"LA GIOIA DELLA FEDE"
 
da "Ritrovarci": anno XXVIII - numero 3 - ottobre 2005

di Don Alberto


"Diventare cristiani": questo è "l'impegno più urgente e più grave del nostro tempo" (2,1), scrive il nostro Vescovo nel documento che presenta le Linee Pastorali per l'anno 2005-06, centrato sul sacramento della Confermazione. Il documento del Vescovo è ricco di riflessioni e di indicazioni preziose, che vengono presentate in sintesi nelle pagine interne del giornale e che verranno riprese negli incontri del Consiglio Pastorale e soprattutto negli incontri dei catechisti e dei genitori. Qui mi limito a ribadire due aspetti, fra gli altri, fortemente sottolineati dal Vescovo.
Il primo: il cresimato, e dunque ogni cristiano, è pienamente conformato a Cristo e più perfettamente vincolato alla Chiesa. Il tema dell'appartenenza alla Chiesa - e in concreto il tema dell'appartenenza alla comunità cristiana - è fondamentale nella cultura di oggi, così sedotta dal secolarismo ("vivere come se Dio non ci fosse"), dall'individualismo, dal "fai-da-te" anche in campo religioso. La disaffezione alla Chiesa è preoccupante, non tanto e non solo in termini sociologici, ma in termini culturali ed esistenziali: perché vuol dire disaffezione alle proprie radici, e quindi incomprensione del ricco patrimonio che ha formato la civiltà della nostra tradizione occidentale, sconfessione e perdita della propria identità con relativa incapacità a capire se stessi e anche ad intraprendere un serio e fecondo dialogo con chi appartiene ad altre tradizioni culturali e religiose, attenuazione e sbiadimento di quegli orientamenti etici fondamentali che hanno costituito fino ad oggi la base anche degli ordinamenti giuridici e legislativi dei nostri popoli.
Mi sembra che la "nuova evangelizzazione", riproponendo la centralità della figura di Cristo, non possa prescindere da una ripresa di relazione affettivamente cordiale con la nostra Chiesa, concretamente presente anche sul nostro territorio. Lo afferma con forza il Vescovo: "Perdura in parecchi battezzati la disistima e l'incomprensione del rapporto con la Chiesa, dichiarato a volte con lo slogan: Cristo sì, Chiesa no. Come se fosse possibile vivere il rapporto con Cristo senza pensarsi nel suo Corpo che è appunto la Chiesa. Non esiste il corpo senza il capo, né il capo senza il corpo. Non esiste la Chiesa senza Cristo, né Cristo senza la Chiesa" (2.2).
Salutarmene provocato da questa riflessione del Vescovo - che riassume un filone molto fecondo della tradizione cattolica, che parte dal Nuovo Testamento e che, attraverso i Padri della Chiesa, soprattutto Cipriano, Ireneo ed Agostino, arriva fino ai grandi teologi del Novecento (tra i quali Congar, De Lubac, Rahner, Balthasar e Ratzinger, che hanno scritto pagine bellissime sulla necessaria "ecclesialità" della nostra fede cristiana) - pongo a me e a voi alcune domande: come viviamo il rapporto con la parrocchia e con la diocesi? Accogliamo cordialmente ed empaticamente le tante proposte e le tante iniziative di incontro, di formazione, di preghiera, che la parrocchia e la diocesi mettono in cantiere nel corso di ogni anno? Dialoghiamo tra preti e laici sul come essere cristiani nel mondo di oggi, sul come far fronte alle tante sfide dell'ora presente? Abbiamo stima della nostra storia e della nostra tradizione cristiano-cattolica, che ha generato e continua a generare fior di santi, di testimoni, di educatori…, oppure subiamo la seduzione di chi fa di tutto per presentare la Chiesa cattolica e la fede cristiana come realtà poco raccomandabili - quasi associazioni a delinquere, di cui ci si dovrebbe vergognare di far parte - quando non ridicolizzate? Conosciamo e prendiamo sul serio le indicazioni che i nostri Vescovi e il nostro Papa continuamente rivolgono al popolo cristiano, o preferiamo - inconsciamente e pregiudizialmente - altri maestri e altri predicatori? Abbiamo stima e siamo fruitori dei media di chiaro orientamento cattolico, o, come cittadini cattolici, viviamo una sorta di complesso di inferiorità nei riguardi di una cultura sedicente "laica", lasciandoci manipolare da chi detiene oggi il maggior potere di orientamento culturale, dai padroni della comunicazione e della cultura scolastica, certamente non teneri nei confronti del Cristianesimo e della Chiesa?
