Stiamo per celebrare la festa di Pasqua. E la Pasqua ci annuncia che
Cristo è il Vivente; e che noi cristiani siamo a Lui contemporanei
e dunque di Lui e della sua novità dobbiamo rendere testimonianza
nella nostra vita. Ho riletto in questi tempi uno dei libri più
interessanti di don Primo Mazzolari, "Impegno con Cristo", scritto
nel lontano 1942, in piena guerra mondiale. Uno dei capitoli più
suggestivi porta proprio come titolo: "Impegno col Vivente".
Fra le tante suggestioni circa l'impegno della testimonianza, voglio riportare
due passi, che mi appaiono di grande attualità nel momento presente.
Il primo: "La prima condizione, richiesta al testimone o al profeta,
è una chiara coscienza cristiana per discernere ciò che
conviene e ciò che non conviene col Vangelo. La prima cosa che
va difesa sul piano religioso per aiutare il confronto del nostro mondo
col Cristo, è la chiarezza del nostro giudizio cristiano".
E continuava: "Nel generale ottenebrarsi e dissaldarsi delle coscienze,
resti almeno ferma e precisa la 'mens christiana' che, se al momento non
può dominare la storia, resistendo - com'è suo dovere -
ad ogni invasione, finirà per disporre le introduzioni indispensabili
dell'ordine nuovo". Come non trovare sorprendentemente attuali queste
parole? Anche perché, se non erano scontate nella cristianità
di ieri, provata da una terribile guerra, ma ancor di più da un
oscuramento delle coscienze e dall' attesa di un nuovo assetto sociale
e civile, men che meno appaiono scontate nella cristianità di oggi,
assalita da altri pericoli e tentata più che mai da quella "secolarizzazione
interna alla Chiesa" (sono espressioni di Benedetto XVI) che faceva
già dire a Paolo VI, a pochi mesi dalla sua morte, che nella Chiesa
era entrato "un pensiero non cattolico", se non addirittura
"il fumo di Satana". Senza giri di parole: mi sembra che nell'ora
presente la Chiesa manifesti una certa afasia più al suo interno,
che non nella sua esposizione al mondo. E' un'afasia sottile e impercettibile:
che toglie però la passione e il coraggio della testimonianza,
perché la seduzione del dialogo a tutti i costi, dell'accoglienza
a tutti i costi, della tolleranza a tutti costi, della mediazione a tutti
i costi (e su "valori non negoziabili") rischia di offuscare
e di svalutare il "nostro giudizio cristiano". Infatti, qualche
pagina dopo, don Primo scrive: "Accanto a una chiara coscienza cristiana,
il testimone o il profeta deve vigilare sulla verità con la stessa
sollecitudine della Chiesa che ne ha il mandato divino, dare l'allarme
ad ogni accenno di insidia occulta o palese; spingere i più riottosi
a portare sul piano religioso i problemi temporali". Oggi spesso
si invoca una profezia alla rovescia: il vero cristiano sarebbe colui
che pone sotto un costante dubbio la verità proposta e insegnata
dalla Chiesa; colui che, nel dialogo con gli altri, si premura di mettere
tra parentesi la sua fede cristiana, per timore di infrangere il dogma
della laicità, che ci sta perseguitando da tempo; colui che mostra
maggior stima verso le leggi della Repubblica che verso il decalogo biblico;
colui insomma che per timore di obbedire a Dio, preferisce obbedire agli
uomini, anche e soprattutto in quelle cose che appartengono a Dio e alla
coscienza, più che alla legge e agli schieramenti politici. Oggi
ci si lascia spesso intimorire dalla "modernità", declinata
continuamente in chiave antireligiosa e anticristiana. Il "progresso"
- una magica parola di matrice illuministica, che seduce anche non pochi
cristiani - viene fatto coincidere con l'esclusione di Dio, quanto meno
dalla vita pubblica e sociale, dove la gente vive la propria avventura
umana con le proprie passioni e le proprie speranze. La religione diventa
una "cosuccia dell'anima", per gente devota e pia, ma che non
può esser ritenuta degna di una ribalta storica, di una consistenza
culturale e di un'attenzione politica. L'andare in chiesa, il professarsi
cristiani, il vivere in comunione con i propri pastori, il testimoniare
e l'annunciare una visione della vita che deriva dal Vangelo ed è
convalidata da venti secoli di esperienza cristiana: tutto questo viene
spesso buttato sul ridicolo, vien fatto passare come segno di bigottismo,
viene ritenuto come alternativo alla autonomia del pensiero e alla libertà
di azione, tipici della cultura moderna, e dunque come un disvalore, quasi
una colpa di cui vergognarsi, e comunque un regresso. E così anche
le giovani generazioni di fatto vengono costrette a respirare un'aria
sempre più neopagana, sempre più neutralista: sì,
i nostri giovani vengono resi, anche sul piano della loro formazione culturale
e del loro itinerario scolastico, sempre più estranei al cristianesimo,
anzi talvolta educati a prenderne le distanze, perché la storia
cristiana viene presentata solo nei suoi aspetti negativi e nelle sue
palesi e volute falsificazioni, finalizzate ideologicamente al discredito
della Chiesa cattolica e della fede cristiana, e al rafforzamento di rendite
politiche.
