"IL TESORO DELLA TRADIZIONE "
 
da "Ritrovarci": anno XXX - numero 4 - settembre 2007

Fulvio Rampi

IL TESORO DELLA TRADIZIONE

Il 7 luglio scorso è uscito un documento di Papa Benedetto XVI, il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970. Abbiamo chiesto un commento, che volentieri pubblichiamo, al maestro Fulvio Rampi, direttore della Cappella Musicale della Cattedrale di Cremona.

 

Il papa, come sempre, ha detto la verità. E questa volta lo ha fatto sollecitando il ristabilimento di equilibri perduti ed ancor più invocando uno sguardo nuovo e sinceramente benevolo nei confronti della tradizione ecclesiale. I rischi di questo Motu proprio sono fin troppo evidenti e vanno certo considerati e discussi schiettamente, ma non può non prevalere, come primo sentimento forte e fondante, la riconoscenza per un dono ricevuto. Un dono impegnativo, forse scomodo, ma che come tale va riconosciuto dall'intera comunità dei credenti.

Il papa ci invita a ripensare “radicalmente” il rapporto con il nostro passato, senza ostacoli ideologici, senza rigidità e nella ferma consapevolezza che gli orizzonti vadano allargati in ogni direzione, tanto verso il futuro quanto verso il passato.

Personalmente leggo in questo documento una forte esortazione a sentirmi un figlio chiamato a far pace con i genitori. Il Motu proprio non riduce la dignità e la originale ricchezza della condizione di figlio – ovvero di credente che ha maturato la propria vita di fede nell'alveo della riforma liturgica post-conciliare – ma interroga tutti sulla qualità vera della relazione con i genitori. Una relazione da risanare, da impostare nel segno di una profonda riconoscenza e al tempo stesso della necessaria “distanza”; una relazione che, ad un figlio ormai sposato, non solo non fa perdere di vista la propria nuova condizione di vita, il suo percorso personale e originale ma che, sorprendentemente, può arricchire di nuova luce ogni scelta futura. Celebrare con il Messale preconciliare è un po' come tornare alla casa dove si è vissuto per lungo tempo con i genitori per fermarsi con loro a pranzo, per ascoltarli ancora, per far festa, per risentire e gustare le “cose antiche” in un tempo nuovo col cuore gonfio di gratitudine. I genitori hanno sempre qualcosa di buono da dire ai figli, senza per questo volerli trattenere e senza indulgere ad eccessivi ripiegamenti sul passato.

Tornare dai genitori, certo, ma non per riparare ad un fallimento di vita, non da “figliol prodigo”, non come rifugio dopo una delusione, non come rifiuto dell'esperienza presente, ma con “rendimento di grazie” e con la gioia sincera di chi ritrova i genitori in buona salute. Se il Messale preconciliare – come si premura di ricordare il papa – non è mai stato abrogato, significa che i genitori non sono morti e che, di conseguenza, non solo non li possiamo ignorare o dimenticare, ma che per “onorarli” non possiamo pensare di cavarcela portando un fiore sulla loro tomba che non c'è. Ciò non attenua in alcun modo il senso e il peso di una riforma liturgica – peraltro ancora troppo giovane per mostrare frutti maturi – che come tale, ovviamente, implica discontinuità e getta nuova luce sul significato della lex orandi . Ma, mi chiedo, tornare a riflettere serenamente – per fare un solo esempio – sul valore simbolico e sostanziale del celebrante che compie il rito della consacrazione “rivolto al Signore” è così disdicevole? Più in generale, non può essere questo il tempo favorevole per ripensare l'istanza assemblearista (oggi assolutamente prevalente) nella prospettiva di un giusto equilibrio con la non meno urgente istanza della ministerialità?

Detto questo, l'equilibrio tra riconoscenza filiale e necessaria distanza è la vera sfida di sempre anche all'interno della Chiesa e sta tutta davanti a noi con i suoi rischi, con le posizioni integraliste a cui siamo abituati, con l'aria di rivincita che si respira da una parte e con un senso di delusione e di insofferenza che si percepisce dall'altra. E' facile prevedere che, come è stato per le superficiali interpretazioni dei documenti conciliari, anche questo Motu proprio finirà per creare contrapposizioni o, come qualcuno sostiene, una sorta di “supermercato liturgico”. E' ancor più facile prevedere (lo si sta già facendo) che si arrivi alla semplicistica identificazione fra messa in latino e rito preconciliare, fra messa in italiano e rito attuale. Non occorre molta fantasia per immaginare una ancor più grave semplificazione in ambito liturgico-musicale: tutto ciò che ha a che fare col latino (il gregoriano, la polifonia classica e in genere tutte le composizioni su testo latino) rischia di essere ora associato in modo esclusivo al Messale di Giovanni XXIII; la nuova liturgia, finalmente libera da contaminazioni del passato, necessiterebbe dunque solamente di nuove cose, tutte rigorosamente in italiano. La legittimazione del rito antico può nutrire la sottile tentazione di accettare la legittimità dell'antico repertorio liturgico-musicale solo in tale ambito. Mi chiedo dunque se sia superfluo ricordare che la messa in latino è di norma celebrata secondo il Messale di Paolo VI e che il Graduale Romanum del 1974 è il libro ufficiale dei canti per la liturgia eucaristica della Chiesa Cattolica. Si potrebbe continuare all'infinito ipotizzando scenari, ahimé, prevedibili. Ma non è il caso.

Il Motu proprio di Benedetto XVI attende ora una nostra interpretazione nello spirito indicato dal papa stesso. Occorre vigilanza perché la provvidenziale apertura di una porta non giustifichi la chiusura di altre. Occorre riflettere sugli errori di giudizio a tutt'oggi radicati nella pastorale liturgica su categorie quali la partecipazione attiva. Occorre insomma un nuovo, appassionato sforzo culturale – tanto da parte dei Pastori come dei fedeli – per riscoprire il senso vero del tesoro della tradizione, che non è roba da tradizionalisti o da nostalgici. Il travaglio di questa ambiziosa sfida non è una sciagura, ma una strada obbligata, un itinerario necessario. Occorrono infine equilibrio, benevolenza e pazienza per far sì che continuità e discontinuità – entrambe essenziali nella tradizione ecclesiale – non si oppongano ma trovino la sintesi che mi pare rappresenti il vero auspicio di questo documento.

Fulvio Rampi

 


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