"Diventare cristiani": questo è "l'impegno più
urgente e più grave del nostro tempo" (2,1), scrive il nostro
Vescovo nel documento che presenta le Linee Pastorali per l'anno 2005-06,
centrato sul sacramento della Confermazione. Il documento del Vescovo
è ricco di riflessioni e di indicazioni preziose, che vengono presentate
in sintesi nelle pagine interne del giornale e che verranno riprese negli
incontri del Consiglio Pastorale e soprattutto negli incontri dei catechisti
e dei genitori. Qui mi limito a ribadire due aspetti, fra gli altri, fortemente
sottolineati dal Vescovo.
Il primo: il cresimato, e dunque ogni cristiano, è pienamente conformato
a Cristo e più perfettamente vincolato alla Chiesa. Il tema dell'appartenenza
alla Chiesa - e in concreto il tema dell'appartenenza alla comunità
cristiana - è fondamentale nella cultura di oggi, così sedotta
dal secolarismo ("vivere come se Dio non ci fosse"), dall'individualismo,
dal "fai-da-te" anche in campo religioso. La disaffezione alla
Chiesa è preoccupante, non tanto e non solo in termini sociologici,
ma in termini culturali ed esistenziali: perché vuol dire disaffezione
alle proprie radici, e quindi incomprensione del ricco patrimonio che
ha formato la civiltà della nostra tradizione occidentale, sconfessione
e perdita della propria identità con relativa incapacità
a capire se stessi e anche ad intraprendere un serio e fecondo dialogo
con chi appartiene ad altre tradizioni culturali e religiose, attenuazione
e sbiadimento di quegli orientamenti etici fondamentali che hanno costituito
fino ad oggi la base anche degli ordinamenti giuridici e legislativi dei
nostri popoli.
Mi sembra che la "nuova evangelizzazione", riproponendo la centralità
della figura di Cristo, non possa prescindere da una ripresa di relazione
affettivamente cordiale con la nostra Chiesa, concretamente presente anche
sul nostro territorio. Lo afferma con forza il Vescovo: "Perdura
in parecchi battezzati la disistima e l'incomprensione del rapporto con
la Chiesa, dichiarato a volte con lo slogan: Cristo sì, Chiesa
no. Come se fosse possibile vivere il rapporto con Cristo senza pensarsi
nel suo Corpo che è appunto la Chiesa. Non esiste il corpo senza
il capo, né il capo senza il corpo. Non esiste la Chiesa senza
Cristo, né Cristo senza la Chiesa" (2.2).
Salutarmene provocato da questa riflessione del Vescovo - che riassume
un filone molto fecondo della tradizione cattolica, che parte dal Nuovo
Testamento e che, attraverso i Padri della Chiesa, soprattutto Cipriano,
Ireneo ed Agostino, arriva fino ai grandi teologi del Novecento (tra i
quali Congar, De Lubac, Rahner, Balthasar e Ratzinger, che hanno scritto
pagine bellissime sulla necessaria "ecclesialità" della
nostra fede cristiana) - pongo a me e a voi alcune domande: come viviamo
il rapporto con la parrocchia e con la diocesi? Accogliamo cordialmente
ed empaticamente le tante proposte e le tante iniziative di incontro,
di formazione, di preghiera, che la parrocchia e la diocesi mettono in
cantiere nel corso di ogni anno? Dialoghiamo tra preti e laici sul come
essere cristiani nel mondo di oggi, sul come far fronte alle tante sfide
dell'ora presente? Abbiamo stima della nostra storia e della nostra tradizione
cristiano-cattolica, che ha generato e continua a generare fior di santi,
di testimoni, di educatori
, oppure subiamo la seduzione di chi fa
di tutto per presentare la Chiesa cattolica e la fede cristiana come realtà
poco raccomandabili - quasi associazioni a delinquere, di cui ci si dovrebbe
vergognare di far parte - quando non ridicolizzate? Conosciamo e prendiamo
sul serio le indicazioni che i nostri Vescovi e il nostro Papa continuamente
rivolgono al popolo cristiano, o preferiamo - inconsciamente e pregiudizialmente
- altri maestri e altri predicatori? Abbiamo stima e siamo fruitori dei
media di chiaro orientamento cattolico, o, come cittadini cattolici, viviamo
una sorta di complesso di inferiorità nei riguardi di una cultura
sedicente "laica", lasciandoci manipolare da chi detiene oggi
il maggior potere di orientamento culturale, dai padroni della comunicazione
e della cultura scolastica, certamente non teneri nei confronti del Cristianesimo
e della Chiesa?
