Ho letto recentemente su una rivista le affermazioni di un intellettuale
tedesco che riguardo alla "questione Dio" si professava agnostico
aggiungendo che di Dio non si può né provare né escludere
totalmente l'esistenza, sicché il problema rimane aperto. Per contro,
costui si diceva fermamente convinto dell'esistenza dell'inferno: gli
bastava accendere un televisore per constatarlo senza ombra di dubbio.
Se la prima parte di questa affermazione corrisponde in pieno al modo
del sentire moderno, la seconda sembra bizzarra, perfino incomprensibile,
almeno ad un primo esame. Infatti, come credere all'inferno se Dio non
esiste? Considerate più attentamente, quelle parole incarnano però
una logica. L'inferno- questa è la sua definizione - è vivere
nell'assenza di Dio. Dove Dio non c'è e non penetra alcun barlume
della sua presenza, ecco l'inferno. La prova, forse, non è data
tanto dallo spettacolo quotidiano della televisione, ma piuttosto da uno
sguardo sul secolo trascorso che ci ha lasciato parole come Auschwitz
o arcipelago Gulag, e nomi come Hitler, Stalin , Pol Pot. (
) Questi
inferni furono fabbricati per preparare un mondo futuro di uomini bastanti
a se stessi, convinti di non aver più bisogno di Dio. (
)
Dove non c'è Dio, spunta l'inferno, e l'inferno persiste semplicemente
attraverso l'assenza di Dio. Ci si può anche arrivare attraverso
forme sottili, quasi sempre affermando di volere il bene degli uomini.
Quando oggi si fa commercio di organi umani, quando si fabbricano feti
per disporre di organi di riserva o per fare avanzare la ricerca e la
prevenzione medica, molti considerano come implicito il contenuto umano
di queste pratiche, ma il disprezzo dell'uomo che è sottinteso
- quando si usa e si abusa dell'uomo - conduce, lo si voglia a no, alla
discesa agli inferi. Questo non vuol che non ci possano essere e che non
ci siano degli atei dotati di grande senso etico, ma mi sento comunque
di affermare che tale etica si basa su quella luce venuta un giorno dal
Sinai e che continua a brillare, intendo dire la luce di Dio. (
)
Però Nietzsche ha avuto ragione a sottolineare che quando la notizia
della morte di Dio sarà conosciuta ovunque, quando la sua luce
si sarà definitivamente spenta, quel momento non potrà che
essere terrificante.
Perché dire questo nell'ambito di una riflessione su ciò
che noi cristiani dobbiamo fare oggi, nel momento storico che viviamo
all'inizio del terzo millennio? Perché, appunto, il nostro compito
di cristiani ne risulti illuminato. E' compito ad un tempo semplice ed
immenso: testimoniare Dio, aprire finestre sbarrate e velate così
che la sua luce possa brillare tra noi, così che noi possiamo lasciare
spazio alla sua presenza. Rovesciamo le cose: dove c'è Dio, c'è
il cielo; pur al prezzo delle miserie della nostra esistenza, la vita
si illumina.
Il cristianesimo non è una filosofia complicata, invecchiata con
il trascorrere del tempo, non è un ammasso incommensurabile di
dogmi e precetti; la fede cristiana consiste nell'essere toccati da Dio
e testimoniare di lui. (
) Allora possiamo dire: la Chiesa c'è
perché Dio, il Dio vivente, sia annunciato, perché l'uomo
possa imparare a vivere con Dio, sotto i suoi occhi e in comunione con
lui. La Chiesa c'è per scongiurare l'avanzata dell'inferno sulla
terra e per rendere quest'ultima abitabile alla luce di Dio. Grazie a
lui e solamente grazie a lui essa sarà umana.
Non fosse altro che per tale ragione deve continuare ad esistere, in quanto
un suo venir meno trascinerebbe l'umanità nel vortice delle tenebre,
dell'oscurità, perfino della distruzione di ciò che fa l'uomo.
