"Oggi il tempo è volato". "Per me invece le
ore non passavano mai": brandelli di conversazione colti al volo.
Esempio chiaro che la dimensione 'tempo' che noi avvertiamo è altra
cosa rispetto al ritmo sempre uguale scandito dall'orologio.
Ciò basta perché i miei pensieri comincino a fluire concretandosi
in una molteplicità di domande sul senso del tempo e sul valore
che ad esso dà l'uomo. Ma quale uomo? L'uomo in quanto tale: l'uomo
di oggi, di ieri, di venti secoli fa, perché cambiano i tempi,
le mode, le culture, ma le esigenze, le tensioni, gli afflati più
profondi dell'animo -a ben guardare- sono sempre gli stessi.
Per questo mi viene spontaneo cercare risposte ai miei interrogativi nel
passato, in particolare in colui che, a ragione, può essere definito
il 'filosofo del tempo', lo stoico Seneca. Vissuto nel I secolo d.C. sotto
l'impero di Nerone e, per molti anni, alla sua corte, Seneca ha affrontato
il problema di come l'uomo vive il tempo, non con una speculazione sistematica
ma con la concretezza dell'esperienza.
Immaginiamo quindi di interrogarlo per illuminarci al suo pensiero e dare
spazio a una sapientia, di cui l'uomo moderno ha estremo bisogno per essere
uomo.
Innanzitutto, quale è l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla
realtà del tempo?
Di fronte al tempo gli uomini si comportano in modo diverso: alcuni lo
usano con sobrietà, altri con prodigalità; alcuni spendono
il loro tempo in modo da poterne sempre rendere conto, altri invece lo
sciupano così da non averne mai una briciola da presentare. Molti
non comprendono che è un tesoro da custodire gelosamente e se lo
lasciano portare via, o se lo fanno sfuggire, o lo perdono, addirittura,
senza che se ne accorgano.
La maggior parte degli uomini si lamenta che il tempo concesso a ciascuno
è poco e scorre troppo velocemente. È davvero così?
È fondamentale che ci rendiamo conto che non è il tempo
a disposizione di ciascuno a essere scarso, ma siamo noi che spesso lo
viviamo senza apprezzarne il valore; ce lo facciamo sfuggire, lo gestiamo
con superficialità, lo perdiamo in cose inutili. Capita sovente
che, quando i giorni non sono spesi per qualche buon fine, ci accorgiamo
che sono passati, senza esserci accorti che stavano passando. Il valore
della vita non dipende dalla sua lunghezza, ma dall'uso che se ne fa;
molto spesso accade che chi è vissuto a lungo, è vissuto
poco intensamente. Spesso un vecchio carico d'anni non ha altra prova
con cui dimostrare di aver vissuto a lungo, se non i suoi capelli bianchi
e le sue rughe: non ille diu vixit, sed diu fuit, "non ha vissuto
a lungo, lui, ma è stato al mondo a lungo" (Seneca, De brevitate
vitae 7,10).
Vivere, allora, cosa vuol dire?
Vivere non significa impegnarsi in attività frenetiche, darsi da
fare per occupare tutti i minuti della giornata. Comportarsi in questo
modo non significa dare senso all'esistenza, ma solo arrivare a sera spossati,
senza stringere nulla, o ben poco, nelle proprie mani.
Vivere non significa lasciarsi dominare da rimorsi o incanti del passato,
dall'ansia o dal timore del domani, perché in questo modo il tempo
se ne va e nel cuore penetra la tristezza: dipendere dal passato o dal
futuro è perdere l'oggi.
Vivere è disporre di ogni giorno come fosse una vita intera, ogni
giorno gustato in sé: chi ogni giorno ha vissuto interamente la
sua vita è sereno. Aggiustiamo ogni giorno i conti con la vita,
non rinviamo mai nulla. Chi ogni giorno dà alla sua vita, si fa
per dire, l'ultima mano, non sente il bisogno del tempo, perché
è questo bisogno a metterci in balia di angosce e incertezze.
Quale deve essere dunque l'atteggiamento dell'uomo?
Non ci sono ricette taumaturgiche da osservare con scrupolosa attenzione.
L'uomo deve farsi ricco della sua mente, del suo cuore, della sua libertà
e affrontare con responsabilità e serenità la propria vita:
non dimenticando il passato, non limitandosi a sopravvivere nell'oggi,
non temendo il futuro. Godiamo invece delle gioie passate, perché
il nostro animo non le abbia accolte come se fosse un vaso forato che
lascia fuggire via quanto riceve e, d'altra parte, viviamo sereni l'attesa.
Vale a dire, dobbiamo riuscire a vivere in armonia col presente, a godere
la gioia del ricordo, a nutrire una tranquilla speranza nel futuro.
Questi pensieri, umanamente pagani, riemergono in sant'Agostino, vivificati
da un verticalismo trascendente, che Seneca, pagano, non poteva possedere.
Agostino si chiede se è possibile misurare il tempo e rileva che
non si può misurare il futuro, che non esiste ancora; non si può
misurare il presente, che non ha estensione; non si può misurare
il passato, che non esiste più. A differenza del pensiero filosofico
precedente (Pitagora, Platone, Aristotele, stoici ed epicurei), egli non
collega il tempo al mondo fisico, bensì all'anima e all'eternità.
Ascoltiamo la sua voce: "In te, anima mia, misuro il tempo, perché
solo nella mente, nelle impressioni della mente, sussistono il passato,
il presente, il futuro
L'animo attende, presta attenzione, ricorda:
in modo che quello che attende, attraverso il suo sviluppo nel presente,
passi poi nel ricordo. Chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora?
Ma nell'animo vive l'attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato
non esiste più? Ma nell'animo vive la memoria del passato. Chi
negherà che il tempo presente manca di estensione, perché
non è che un punto transeunte? Ma dura l'attenzione attraverso
la quale il futuro tende al passato
Non può esistere tempo,
se non esiste creatore; si volga a te il pensiero, o Dio, creatore eterno
di tutti i tempi, prima di tutti i tempi" (Agostino, Confessiones
11,27-28-30).
Maria Grazia Cavalca
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