Briciole di sapientia antica
"L'amicizia"
E' un'esperienza unica e universale, che accompagna l'uomo per tutta la vita. Interroghiamo i grandi della classicità.
da "Ritrovarci": anno XXVII - numero 2 - aprile 2004

di Maria Grazia Cavalca

Ricordo che, quando accompagnavo i miei figli alla scuola materna, sentivo spesso i bambini dire tra loro: "Sei mio amico", oppure "Non sei più mio amico": parole che sulla loro bocca significavano tutto nel momento in cui venivano pronunciate e niente, forse, un'ora dopo. Quello che, comunque, se ne trae è che la parola "amico" è sulle nostre labbra fin dai primi anni e ci accompagna per tutta la vita.
Ieri, oggi, domani. Sentimenti, quali appunto l'amicizia, conoscono l'universalità dei tempi e dei luoghi; cambiano solo i modi di esprimerli. Per questo non è né futile né sterile per noi, persone di oggi, ripensare al significato e al valore che il mondo classico attribuiva all'amicizia.
Durante i primi secoli della storia di Roma l'amicizia o si esauriva nella componente affettiva all'interno di un rapporto privato, o più spesso costituiva (come attesta lo storico Livio) un'arma politica che legava tra loro, in gruppi di potere, individui di pari condizione sociale e costituiva un'importante collante dei gruppi dirigenti. Ma già all'inizio del II secolo a.C. la "intellighenzia" romana, conquistata dal fascino della cultura greca e dalla nuova sensibilità prodotta dall'affinamento dei costumi, cominciava ad avvertire l'inadeguatezza di questo "modello sociale" di amicizia; tuttavia l'esigenza di vincoli disinteressati e appaganti, in senso personale e non politico, trovava nella realtà consolidata un ostacolo, spesso insormontabile. Ci volle più di un secolo per assistere a un tangibile tentativo di composizione di queste due spinte divergenti: e ciò avvenne per opera di Cicerone, un autore in genere poco amato, perché identificato tout court con il latino e con le sue difficoltà. In ogni modo, egli aveva capito che erano finite sia l'antica cultura romana sia la cultura greca: finite nel senso che i contesti storici, a cui avevano risposto, erano ormai tramontati. Così negli ultimi decenni della repubblica si andò sviluppando la humanitas, un nuovo stile di vita che si configurava come un insieme di educazione letteraria, raffinatezza di modi, squisitezza di gusto, disponibilità e apertura nel trattare con gli altri. Questo umanesimo rifulse, tra gli altri, in Cicerone in quel suo abbandonare il cuore all'amicizia, che lo portava a dire all'amico Attico: ego tecum tamquam mecum loquor, "io parlo con te come con me"; e in Seneca in quelle sue pagine traboccanti di vita e di amicizia. Interroghiamoli.

Che definizione si può dare dell'amicizia?
L'amicizia è una piena armonia di idee, sentimenti, propositi, un accordo totale nelle cose divine e umane, accompagnato da benevolenza, affetto. Nulla le può essere anteposto al di fuori della virtù; ma d'altra parte è proprio la virtù, che genera e conserva l'amicizia. Infatti l'amicizia può esserci solo tra uomini buoni.

Ma chi sono gli uomini buoni?
Lungi dal condividere il pensiero stoico, secondo cui buono è solo l'uomo saggio (il saggio stoico, peraltro, è pura utopia), si possono dire buoni coloro che si distinguono per lealtà, integrità, coerenza, generosità, fermezza di carattere e che non mostrano segni di cupidigia, sfrenatezza di costumi, temerarietà.

Riveste quindi grande importanza la scelta degli amici.
Non c'è dubbio, perché la scelta sbagliata, o quanto meno infelice, di un amico può avere conseguenze dolorose. Non per questo però dobbiamo arrivare al qualunquismo del proverbio: Amicus omnibus, amicus nemini, "amico di tutti, amico di nessuno", testimoniato anche in ambito greco e mantenutosi fino ai nostri giorni.

Facciamo allora una fotografia dell'amico.
Una massima del filosofo greco Epicuro dice: "L'amicizia percorre la terra, annunciando a tutti noi di svegliarci per comunicarci la gioia l'un l'altro" (Sentenze Vaticane 35). Infatti l'amico è una persona la cui presenza dà piacere, la cui gioia scioglie la tristezza, le cui parole consolano l'affanno, il cui parere aiuta la decisione; l'amico è un cuore, in cui ogni segreto scende nella totale sicurezza, una mano che sostiene nelle difficoltà.

Non si potrebbe correre il rischio di intendere l'amicizia come una sorta di "società di mutuo soccorso"?
No, perché l'amicizia non nasce dal bisogno o dalla debolezza; il suo movente non è l'utilità né la speranza di una forma qualsiasi di guadagno. Affonda le sue radici nell'affetto sincero, franco, spontaneo, che fa di due persone un solo essere e che aiuta a migliorarsi reciprocamente. Per questo l'amicizia vera dura per sempre.

Agostino riprenderà il pensiero, definendo dolce l'amicizia degli uomini, perché con un nodo d'affetto fa di molte anime un'anima sola (Confessiones 2,5).

L'amicizia vive solo nello scenario del privato o lo trascende?
L'amicizia così concepita si fa luce, che illumina quanto si trova all'intorno, e fondamento su cui si regge salda non solo la singola casa, ma anche tutta la città. Infatti dal richiamo ai valori fondamentali, che stanno alla base dell'amicizia, può scaturire un risanamento dei rapporti civili e in definitiva un bene per la cosa pubblica.

L'amicizia può giustificare azioni illecite?
Nessuna colpa commessa per amore di un amico può essere scusata. Nell'amicizia deve valere il principio ut neque rogemus res turpes, nec faciamus rogati, "di non chiedere azioni disoneste, né di farle, se richiesti" (Cicerone, Laelius de amicitia 40). D'altra parte, se alla base dell'amicizia c'è la virtù, senza virtù non c'è amicizia che merita questo nome, ma solo complicità.

A conclusione, rileggiamo la stupenda pagina dei Promessi sposi (cap. XI), su cui si stende il sorriso velato d'ironia del Manzoni: "Una delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia; e una delle consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. Ora gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d'uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d'amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira in quell'immensa catena, tanto che arriva all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai".

Maria Grazia Cavalca


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