(
) Perciò la Chiesa deve misurarsi con se stessa ed essere
misurata secondo la maniera in cui vivono in lei la presenza di Dio, la
sua conoscenza e l'accettazione della sua volontà. Una Chiesa che
non fosse che un apparato che si autogoverna, sarebbe una caricatura di
Chiesa. Tanto più ruoterà attorno a se stessa e non avrà
occhio che per gli obiettivi da perseguire per la sua sopravvivenza, essa
diventerà superflua e deperirà, anche se disponesse di grandi
mezzi e fosse oggetto di un abile "management". Se il primato
di Dio non è vivente in lei, essa non può vivere e fruttificare.
(
) Il tema dei valori prende oggi il posto del Dio scomparso ed
è nel contempo la formula unificatrice che, al di là di
tutte le differenze, potrebbe condurre ad una coesione universale degli
uomini di buona volontà (e chi non ci starebbe?) e anche portare
ad un mondo davvero migliore. Sembra seducente. Chi non si sentirebbe
obbligato a perseguire l'obiettivo della pace sulla terra? Chi non avrebbe
bisogno di lottare per il trionfo della giustizia e perché le ineguaglianze
stridenti tra le classi, le razze e i continenti finalmente scompaiano?
E chi non vedrebbe la necessità di difendere il creato contro le
distruzioni moderne? Dio sarebbe diventato superfluo? Questi tre valori
possono soppiantarlo? Ma come facciamo a sapere quello che è utile
per la pace? Da dove ricaviamo il metro della giustizia e la distinzione
tra il bene e il male? E come discerniamo il momento in cui la tecnica
risponde alle esigenze del creato da quello in cui essa procura la sua
distruzione? Chi si àncora a questi valori non può nascondersi
che essi diventano presto il teatro di ideologie e non resistono all'assenza
di una criteriologia coerente e corrispondente alla realtà stessa
della creazione e dell'uomo. I valori non possono sostituire la verità,
non possono rimpiazzare Dio, di cui sono la pallida figura e senza la
luce del quale sono mal definiti.
Si torna daccapo: senza Dio il mondo non può illuminarsi; la Chiesa
serve il mondo facendo in modo che Dio viva in essa, trasparente per lui,
pronta a portarlo all'umanità. Così siamo arrivati ad un
problema di ordine pratico: come fare? Come possiamo riconoscere Dio e
comunicarlo agli altri? (
) La missione più urgente che io
vedo per la Chiesa nel nostro secolo è quella di lottare per la
nuova presenza dell'intelligenza della fede. La fede non deve ripiegarsi
su se stessa, nel suo guscio, sulla base di una scelta non più
giustificata. Non deve rattrappirsi in una sorta di sistema di simboli
in cui rinchiudersi, il che rappresenterebbe alla lunga una scelta accidentale
tra altre visioni della vita e del mondo. La fede ha bisogno del largo
spazio della ragione, ha bisogno di apertura, di professare il Dio creatore.
Senza tale professione di fede, la stessa cristologia si inaridirebbe
e non parlerebbe di Dio che indirettamente, riferendosi ad una esperienza
religiosa particolare per forza di cose limitata. Una esperienza tra le
altre.
Un grande compito della Chiesa è il richiamo alla ragione, soprattutto
oggi. Dove la fede e la ragione si dividono, entrambe soffrono. La ragione
diventa fredda e perde i suoi criteri, si fa crudele poiché non
ha più nulla sopra di sé. Allora l'intelletto limitato dell'uomo
decide da solo come continuare la creazione, decide da solo chi abbia
il diritto di vivere e chi debba essere escluso dalla tavola della vita:
a quel punto la strada dell'inferno è aperta.
Ma anche la fede può diventare malata senza un vasto concorso della
ragione, e i guasti gravi che possono derivare da una religiosità
malata li abbiamo sufficientemente sotto gli occhi. Non per nulla nell'Apocalisse
la religione malata che ha rotto con la grandezza della fede nel creato
è presentata come il vero potere dell'Anticristo.
Joseph Ratzinger
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