e sublime ad un tempo, e sempre lontano da quella falsa elevatezza che nasconde il pensier fra le nubi”.

Fin quando non fu impedito dalla malattia, fu sempre pronto a recarsi ovunque fosse chiamato a predicare (parrocchie, istituti, conventi, ospedali). Non solo perché questa attività era la sua unica, e spesso incerta, fonte di sostentamento, ma per la fedeltà assoluta alla sua vocazione. Egli era spinto da quell'ansia irrefrenabile che faceva gridare a san Paolo: «Guai a me se non annunciassi il Vangelo!» (1Cor 9,16).

Tra i numerosi manoscritti che padre Giacinto ha lasciato come documentazione della sua attività di predicatore, ci sono tre testi, fra i più densi e significativi, che sono particolarmente indicati per comprendere la coscienza che egli aveva di sé come cristiano e sacerdote. Sono le tracce di conferenze da lui tenute ai Missionari Urbani di Genova, congregazione fondata nella prima metà del Seicento, alla quale anch'egli fu ascritto dal 1871.

Perciò lasceremo ora soprattutto a lui la parola, ascoltando ciò che oltre un secolo fa disse ad altri sacerdoti, certamente pensando anche a sé. Sono consigli validi anche per noi, poiché esprimono la dimensione missionaria della Chiesa, quella che il Concilio ha riconosciuto propria di ogni battezzato.

 

«Conosci te stesso» per il bene di tutti

La prima indicazione di padre Giacinto riguarda la persona: egli riprende l'insegnamento degli antichi e vuole che il missionario innanzitutto conosca se stesso. Le sue qualità devono essere quelle di un uomo integro e solido, capace di migliorarsi attraverso un discernimento continuo su di sé:

 

Conoscer la sua indole, le sue relazioni e doveri, la via per cui può divenire più virtuoso, questa cognizion di sé l'innalza e nobilita” .

 

Solo avendo chiara coscienza di sé, con i propri pregi, messi al servizio dell'annuncio, e i difetti da conoscere e combattere, il missionario può essere strumento degno del Vangelo, adeguato rappresentante di Dio tra gli uomini:

“Ora ad una grandezza tale non vedete come sia necessario che il Missionario conosca sé stesso. Non parlo tanto della sua capacità intellettuale, quanto del suo spirito e zelo, anima, cuore, volontà, e sola intenzione di piacere a Dio e salvare anime. Bisogna conoscersi bene, tanto più che oggi il mondo, più che mai maligno, fissa due occhi di lince addosso al Missionario per scrutarlo, e così aver modo di giudicarlo male”.

Secondo padre Giacinto, nella persona del missionario trova sintesi ed espressione la natura della Chiesa:

“Il Missionario in special modo mantiene le verità evangeliche [...] Gesù Cristo l'ha date al mondo e le trasmette ai popoli per mezzo del Missionario; egli è l'uomo della verità, è l'eco incaricato di ripeterla, è l'organo, l'interprete della verità cattolica, è un padre spirituale, e il popolo lo chiama anche: Difensore della verità [...] Sia esso l'eco della Parola di Dio, l'eco fedele del Verbo divino: sia la luce che illumina le intelligenze sulle verità cattoliche, sia il pane dell'anima, quegli che rigenera, purifica, santifica”.

Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI afferma che «L'essere umano si sviluppa quando cresce nello spirito, quando la sua anima conosce se stessa e le verità che Dio vi ha germinalmente impresso» (n. 76). Riferendosi poi alla Populorum progressio di Paolo VI, riconosce che «l'uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale» (n. 78). Padre Giacinto esprimeva una visione affine a partire dalla responsabilità del missionario:

“[Egli] dispensa secondo il bisogno i più utili documenti alla prosperità, i più dolci conforti alla sventura, i soccorsi alla miseria, e promuove il bene vero della società inculcando in nome di Dio le virtù private, che ne sono il fondamento, e le pubbliche, che ne forman la floridezza” .

La preparazione e la conoscenza di se stesso, aggiungerà più tardi P. Giacinto, sono fondamentali per l'annuncio del Vangelo.

