"Storditi dalla religione della salute"

L'epoca dei dibattiti sulle visioni del mondo è finita, ed è iniziata l’epoca dei dibattiti sulle "visioni dell’uomo". In futuro sarà possibile riconoscere i cristiani in base alla loro concezione dell’uomo.



Secondo Peter Singer, e con lui molti altri, l’uomo è un insieme di capacità, la cui dignità dipende dalla presenza attuale di queste capacità; invece, secondo l’intera tradizione cristiana, l’uomo ha la sua completa dignità anche e soprattutto in situazioni di estremo bisogno. In effetti difficilmente si potrà trovare una differenza più grande di quella che vede contrapposte da una parte l’atmosfera dominante, che tende a negare dignità proprio ai più deboli e bisognosi d’aiuto – gli embrioni, nella fase iniziale della vita, e coloro che hanno gravi danni cerebrali, nella fase finale dell’esistenza – e, dall’altra, la concezione cristiana che, proprio nei più deboli e bisognosi d’aiuto, vede la presenza di Cristo stesso. Dunque, nel promuovere oggi il messaggio evangelico, la "lieta novella" della salvezza dell’uomo deve essere portata in primo piano nella discussione. E non si tratta di una salvezza astratta: è, molto concretamente, la liberazione da visioni dell’uomo che sono umanamente indegne e che conducono al disprezzo per l’uomo stesso. Infatti, un progresso che seppellisse sotto i suoi passi l’uomo e la sua dignità, costituirebbe forse la prosecuzione dell’evoluzione, ma sicuramente non rappresenterebbe più un progresso umano. A questo punto però si pone la domanda se dietro a queste assurde immagini dell’uomo che oggi sono tanto apprezzate, non vi sia una tendenza unica, individuabile in una "visione dell’uomo" accessibile a un discorso etico razionale. Io credo che esista realmente una tale "visione dell’uomo" che oggi sta progressivamente diventando dominante in tutto il mondo, tale visione si potrebbe chiamare la "religione della salute".
Non Dio, ma la salute, la salute individuale, assurge a indiscusso "bene massimo". Salvezza e redenzione non sono più attese in un qualche "al di là", ma qui ed ora. Si aspetta quantitativamente la vita eterna dalla medicina e qualitativamente l’eterna felicità dalla psicoterapia. Impercettibilmente, ma con grandi conseguenze, tutte le convenzioni religiose sono approdate al sistema sanitario. Non abbiamo più solo medici come semidei, ma abbiamo luoghi di pellegrinaggio, eresie, movimenti "ascetici" dietisti, riti, campagne missionarie per la salute sovvenzionate dallo Stato. La salute, il bene, come quasi tutto nella nostra società, è visto come un prodotto che può essere fabbricato: bisogna fare qualcosa per la salute, da niente non viene niente, chi muore, muore per colpa sua. Vengono prodotti senza ritegno sensi di colpa, e il termine «peccato» non viene più usato nelle chiese, ma solo in relazione ai peccati di gola, ad esempio per il divoratore di una torta di panna. Soprattutto però il tabù della blasfemia, nelle società occidentali, non solo è imitato, ma completamente trasferito dal cristianesimo alla religione della salute. Il che significa che su Gesù Cristo si può fare ogni sorta di scherzo, ma con la salute no.

Molto gravi sono però le conseguenze etiche di questo nuovo movimento quasi religioso e internazionale. Se la salute rappresenta il massimo valore, allora l’uomo sano è anche il vero uomo. E chi non è sano, e soprattutto, chi non può ritornare sano, allora diventa tacitamente un uomo di seconda o terza classe. In tal modo siamo arrivati al nocciolo dei dibattiti bioetici degli ultimi anni. È vero che la dominante religione della salute ha prodotto un enorme incremento dell’attenzione pubblica sui metodi di guarigione, ma il messaggio indiretto di tale avido interesse per la guarigione medica è che l’inguaribile, il malato cronico, il portatore di handicap, vengono spinti nell’ombra, per loro c’è posto solo ai margini della società salutista. Viene detto poco e viene diffusa l’opinione, generalmente in modo molto sottile, che lo stesso individuo «certamente non vuole vivere così» e che pertanto a queste persone si deve riconoscere il «diritto ad una buona morte», l’eutanasia.

