Ricordo che, quando accompagnavo i miei figli alla scuola materna, sentivo
spesso i bambini dire tra loro: "Sei mio amico", oppure "Non
sei più mio amico": parole che sulla loro bocca significavano
tutto nel momento in cui venivano pronunciate e niente, forse, un'ora
dopo. Quello che, comunque, se ne trae è che la parola "amico"
è sulle nostre labbra fin dai primi anni e ci accompagna per tutta
la vita.
Ieri, oggi, domani. Sentimenti, quali appunto l'amicizia, conoscono l'universalità
dei tempi e dei luoghi; cambiano solo i modi di esprimerli. Per questo
non è né futile né sterile per noi, persone di oggi,
ripensare al significato e al valore che il mondo classico attribuiva
all'amicizia.
Durante i primi secoli della storia di Roma l'amicizia o si esauriva nella
componente affettiva all'interno di un rapporto privato, o più
spesso costituiva (come attesta lo storico Livio) un'arma politica che
legava tra loro, in gruppi di potere, individui di pari condizione sociale
e costituiva un'importante collante dei gruppi dirigenti. Ma già
all'inizio del II secolo a.C. la "intellighenzia" romana, conquistata
dal fascino della cultura greca e dalla nuova sensibilità prodotta
dall'affinamento dei costumi, cominciava ad avvertire l'inadeguatezza
di questo "modello sociale" di amicizia; tuttavia l'esigenza
di vincoli disinteressati e appaganti, in senso personale e non politico,
trovava nella realtà consolidata un ostacolo, spesso insormontabile.
Ci volle più di un secolo per assistere a un tangibile tentativo
di composizione di queste due spinte divergenti: e ciò avvenne
per opera di Cicerone, un autore in genere poco amato, perché identificato
tout court con il latino e con le sue difficoltà. In ogni modo,
egli aveva capito che erano finite sia l'antica cultura romana sia la
cultura greca: finite nel senso che i contesti storici, a cui avevano
risposto, erano ormai tramontati. Così negli ultimi decenni della
repubblica si andò sviluppando la humanitas, un nuovo stile di
vita che si configurava come un insieme di educazione letteraria, raffinatezza
di modi, squisitezza di gusto, disponibilità e apertura nel trattare
con gli altri. Questo umanesimo rifulse, tra gli altri, in Cicerone in
quel suo abbandonare il cuore all'amicizia, che lo portava a dire all'amico
Attico: ego tecum tamquam mecum loquor, "io parlo con te come con
me"; e in Seneca in quelle sue pagine traboccanti di vita e di amicizia.
Interroghiamoli.
Che definizione si può dare dell'amicizia?
L'amicizia è una piena armonia di idee, sentimenti, propositi,
un accordo totale nelle cose divine e umane, accompagnato da benevolenza,
affetto. Nulla le può essere anteposto al di fuori della virtù;
ma d'altra parte è proprio la virtù, che genera e conserva
l'amicizia. Infatti l'amicizia può esserci solo tra uomini buoni.
Ma chi sono gli uomini buoni?
Lungi dal condividere il pensiero stoico, secondo cui buono è solo
l'uomo saggio (il saggio stoico, peraltro, è pura utopia), si possono
dire buoni coloro che si distinguono per lealtà, integrità,
coerenza, generosità, fermezza di carattere e che non mostrano
segni di cupidigia, sfrenatezza di costumi, temerarietà.
Riveste quindi grande importanza la scelta degli amici.
Non c'è dubbio, perché la scelta sbagliata, o quanto meno
infelice, di un amico può avere conseguenze dolorose. Non per questo
però dobbiamo arrivare al qualunquismo del proverbio: Amicus omnibus,
amicus nemini, "amico di tutti, amico di nessuno", testimoniato
anche in ambito greco e mantenutosi fino ai nostri giorni.
Facciamo allora una fotografia dell'amico.
Una massima del filosofo greco Epicuro dice: "L'amicizia percorre
la terra, annunciando a tutti noi di svegliarci per comunicarci la gioia
l'un l'altro" (Sentenze Vaticane 35). Infatti l'amico è una
persona la cui presenza dà piacere, la cui gioia scioglie la tristezza,
le cui parole consolano l'affanno, il cui parere aiuta la decisione; l'amico
è un cuore, in cui ogni segreto scende nella totale sicurezza,
una mano che sostiene nelle difficoltà.
Non si potrebbe correre il rischio di intendere l'amicizia come una sorta
di "società di mutuo soccorso"?
No, perché l'amicizia non nasce dal bisogno o dalla debolezza;
il suo movente non è l'utilità né la speranza di
una forma qualsiasi di guadagno. Affonda le sue radici nell'affetto sincero,
franco, spontaneo, che fa di due persone un solo essere e che aiuta a
migliorarsi reciprocamente. Per questo l'amicizia vera dura per sempre.
Agostino riprenderà il pensiero, definendo dolce l'amicizia degli
uomini, perché con un nodo d'affetto fa di molte anime un'anima
sola (Confessiones 2,5).
L'amicizia vive solo nello scenario del privato o lo trascende?
L'amicizia così concepita si fa luce, che illumina quanto si trova
all'intorno, e fondamento su cui si regge salda non solo la singola casa,
ma anche tutta la città. Infatti dal richiamo ai valori fondamentali,
che stanno alla base dell'amicizia, può scaturire un risanamento
dei rapporti civili e in definitiva un bene per la cosa pubblica.
L'amicizia può giustificare azioni illecite?
Nessuna colpa commessa per amore di un amico può essere scusata.
Nell'amicizia deve valere il principio ut neque rogemus res turpes, nec
faciamus rogati, "di non chiedere azioni disoneste, né di
farle, se richiesti" (Cicerone, Laelius de amicitia 40). D'altra
parte, se alla base dell'amicizia c'è la virtù, senza virtù
non c'è amicizia che merita questo nome, ma solo complicità.
A conclusione, rileggiamo la stupenda pagina dei Promessi sposi (cap.
XI), su cui si stende il sorriso velato d'ironia del Manzoni: "Una
delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia;
e una delle consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare
un segreto. Ora gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno,
generalmente parlando, ne ha più d'uno: il che forma una catena,
di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura
quella consolazione di deporre un segreto nel seno d'un altro, dà
a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo
prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione,
chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente
il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi
soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente
fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d'amico fidato
in amico fidato, il segreto gira e gira in quell'immensa catena, tanto
che arriva all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato
intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai".
Maria Grazia Cavalca
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