 

Chiamati ad evangelizzare

È attraverso la parola che il missionario esprime la dignità di annunciatore del Vangelo. I suoi discorsi e la sua predicazione manifestano la grazia ricevuta da Dio, che lo ha prescelto per guidare gli uomini alla salvezza.

 

“Predicatore Missionario, ambasciator di Cristo è presso le genti, è il più importante, sublime, onorifico: chi veste tal carattere - onorato nella relig[ione] così, inviato da Dio - tratta le cose eterne, quindi deve vivere e parlare da far sentire ai popoli la divinità della sua missione, applicarsi seriamente per ben formulare il discorso. Dio rinvigorirà col suo spirito la predicazione perché dee ammaestrare, confortare, dirigere la natura nelle sue deviazioni, la coscienza nelle sue incertezze, la virtù nelle sue prove, la pietà ne' suoi slanci”.

 

Padre Giacinto è consapevole di vivere in un'epoca di crisi che inizia decisamente a mettere in discussione i fondamenti stessi della fede. L'appartenenza al popolo cristiano non è più scontata e naturale. Il missionario è chiamato a riconquistarla per ogni persona con la forza del proprio esempio, con una vita che dà corpo e sostanza alle parole dell'annuncio:

 

“È la voce nuova necessaria per santamente commovere la moltitudine che a lungo andare non fa più caso della voce del Vangelo. È pane, fiaccola, spada, semente, e se ai giorni nostri non ha efficacia non incolpiamone i fedeli mancanti delle necessarie disposizioni: ma accagioniamone con santa umiltà un po' certi Missionari predicatori”.

 

L'efficacia della predicazione dipende dalla persona: è chiaro il suo giudizio su chi si limita a svolgere un compito e non vive la vocazione come testimonianza. Dio affida la potenza della sua Parola al Missionario. A lui la responsabilità e l'onore di accoglierla per primo e trasfigurarla nella propria vita, così da custodirla e diffonderla tra i popoli.

Padre Giacinto esprime con le parole della lettera agli Ebrei il valore di questo dono di grazia che rivela all'uomo la verità sul proprio essere:

“Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).

Ma questa profondità è possibile solo in un rapporto umano, quando la parola diventa vita ed arriva a toccare il cuore, il discorso si fa presenza e colpisce le persone. Cioè quando Dio opera attraverso il Missionario, come spiega padre Giacinto commentando il brano della lettera:

“Queste parole ci dan l'idea della predicazion del Missionario, che cioè ei predica Dio, non se stesso, e Dio solo manifesta, non il suo studio. Dio effonde nei cuori e lo fa conoscere. Quindi fa vivere e crescere nell'anima la fede, la speranza, l'amor di Dio, e penetra nella coscienza e scuote il cuore, e commuove e converte. S. Paolo atterrò l'idolatria e piantò la fede cristiana, mutò la faccia della terra colla sua predicazione - così il Missionario”.

A questa testimonianza, che è azione efficace nel mondo, la Chiesa e quindi ogni cristiano sono chiamati in ogni tempo. Padre Giacinto continua:

“Ma come non succedono questi effetti coi Missionari? Non è più la stessa predicazione? La vocazione, l'ispirazione che fa i Missionari non è più quella degli Apostoli? No - no, e come mai? E S. Paolo ci ha indicata la cagione del tristo spettacolo, che spesso presagiamo. Tempo verrà - ed è il nostro - cui gli uomini non potranno patire la parola della verità: avranno orecchi per non intendere la verità, non ameranno che le favole e le menzogne, non patiranno più sostenere questa parola forte, severa” [cfr.2Tm 4,3-4].

È la Parola divenuta carne l'unica capace di rispondere con verità alla domanda più profonda che agita il cuore umano. Nel 1986 il cardinale Ratzinger affermava: «Nell'uomo vi è un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo». Nel sacerdote, predicatore e missionario che raggiunge i fedeli, rivive il mistero dell'Incarnazione, l'amore di Dio che incessantemente torna «a trovare l'uomo».