All’inizio della vita, invece, non si tratta più di evitare l’handicap, ma di evitare l’handicappato. Così in Germania sono sufficienti malformazioni banali come la schisi labiale, per essere uccisi con un’iniezione di potassio al cuore poco prima della nascita, e addirittura nel canale del parto, nel quadro di una «indicazione medica» ampiamente accettata. Tale omicidio in Germania non è né illegale, né punibile, anzi, regolarmente pagato dalle mutue.
Queste mostruosità sono praticabili, in una società, solo se è stata creata l’atmosfera adatta. Questa atmosfera è determinata dalla religione della salute. Il significato della religione della salute diventa particolarmente chiaro in relazione alla scelta dei valori della società nell’ambito della cosiddetta «Etica del guarire». In Germania questa definizione fu creata nell’ambito del dibattito sull’uso delle cellule staminali embrionali. Si ammise che l’uccisione degli embrioni fosse problematica, ma ci si assolse da soli attraverso l’uso dell’espressione «etica del guarire»: si uccidono gli embrioni per uno scopo altamente nobile, cioè la guarigione. Certo esiste davvero anche un’etica del guarire, dato che la guarigione si basa su principi etici, ma ciò che si presentò qui come «etica del guarire» era stato pensato per porre fine in modo estremamente efficace e demagogico al razionale dibattito etico, anzi per non farlo proprio sorgere. All’epoca si affermò che tramite le ricerche sulle cellule staminali embrionali fosse possibile curare il morbo di Parkinson, ma dal punto di vista neurologico ciò è improbabile e le esperienze scientifiche in questo campo non sono propriamente incoraggianti. Tuttavia, il dibattito pubblico procede diversamente da quello scientifico: nel primo le argomentazioni semplicistiche hanno molto effetto. «Chi guarisce ha diritto», questa buona e vecchia massima della medicina diviene in questo modo un abuso etico ed è trasformata dall’«etica del guarire» in una cinica formula per giustificare tutto. L’«etica del guarire» è il fondamentalismo della religione della salute, essa non è più accessibile ad un ragionamento razionale.

Per i cristiani il corpo è il «Tempio dello Spirito Santo» (Paolo) e perciò la salute di questo corpo rappresenta un valore alto. Mai però, nell’intera tradizione cristiana, la salute ha costituito il massimo valore. La salute è un grande valore, né più, né meno.

Le tecniche sanitarie non devono, quindi, in nessun caso essere ritenute tecniche di salvezza. La salvezza, secondo la convinzione cristiana, non si trova primariamente nella cosiddetta buona salute, ma piuttosto in situazioni limite dell’esistenza umana, situazioni che vengono disprezzate dalla religione della salute come realtà da evitare o deficit da eliminare. Proprio nell’handicap, nella malattia, nel dolore, nella vecchiaia, nel morire e nella morte si può, invece, percepire la verità della vita in modo più chiaro e massiccio che nello scorrere del tempo senza disturbi importanti. Dato che queste situazioni-limite della vita degli uomini si caratterizzano per il fatto di essere inevitabili, il messaggio cristiano può indicare all’uomo di oggi, alla ricerca della salvezza, una via piena di forza per colmare la vita, attraverso una visione positiva dell’inevitabile e apparente deficit. «Salvifici doloris. Sul senso salvifico del dolore umano» è il titolo di uno scritto di forte impatto del nostro Santo Padre all’inizio del suo pontificato. Ciò che scrisse allora il Santo Padre lo sta vivendo oggi, incarnando questo messaggio con grande intensità: è l’alternativa, vissuta, alla dominante follia salutista, che emana dalla sua persona.

La religione della salute ruota attorno all’antichissimo tema della religione: il superamento del contingente e soprattutto il superamento dell’esperienza di morte. Però questa nuova religione induce gli uomini a perdere se stessi nella lotta contro la morte. Ci sono uomini che vivono, per così dire, preventivamente, per arrivare sani alla morte. Si potrebbe dire che gli uomini, per evitare la morte, si prendono la vita, cioè l’irripetibile tempo di vita e quando, poi, sul letto di morte accade l’inevitabile – che hanno cercato di evitare con ogni possibile accortezza salutista – si chiederanno se forse non avrebbero dovuto trascorrere un po’ più tempo con la moglie, con i figli, gli amici anziché in palestra, oppure se non avrebbero potuto fare qualcosa per gli altri.

Il messaggio cristiano acquista la sua più profonda forza e il suo valore più alto quando viene annunciato nell’imminenza della morte. L’«Evangelium vitae» trae da qui il suo splendore, poiché chi respinge la morte, perde la vita. Cristo annuncia la vita quando dice «Io sono la strada, la verità e la vita». Non è una vita piatta, ma «sofferto... crocifisso, morto e sepolto, e risorto dai morti». Questa è «la speranza che vive in noi».
di Manfred Lütz