Un secondo aspetto, sottolineato dal Vescovo, riguarda la testimonianza cristiana, che deve essere qualificata e non deve temere anche di andar controcorrente. Scrive il Vescovo: "La testimonianza si manifesta in uno stile di vita che necessariamente porta il cristiano, in talune situazioni, a differenziarsi dal costume corrente o anche a prenderne consapevolmente le distanze. Di fronte al pericolo del conformismo e dell'omologazione indotto da una pervasiva diffusione di modelli proiettati dai mezzi di comunicazione, il cristiano non teme di apparire diverso. Anzi l'essere percepito e magari criticato come tale, può essere un segno a suo favore" (n. 3.3).
Mi sembra, invece, che, in nome del dialogo (che è una cosa doverosa e seria) e in nome della tolleranza, non siano pochi i cristiani che finiscono per abdicare all'impegno della testimonianza. Si sta diffondendo un morbo pericoloso, perché mortifero, che attenua o impedisce la crescita delle nostre comunità cristiane: è la tristezza di credere, è la fede cristiana avvertita come peso e fatica, è l'appartenenza alla Chiesa vissuta come disagio. In tal caso, l'insistenza sulla "fatica di credere" - un'espressione diventata curiosamente abituale anche nei nostri ambienti - potrebbe nascondere uno scarso apprezzamento circa l'incidenza della fede stessa sulle grandi questioni del vivere, circa il valore anche antropologico della proposta evangelica. Ma i vangeli non annunciano forse, con una frequenza di gran lunga maggiore, la "gioia di credere"? I magi, ad esempio, al vedere la stella, forse non "provarono una grandissima gioia" (Mt 2, 10)? E il piccolo Giovanni Battista non ha forse "esultato di gioia" nel grembo di Elisabetta, alla visita di Maria che portava in grembo il Figlio di Dio (cf. Lc 1,44)? E che cosa annuncia l'angelo della Natività ai pastori di Betlemme, se non "una grande gioia, che sarà di tutto il popolo" (Lc 2,10)? E il contadino della parabola, quando trova il tesoro nel campo, non corre a vendere tutti i suoi averi, "pieno di gioia" (Mt 13, 44)? E Zaccheo non accolse Gesù nella propria casa "pieno di gioia" (Lc 19,6)? Del resto il Signore stesso si è preoccupato di metterci in guardia, quando ha chiarito che il suo giogo è dolce e il suo carico leggero (cf. Mt 11,29).
Certo, la gioia del vangelo non è esente dalla fatica della croce. Ma una fede continuamente ridotta a fatica, spesso impastata con la mentalità del mondo e modellata sui dogmi laicisti, non convince e non seduce nessuno. Il coraggio missionario della testimonianza di cui parla il Vescovo, può nascere solo dalla scoperta gioiosa del vero tesoro per il quale val la "fatica" di vendere tutto il resto. Forse la fede cristiana, nella nostra sazia e stanca Europa, è diventata atonica anche per la scarsa gioia e la debole convinzione con cui viene testimoniata dalla cristianità attuale, che si mostra intimidita di fronte ad un pensiero che, pur ritenuto giustamente "debole", rischia di far da padrone. Non si può non convenire con Thomas S. Eliot, per il quale "se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie". Se le radici si seccano, come di recente ha ammonito Benedetto XVI, l'albero muore.
E la "gioia della fede" ha scritto una densa pagina di storia lungo il fiume Reno, a Colonia, dove un milione di giovani, insieme al Papa, l'hanno accolta, vissuta e comunicata a tutti. L'albero della fede, in questa nostra vecchia Europa, è ancora vivo!

Don Alberto


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