Molto spesso ci vengono proposti documentari, in cui gli animali
sono ripresi nel loro habitat naturale, sono osservati nella loro vita solitaria
o in branco, sono studiati nei loro comportamenti. Anche l'uomo è un animal,
cioè un essere dotato di anima, termine latino con cui si indicava il soffio
vitale, che esce dalla bocca di tutti gli esseri viventi, uomini e bestie, al
momento della morte. Quindi anche l'uomo conosce e sperimenta una duplice
dimensione di vita, una dimensione che possiamo chiamare esterna e una dimensione
che possiamo chiamare interna. Ci sono persone che amano e stanno bene nel loro
"angolo", da cui escono solo per lo stretto necessario; ce ne sono altre,
invece, che proiettano tutta la loro esistenza al di fuori e rientrano solo per
lo stretto necessario. "Fuori", "dentro" sono, ovviamente,
espressioni metaforiche di grande pregnanza, che non significano semplicemente
"fuori casa, dentro casa": si può essere soli in mezzo alla pazza
folla (come diceva il titolo di un film famoso in anni ormai lontani) e si può
non essere soli nella solitudine fisica. Ci possiamo chiedere: in che rapporto
devono porsi queste due dimensioni? Per conoscerci meglio, distratti come siamo
dalle troppe luci e dalle troppe voci del nostro mondo, ascoltiamo le parole illuminanti
degli antichi, che prima di noi si sono posti, in quanto uomini, gli stessi interrogativi. Definire
l'uomo "animale sociale" (politicós, diceva Aristotele) significa
privilegiarne la dimensione pubblica? Chiariamo subito che con dimensione pubblica
si intende un ampio ventaglio di situazioni che vanno dall'impegno nel lavoro
alle relazioni sociali, ai doveri di cittadino, alla pratica degli affari pubblici:
in sintesi, è il ruolo che ogni uomo svolge nella società. Questa
dimensione, che si esprime diversamente a seconda delle caratteristiche personali
di ciascuno, è connaturata nell'uomo; perciò non possiamo eluderla
o ingannarci dicendo che è cosa che non ci riguarda. Non dobbiamo dimenticare
che viviamo in una comunità, con tutte le implicazioni che ciò comporta.
Se ci rendiamo ben conto di questa responsabilità, la accogliamo e ci diamo
da fare; in questo modo finiamo per compiere progressi anche nella costruzione
del nostro "io". In ben altra direzione andrà il pensiero
di Rousseau (sec. XVIII): "Resserre ton existence au dedans de toi",
rinchiudi la tua vita dentro di te. Ritrovare il proprio cantuccio è
un fatto confortante e spesso anche necessario, purché non si intenda "privato"
come sinonimo di "estraneo, indifferente al mondo intorno a noi"; non
deve essere un abdicare a ogni forma di convivenza, a ogni contatto con gli altri.
Se l'uomo si chiude in se stesso, finisce per impoverirsi e inaridirsi. Cicerone
dice che l'uomo è individuo e società a un tempo, e ritrova l'uomo
nel suo essere uomo, vale a dire nel suo saper pensare e parlare, nella sua tensione
a comunicare, nel suo essere insieme agli altri societas. Per un romano chiudersi
al mondo era un rinnegare il proprio ruolo di civis e il poeta Rutilio Namaziano
(sec. V d.C.), voce dei pagani, esprimeva il suo rancore contro monaci e anacoreti
cristiani, che si isolavano dal mondo vivendo, come fossero morti, nell'oscurità
delle grotte di isole sperdute nel mare: li chiamava lucifugi viri, cioè
uomini che rifuggono la luce (de reditu 1,440). Non poteva immaginare che quei
bui e squallidi rifugi sarebbero poi divenuti monasteri, unica luce e ancora di
salvezza per quanto avanzava della civiltà e della cultura pagana. Fino
a che punto può e deve sopportare delusioni, cattiverie, calunnie, chi
si fa, a diverso titolo, uomo pubblico? Solo la conoscenza che ciascuno ha
di se stesso, della propria forza interiore, aiuta a decidere come comportarsi.
Quando ci si dovesse accorgere che la situazione sta per imboccare una via di
non ritorno, non ci si deve ritenere comunque degli sconfitti. Costretto a ritirarsi
a vita privata, un animo grande trova sempre ampio campo d'azione, perché
nessun tipo di violenza può soffocarne l'esempio. Sbarrata una via, altre
porte, forse più numerose, si apriranno. La virtù, come un'erba
aromatica che giova anche col solo odore, effonde i suoi benefici effetti sia
che possa spaziare liberamente, sia che venga costretta a raccogliersi. Tutto
il contrario di un'abulica inerzia: il peggiore dei mali è uscire dal numero
dei vivi, prima di essere morto: non est enim servare se obruere, "sotterrarsi
non è salvarsi", stigmatizza Seneca (de tranquillitate animi 5,4),
che subito dopo porta l'esempio del console Curio Dentato, vincitore di Pirro
a Maleventum, il quale era solito dire di preferire se esse mortuum quam vivere,
"di essere morto piuttosto che vivere da morto". Cosa si può
fare, in pratica, per vivere in pace con se stessi e con il mondo? Bisogna
alternare la solitudine con la frequentazione degli altri, perché nella
solitudine si riscopra la propria dimensione umana e nella frequentazione la propria
dimensione sociale. In questa tensione dialettica sta il progresso sia dell'individuo
che della società. Fin qui l'umanesimo pagano. Gli ideali che hanno
animato e sollecitato molti grandi uomini del passato classico nel loro impegno
pubblico non erano molto diversi, pur nelle differenze di tempi e di culture,
da quelli di tanto, sincero, umanesimo dei nostri giorni. Ma l'azione del cristiano
non è sospinta tanto e soltanto da questi ideali, pur alti e nobili, quanto
da una persona, Gesù Cristo. Mi piace qui ricordare un amico e collega
bolognese, biblista e studioso dei Padri della Chiesa, don Paolo Serra Zanetti,
che da qualche mese ci ha lasciato. Un uomo che ha consumato la sua vita per gli
altri e con gli altri: "consumato" glielo dicevamo spesso noi con affettuoso
rimprovero. Nel suo accostare gli studenti, nel suo confortare noi nei momenti
di difficoltà, nel suo dar retta ai barboni che petulanti lo inseguivano
fin davanti allo studio universitario, nel suo donare a tutti un autentico sorriso
c'era certamente la sua profonda umanità, ma c'era soprattutto il sentire
Cristo dentro di sé a dare un senso autentico a ogni gesto della sua vita.
|