Un secondo aspetto, sottolineato dal Vescovo, riguarda la testimonianza
cristiana, che deve essere qualificata e non deve temere anche di andar
controcorrente. Scrive il Vescovo: "La testimonianza si manifesta
in uno stile di vita che necessariamente porta il cristiano, in talune
situazioni, a differenziarsi dal costume corrente o anche a prenderne
consapevolmente le distanze. Di fronte al pericolo del conformismo e dell'omologazione
indotto da una pervasiva diffusione di modelli proiettati dai mezzi di
comunicazione, il cristiano non teme di apparire diverso. Anzi l'essere
percepito e magari criticato come tale, può essere un segno a suo
favore" (n. 3.3).
Mi sembra, invece, che, in nome del dialogo (che è una cosa doverosa
e seria) e in nome della tolleranza, non siano pochi i cristiani che finiscono
per abdicare all'impegno della testimonianza. Si sta diffondendo un morbo
pericoloso, perché mortifero, che attenua o impedisce la crescita
delle nostre comunità cristiane: è la tristezza di credere,
è la fede cristiana avvertita come peso e fatica, è l'appartenenza
alla Chiesa vissuta come disagio. In tal caso, l'insistenza sulla "fatica
di credere" - un'espressione diventata curiosamente abituale anche
nei nostri ambienti - potrebbe nascondere uno scarso apprezzamento circa
l'incidenza della fede stessa sulle grandi questioni del vivere, circa
il valore anche antropologico della proposta evangelica. Ma i vangeli
non annunciano forse, con una frequenza di gran lunga maggiore, la "gioia
di credere"? I magi, ad esempio, al vedere la stella, forse non "provarono
una grandissima gioia" (Mt 2, 10)? E il piccolo Giovanni Battista
non ha forse "esultato di gioia" nel grembo di Elisabetta, alla
visita di Maria che portava in grembo il Figlio di Dio (cf. Lc 1,44)?
E che cosa annuncia l'angelo della Natività ai pastori di Betlemme,
se non "una grande gioia, che sarà di tutto il popolo"
(Lc 2,10)? E il contadino della parabola, quando trova il tesoro nel campo,
non corre a vendere tutti i suoi averi, "pieno di gioia" (Mt
13, 44)? E Zaccheo non accolse Gesù nella propria casa "pieno
di gioia" (Lc 19,6)? Del resto il Signore stesso si è preoccupato
di metterci in guardia, quando ha chiarito che il suo giogo è dolce
e il suo carico leggero (cf. Mt 11,29).
Certo, la gioia del vangelo non è esente dalla fatica della croce.
Ma una fede continuamente ridotta a fatica, spesso impastata con la mentalità
del mondo e modellata sui dogmi laicisti, non convince e non seduce nessuno.
Il coraggio missionario della testimonianza di cui parla il Vescovo, può
nascere solo dalla scoperta gioiosa del vero tesoro per il quale val la
"fatica" di vendere tutto il resto. Forse la fede cristiana,
nella nostra sazia e stanca Europa, è diventata atonica anche per
la scarsa gioia e la debole convinzione con cui viene testimoniata dalla
cristianità attuale, che si mostra intimidita di fronte ad un pensiero
che, pur ritenuto giustamente "debole", rischia di far da padrone.
Non si può non convenire con Thomas S. Eliot, per il quale "se
il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, e allora
si dovranno attraversare molti secoli di barbarie". Se le radici
si seccano, come di recente ha ammonito Benedetto XVI, l'albero muore.
E la "gioia della fede" ha scritto una densa pagina di storia
lungo il fiume Reno, a Colonia, dove un milione di giovani, insieme al
Papa, l'hanno accolta, vissuta e comunicata a tutti. L'albero della fede,
in questa nostra vecchia Europa, è ancora vivo!
Don Alberto
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