Il missionario predicatore è innanzitutto un testimone, vive la parola per poterla poi trasmettere, si prepara per parlare con convinzione ai popoli affidatigli, e sa bene il missionario che egli è solo un servitore della verità, e sarà Dio a rinvigorire il suo spirito perché ha la grande missione di far conoscere la parola di Dio al popolo.

La predicazione di Don Bianchi è incisiva, va' diretta al cuore, la sua proposta non è generica, ma rivolta a coloro che la possono accogliere. Ne è testimonianza l'appello fatto nella predicazione a Genova nel 1863: «Non v'è proprio nessuno tra voi che si voglia dedicare al bene per amore del Cuore di Gesù?» . Da queste parole Eugenia Ravasco si sentì chiamata proprio dal Cuor di Gesù a fondare l'Istituto delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Così anche, più tardi, in una altra occasione, nel 1875 a Pigna dirà: «Non ci sarebbe qualche brava figliola disposta a recarsi in Palestina, a portare la sua opera a favore dell'Orfanotrofio Belloni a Betlemme?» . E dalla risposta di alcune giovani a questo appello nascono le Figlie di Maria Missionarie.

 

 

Il comandamento dell'amore

All'inizio della sua prima enciclica, Benedetto XVI descrive la dinamica della fede cristiana: « Abbiamo creduto all'amore di Dio : così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus charitas est, 1).

Giacinto Bianchi ha fondato la sua vita sull'amore di Dio, che ha riempito la sua esistenza di cristiano e di missionario. La sua fede si è espressa pienamente nella predicazione, così le sue parole ci portano nel profondo di un autentico cuore sacerdotale, divorato dallo «zelo», il desiderio di salvare le anime. Nell'ultima predica ai Missionari Urbani, che può essere considerata come un'autobiografia spirituale, egli manifesta la propria irriducibile passione per la felicità e la verità dell'uomo, che si realizzano in Dio per mezzo di Gesù Cristo annunciato dal missionario:

Dio è carità, e questa Ei portò in terra quando tutte le genti non si amavano, non si compativano, e disse: «Amatevi l'un l'altro come io ho amato voi». Si scosse, [si] aprì il cuor dell'uomo e prese ad amare i suoi simili, anzi li chiamò e considerò fratelli. E così avvenne che come in cielo tutti sono uniti al Padre unico eterno, così in terra fu di tutti un solo amore, e questo per apprendere la verità e la carità di Dio e rendersi vicendevolmente felici, il che forma lo zelo.

[...] Lo zelo è necessarissimo sempre, ma più che mai oggidì. Ed il Missionario lo ha come un dolcissimo dovere.

Non credo esagerare a dirvi che lo zelo è l'immolazione di noi a Dio pelle anime, perché è l'amor di Gesù passato nell'anime nostre pel prossimo, quindi sta a noi vivere di sacrifici, di lacrime, di gioie pelle anime [...] Amiamoci l'un l'altro come Egli ha amato noi, e diamo la vita pei fratelli come Ei morì per loro. [...] I Missionari hanno questo ardente amore delle anime, questa passione di comunicare i tesori della fede, e non sarà mai che si estingua né si raffreddi.

[...] Non basta ora una virtù comune e ordinaria, vuolsi eroismo: tempi difficilissimi i nostri, in cui i deboli abiuran la fede, i tepidi vivono indifferenti, e i fedeli, quasi tutti, mortificazioni ed amarezze non vogliono. I Missionari siano quelle anime grandi, che vincono gli ostacoli.

[...] L'età nostra è un tempo di esitazione: si tratta di eleggere tra Dio e l'uomo, tra la fede e la ragione dell'uomo ribellata. Il cattolicesimo si mostra come è sempre, immutabile, in piedi in mezzo a tutte le rovine, che tutte le persecuzioni dei governi, o dell'intelligenza non possono vincere né abbattere, e quanti mali avverranno ancora, quali giorni lugubri arriveranno! Dio dimenticato e oltraggiato, la redenzione disconosciuta, gli spiriti accecati, i cuori rotti, disonorati; i pregiudizi e gli odi rinascono continuamente: o Dio, come è offeso il Vostro nome, offuscata la gloria esteriore!