Un secondo passo: di fronte alla domanda che vien posta a don Mazzolari
"il cristianesimo ha esaurito la sua funzione storica?", don
Primo risponde: "Una religione che non intacchi la realtà
e non fermenti sotto i passi del credente, che contempli e non faccia
la storia, cessa di essere un problema per diventare un capitolo della
storia delle religioni, che, come ognuno sa, è il cimitero delle
religioni". E argomentava: "per i cristiani dei primi tempi
e dei grandi secoli medievali [da notare il giudizio di Mazzolari sul
Medioevo, molto distante da certa storiografia che ancor oggi domina nei
manuali scolastici, ndr.], il peccato non ebbe un significato interiore
o soprannaturale soltanto. Esso abbracciava la vita, quindi anche la storia,
mirando in ogni campo alla liberazione dell'uomo dal male". E concludeva:
"La grande parola evangelica - date a Cesare quel che è di
Cesare e a Dio quel che è di Dio - confermata nella dichiarazione
apostolica - meglio obbedire a Dio che agli uomini - non vuole dire separazione
o disinteresse del mondo dello spirito dal mondo materiale, ma la liberazione
dello spirituale da ogni oppressione". Anche nella cristianità
di oggi non è scomparsa l'enfasi della distinzione tra i due piani
- naturale e soprannaturale - che ha provocato e continua a provocare
una frattura e spesso una inimicizia, di tipo schizofrenico, tra l'esperienza
umana e l'esperienza cristiana, tra l'appartenenza al mondo e l'appartenenza
alla chiesa, tra l'obbedienza alla propria coscienza e l'obbedienza alle
leggi di Dio. Si tenta perfino di intimare alla Chiesa di interessarsi
alle "cose di Dio": come se le questioni che attengono alla
vita, all'amore, al matrimonio e alla famiglia, all'educazione dei figli,
all'economia, alla giustizia e alla pace
siano eticamente indifferenti,
e non avessero precisi radicamenti e orientamenti nelle fonti bibliche,
nel messaggio del Vangelo e nella tradizione cristiana. Si vuole, insomma
- strano paradosso di qualche cristiano che si dice impegnato nella vita
sociale e dunque dovrebbe tendere ad una religione "incarnata"
ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa - tornare a riproporre
la stanca tesi di una fede religiosa che, in nome del solito dogma della
laicità, si interessi solo alle "cose del cielo", e lasci
finalmente le "cose della terra" ai politici, ai faccendieri,
ai finanzieri, agli scienziati, ai giornalisti
E così si
rende del tutto irrilevante, sul piano storico e quindi esistenziale,
l'avventura cristiana, svigorendola dall'interno e confinandola nel perimetro
delle sagrestie e nell'intimità delle coscienze. Una religione
del genere, che non ha nulla da dire all'esperienza umana, a chi mai può
interessare? Quali moti e quali passioni può accendere?
Se nell'ultima crisi di governo qualche esponente di fede comunista, per
una questione di coerenza nei confronti delle proprie (pur discutibili)
convinzioni, ha disatteso gli ordini di scuderia, perché mai un
cristiano non dovrebbe avere il coraggio di rinunciare a qualche poltrona
che conta, per sostenere, senza estenuanti mediazioni, valori non negoziabili?
La Pasqua torni ad essere "impegno col Vivente". Il che può
anche voler dire, come affermava Savino Pezzotta in un'intervista di qualche
settimana fa, "essere pronto, non dico al martirio, ma almeno a pagare
qualche prezzo. Il cristiano che non paga prezzi non testimonia".
Don Alberto
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