Non voglio entrare in una querelle giuridica, per la quale non ho competenza
specifica, pur convinto, da cittadino comune, che le leggi dello Stato
(che esistono sulla materia incandescente di questi giorni) non possono
essere modificate a colpi di sentenze giudiziarie, bensì dal Parlamento,
unica fonte legittima del potere legislativo, nella quale si trovano democraticamente
rappresentati tutti i cittadini.
Piuttosto voglio riportare il discorso sull'idea di laicità e di
pluralismo. Siamo in uno Stato "laico", si dice e si urla. E
fin qui nulla da eccepire. Dunque: via i crocifissi dalle aule scolastiche,
via i riferimenti cristiani dai canti natalizi nelle scuole pubbliche,
via i simboli religiosi dagli ambienti pubblici
E qui c'è
molto da eccepire. Che cosa vuol dire, infatti, "laicità"
dello Stato? Vuol dire che lo Stato moderno non può essere "confessionale"
in nessun senso: ossia non può far propria nessuna religione (non
solo quella cristiano-cattolica, ma nemmeno quella mussulmana, quella
ebraica, quella buddista
); e non può far propria nessuna
particolare ideologia, né quella materialistica e atea, ma nemmeno
quella laicistica, se per laicismo si intende una particolare concezione
del mondo e dell'uomo di ispirazione immanentistica e illuministica, che
nega i valori trascendenti o li confina e li tollera solo nel segreto
della coscienza individuale. Lo Stato non è un Moloch, dotato di
un suo pensiero e di una sua etica. Lo Stato è lo strumento che
la società civile si dà per il governo della Città
terrena. La fonte di legittimazione dello Stato non è
lo Stato:
in tal caso saremmo in un regime totalitario, dove lo Stato si autoproclama
padrone delle coscienze, fonte di moralità, sorgente della verità.
E' la società civile, è la concreta comunità dei
cittadini, è insomma il "popolo" la fonte legittima della
sovranità: lo ricorda solennemente la nostra Costituzione proprio
nel primo articolo. Ma ogni popolo è costituito da una storia,
da una cultura, da un'arte, da una tradizione che, nel caso dell'Italia
e dell'Europa - lo ha ricordato anche il Presidente Ciampi in questi giorni
- trovano nel cattolicesimo una fra le radici più vive e feconde
della nostra identità. Gli stessi Accordi di revisione del Concordato
fra l'Italia e la Santa Sede (che, votati a grandissima maggioranza dal
Parlamento italiano nel febbraio del 1984, sono a pieno titolo patrimonio
legislativo, costituzionalmente garantito, del nostro Stato "laico")
affermano all'art. 9 che la Repubblica italiana non solo riconosce il
valore della cultura religiosa (in ciò rinunciando ad una sorta
di scetticismo e di neutralismo che sono invece riaffiorati prepotentemente
in questi giorni non nella comunità islamica, ma nell'ala più
giacobina del fronte laicistico italiano), ma tiene conto - dunque riconosce
come dato di fatto incontrovertibile - che "i principi del cattolicesimo
fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano".
Applichiamo questo principio ai crocifissi. Lo Stato è laico, quando
riconosce i simboli religiosi di fatto presenti nella vita del popolo
italiano: di qualunque religione, certo, ma tenendo ovviamente conto della
consistenza storica e della tradizione culturale di ogni religione. Lo
Stato diventa laicista, e dunque travalica il proprio ruolo e abusa delle
sue funzioni, quando, in nome di una pretestuosa concezione della laicità
e anche del pluralismo, sposa una sorta di agnosticismo e di indifferentismo,
che arriva ad occultare qualsivoglia espressione religiosa dai luoghi
pubblici, ossia dai luoghi dove di fatto vive e opera la società
civile. La rimozione del crocifisso, come di altri segni religiosi dalla
vita sociale: questo sì sarebbe un atteggiamento antidemocratico
- come ha detto il Papa - perché negherebbe non solo il valore
pubblico del popolo cristiano in quanto tale, ma il valore stesso della
libertà di religione, di ogni religione, radice di ogni altra libertà.
Il problema, caso mai, è di valutare il significato di altre esperienze
religiose, oltre a quella cristiano-cattolica, nella vita del popolo italiano:
"togliere" è comunque la decisione peggiore. Una società
democratica vive di identità e di esperienze concretamente operanti,
che lo Stato è chiamato a "riconoscere". Questo vuol
dire "laicità". Altrimenti siamo al dogma laicista. Perfino
Bertinotti in questi giorni ha dichiarato di provare disagio a togliere
il crocifisso dalle aule scolastiche. Segno evidente che il crocifisso
non è un simbolo qualunque, non è un segno religioso dell'ultima
ora, non è così discriminante come si accusa: è un
simbolo che fa parte integrante della nostra storia e della nostra esperienza
di vita e che non intende escludere nessuno, anzi intende accogliere tutti.
Un'ultima considerazione. Si legge nelle motivazioni della sentenza dell'Aquila
che "il pluralismo religioso e culturale può realizzarsi solo
se l'istituzione scolastica rimane imparziale di fronte al fenomeno religioso".
Sono espressioni ambigue. Non vorrei che l'imparzialità fosse intesa
come neutralità avalutativa, come indifferentismo, per altro di
sapore mercantile, verso l'esperienza religiosa. Perché allora
saremmo al nichilismo. La nostra scuola educherebbe a non avere idee,
per paura di sposarne qualcuna. Educherebbe ad una tolleranza senza valori,
che diventa intolleranza verso chiunque proponga una determinata concezione
della vita. Ma questo è "il fondamentalismo del nulla",
come l'ha chiamato Mario Mauro in questi giorni; o "la cultura del
nulla", come l'ha definita qualche anno fa il card. Biffi. Il clima
culturale odierno alimenta un codice confusivo, quando sostiene che il
pluralismo come tale è la condizione per un'autentica convivenza
democratica: certo, purchè il pluralismo consenta le libere espressioni
delle varie identità culturali e religiose e non copra il nulla
che sta dietro e dentro a tante posizioni oggi sbandierate come tollerantistiche
e dialogistiche (verso le posizioni altrui, soprattutto se non cristiane
e non cattoliche), ma che in realtà si rivelano incapaci di un
vero giudizio, perché rinunciatarie ad una propria identità,
avvertita come un fastidio, non come una ricchezza.
Insomma, non possiamo permettere che una sentenza di tribunale annulli
due mila anni di esperienza cristiana e svilisca l'educazione scolastica
e l'impegno culturale a scetticismo sistematico.
Don Alberto Franzini
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