"Nell'agosto 1917 Benedetto XV esortò alla pace i capi
delle nazioni belligeranti. Quasi nessuno lo degnò di una risposta.
Eppure la storia dimostra che aveva ragione lui, sui princìpi e
sulle scelte". Giorgio Rumi, nuovo consigliere di amministrazione
della Rai, storico di professione, segue gli eventi in Iraq senza perdere
il filo della memoria.
Il Papa invoca la pace, ma scoppia la guerra. Una sconfitta?
"La lezione di Benedetto XV illustra bene come questo sia il prezzo
che si paga al tempo. Compito del Pontefice è seminare, e non vendere
un prodotto. La storia vive di tempi lunghi, noi e la Provvidenza non
abbiamo lo stesso orologio. Si tratta di vedere cosa germina dal terreno.
E il terreno siamo noi".
Ma il singolo avverte un senso di impotenza
"Coltivare una 'pedagogia della pace' come fanno il Papa e i nostri
Vescovi, non è rassegnazione, ma dichiarazione di impegno. Attenzione
a credere che la storia si sia chiusa con il primo attacco all'Iraq: essa
si alimenta d'un inesauribile tentativo di spendersi, perché la
pace non è - come credono taluni pacifisti - una 'folgorazione'.
Le cose dell'uomo sono costruzioni pazienti: richiedono anni di fatica,
sapienza, sbagli, come le cattedrali. L'importante è mettersi subito
sulla strada giusta: che è il ripristino delle organizzazioni internazionali
come 'fraternitas' e non solo come 'societas' di nazioni. Davanti a questa
guerra non siamo a mani vuote, perché teniamo accesa la speranza
di chi si sa ingaggiato nella fatica di costruire il futuro".
Pace e pacifismo: Ruini ha sottolineato la necessità di liberare
"la pace dalla presa delle ideologie". Cosa ne pensa?
"Insisto: solo una paziente pedagogia è in grado di purificarci
dalla tentazione di contaminare l'impegno per la pace con logiche estranee,
piegando persino i pronunciamenti del Papa a interessi di fazione. Giovanni
Paolo II non è il compagno di un tratto di strada, che poi si abbandona
per passare disinvoltamente ad altri messaggi, anche opposti. La pace
non cresce nell'estatico compiacimento delle emozioni, ma in una coscienza
sempre vigilante, capace di leggerla in relazione a verità, giustizia,
libertà. E' solo così che si è in grado di non perdere
di vista altri conflitti, come quello mediorientale, o le tante guerre
dimenticate"
Quale pace ha senso chiedere quando la parola è passata alle
armi?
"Una pace che non è solo traguardo, ma metodo. Il grande movimento
delle coscienze ha reso impensabile - ad esempio - il ricorso alla violenza
cieca che non bada ai civili, ha imposto di non trascurare le vittime
tra gli stessi militari, ha indotto a non chiudere gli occhi sul regime
iracheno. E' il segno di una maturazione progressiva".
Sufficiente a rendere consapevoli sui rischi di uno "scontro di
civiltà"?
Non c'è possibilità di sentirsi al riparo dall'insidia di
un confronto tra occidente e islam, se prima non ci si impegna a superare
la mortificante divisione interna dell'Europa. Vanno superate le tensioni
interne, senza pretendere di riuscirvi subito. Abbiamo impiegato 50 anni
per arrivare fino all'Unione Europea: per costruire un soggetto credibile
sul piano globale occorre avanzare al passo che la situazione consente.
La democrazia non è uniformità, ma gestione delle diversità.
L'Europa deve crescere fedele a questa sua identità plurale. E
il mondo ha bisogno di un'Europa forte".
Le divisioni sulla guerra lasceranno molte scorie
"Quale migliore fatica che occuparci di risanare le fratture? I conflitti
si risolvono con l'inclusione e non con l'emarginazione di chi non è
d'accordo. E' una prova di civiltà, alla quale non si può
sottrarre il dibattito pubblico nel nostro Paese, purtroppo ancora quasi
da guerra civile".
Francesco Ognibene
(da Avvenire del 25 marzo 2003)
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