Ora dinanzi a questi mali, a queste profonde piaghe, basterà levar lamenti e piangere, e muoversi un poco? No, è tempo di correre ove è il pericolo, di operare con grandi sforzi, è tempo di zelo eroico perché la società langue separata da Dio.

Al superbo razionalismo che mette nella stessa bilancia la ragione e la rivelazione, che deride i misteri augusti e compiange le nostre superstizioni, noi dobbiamo rispondere con una parola energica, piena di fede, senza temere. All'egoismo che ha serrati i cuori e che non cerca che l'interesse proprio, che non ha un sentimento di compassione vera per gli afflitti e disgraziati, noi opporremo la carità ardente, quella carità che parla poco e opera molto, che si dà all'ultimo, al più piccolo e povero dei fratelli.

Questi tre punti non esauriscono sicuramente il pensiero di P. Giacinto, ma sono punti nodali. Dalla preparazione del missionario, della missionaria derivano poi atteggiamenti che oggi definiamo di inculturazione: comprendere, aspettare, rispettare i tempi degli altri. Dalla predicazione scaturiscono criteri fondamentali che portano ad una conversione: il missionario quindi deve conoscere l'uditorio, vivere la Parola che annuncia, trasmetterla con convinzione ed efficacia, nella sua semplicità ed essenzialità. Avere la profonda coscienza che egli è solo uno strumento: non predica se stesso, le sue idee, la sua cultura, ma il messaggio della salvezza, il messaggio di Gesù.

Lo zelo, non è solo un abito esterno che il missionario/a rivestono, ma è un impulso che dall'interno muove la persona ad agire lasciandosi guidare dallo Spirito. E' lo zelo che sollecita l'apostolo ad andare, ad essere sempre il primo a servire, ad accorgersi dell'ultimo, dell'escluso, del più povero.

 

L'Amore a Maria

Padre Giacinto nasce il 15 agosto e muore l'11 febbraio: due date mariane che definiscono la sua vita e la sua devozione più profonda. Egli ha sempre provato per Maria una confidenza naturale, quasi una vicinanza concreta che lo ha accompagnato nel lungo cammino della vita. Il dogma dell'Immacolata Concezione nel 1854 e le apparizioni di Lourdes nel 1858 segnarono la giovinezza e la vocazione di padre Giacinto. Maria divenne modello e sostegno della sua missione sacerdotale, centro della sua parola come esempio di umiltà e speranza per tutti i cristiani.

Maria! Dio la diede a noi per Madre al momento della Sua morte e deve essere nostra Madre. È proprio della madre avere pietà dei figli suoi e consolarli in tutto. Ora Maria deve soccorrerci tutti. Uno dei segni d'affetto più naturali e più certi di un vero, forte e costante amore, è il compatire, il confortare e sollevare nelle tribolazioni nelle miserie, nei bisogni, la persona amata. Che cosa non fa una madre nel vedere in pericolo suo figlio? Ella non bada a stenti, non si cura delle fatiche ed espone persino la sua vita per donarla al figlio.

Ora se fanno tanto le madri terrene per i figli, Maria, che ci ama assai più che tutte le madri insieme, con quanta pietà vedrà e compiangerà le nostre sciagure, i nostri pericoli! È necessario che la Vergine sia più conosciuta, perché risplendano sempre più la Sua misericordia, la Sua potenza e la Sua grazia. [Aut. 45a]

 

Padre Giacinto ci raggiunge nell'attualità e nella verità di questa sua vibrante esortazione che oggi vale per ogni cristiano.

«Per la sua fede, sebbene morto, parla ancora» (Eb 11,4): ciò che la lettera agli Ebrei dice di Abele, il giusto gradito a Dio, si attaglia perfettamente al predicatore missionario Giacinto Bianchi. Le sue parole non smettono di operare il bene.

 

Sr. Antonietta Papa

 


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