Pensieri cristiani sulla pace
Casalmaggiore, sabato 22 marzo 2003

Una premessa

Il mio compito non è tanto quello di entrare nel merito di un giudizio su questa guerra - comunque, per non sottrarmi, dirò subito che l'ho ritenuta sbagliata e non comprensibile da diversi punti di vista, e prima ancora che il Papa si sia chiaramente espresso - quanto piuttosto di declinare una riflessione più ampia sul tema della pace, così come è stata espressa dall'insegnamento della Chiesa in questi ultimi decenni, a partire dalla Pacem in terris (PT), di cui ricorre quest'anno il 40.mo anniversario, e soprattutto nei Messaggi che dal 1968 i due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo II, hanno scritto in occasione della Giornata Mondiale della Pace. Il no alla guerra, infatti, non può essere ridotto ad uno slogan gridato. I papi più recenti non si sono infatti limitati a gridare un chiaro no alla guerra (da Benedetto XV: "inutile strage", a Pio XII: "Niente è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra", a Paolo VI nel suo celebre discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965: "Jamais plus la guerre!; ai numerosi interventi di Giovanni Paolo II, fra cui quello del 1991;"la guerra è un'avventura senza ritorno"; e l'ultimo del 23 febbraio scorso: "Mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra"), ma hanno sempre accompagnato il no alla guerra con un sì alla promozione dei diritti fondamentali dell'uomo.
Il sì alla pace a ben poco servirebbe, se non si accompagnasse ad un si a tutte quelle condizioni che ne permettono una trascrizione storica, ossia che la rendono fattiva e duratura, per quanto è possibile nelle cose di questo mondo; e se non si accompagnasse ad un no a tutto ciò che nega o incrina la pace.
Vorrei partire da due citazioni, per avviare qualche riflessione ordinata.
- "La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio". Così l'incipit di quella grande enciclica che è la Pacem in terris, di Giovanni XXIII. Si tratta della "pace in terra", che non è ancora lo shalom biblico, ossia quella pace messianica che ci verrà donata pienamente alla fine dei tempi insieme al Regno di Dio. C'è un rapporto fra questi due momenti, ma nessun progetto politico e sociale può dirsi definitivo, fin che dura la condizione pellegrinante dell'uomo.

La seconda è di Giovanni Paolo II ed è tolta dall'Angelus del 23 febbraio scorso. Dopo aver affermato con forza che "è doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri, mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra", il Papa si rivolge direttamente ai cristiani per una consegna: "Noi cristiani, in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza".
Queste due citazioni ci offrono subito un orizzonte autentico e vasto per collocare un discorso cristiano sulla pace: un orizzonte oggettivo (l'ordine stabilito da Dio) e un orizzonte soggettivo, al quale nessuno di noi può sfuggire (il rimando decisivo alla coscienza).


1. Un orizzonte oggettivo

Che cos'è? E' l'ordine stabilito da Dio. E' ciò che Dio vuole. E' il suo disegno sul mondo. E qui viene in aiuto tutto l'insegnamento della PT. C'è un ordine voluto da Dio, c'è un progetto divino che si rivela nel mondo attraverso l'uomo. Rileggendo la PT, ci accorge che questo documento, prima che essere un inno alla pace, è un inno alla persona umana, ai suoi diritti e ai suoi doveri. "La dignità della persona è il fondamento della pace": è l'affermazione più ricorrente nella PT. L'enciclica è tutto l'opposto di un vago appello, di una pia predicazione ,di una sentimentale esortazione alla pace. Essa coglie invece la radice della questione, quando mette al centro di ogni discorso sulla pace il rispetto della dignità della persona umana. Una dignità non semplicemente proclamata, ma declinata secondo i celebri quattro pilastri, che formano l'ossatura costante del documento: ossia i valori della verità, della giustizia, della solidarietà e della libertà, valori che la PT ritiene indispensabili a livello personale, comunitario, nelle relazioni tra popoli e nazioni, a livello internazionale.
E' a partire da questi pilastri - indivisibili - che si sono via via sviluppate riflessioni sempre più articolate da parte dei papi sul perseguimento della pace, possibile solo se legato alla tutela e alla promozione dei diritti fondamentali della persona umana e dei corrispondenti doveri. Su questo punto l'insegnamento della Chiesa si è andato precisando e sviluppando, anche grazie all'incalzare di problemi e situazioni sempre nuove.
Quali sono i cardini di tale riflessione?

a. Questi diritti fondamentali simul stabunti simul cadunt, ossia stanno insieme o cadono insieme. Lo ha ripetuto con forza Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Pace del 1999:
"Nessun diritto umano è sicuro, se non ci si impegna a tutelarli tutti. Quando si accetta senza reagire la violazione di uno qualsiasi dei diritti fondamentali, si pongono a rischio tutti gli altri. E' indispensabile pertanto un approccio globale al tema dei diritti umani e un serio impegno a loro difesa" (n. 12).

b. Fra questi diritti fondamentali, i due ultimi Papi hanno fortemente sottolineato - in aperta e dichiarata connessione al tema della pace - almeno tre piste: la giustizia sociale, la difesa della vita umana, la ricerca della verità.

La prima pista è esposta in innumerevoli documenti, i quali tutti dicono una cosa per sé ovvia: la pace è minacciata quando permangono situazioni di ingiustizia, di sperequazione, di violenza, di terrorismo e di guerra. Ad es. scrive Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace del 1993:
"Si afferma e diventa sempre più grave nel mondo un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che si impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale" (n. 1)
Questa connessione è fortemente avvertita e compresa ed ha il consenso pressoché unanime della pubblica opinione e della cultura di massa.

L'altra pista - ossia la connessione fra pace e difesa della vita - non ha le stesse simpatie, anzi sembra quasi rimossa e occultata non solo nel mondo laicista, ma perfino in qualche frangia del mondo cattolico, che mostra di essere infastidita da tale connessione e, pur affermando la negatività dell'aborto, non sempre lo mette in relazione alla tematica della pace. Eppure tale correlazione è fortemente sottolineata nell'insegnamento del magistero della Chiesa, e non solo - come spesso capita di sentire in cattolici non bene informati - nel magistero di questo papa, ma anche in quello dei predecessori. Ad es. Paolo VI, nel Messaggio per la pace del 1977:
"Non è solo la guerra che uccide la Pace. Ogni delitto contro la Vita è un attentato contro la Pace, specialmente se esso intacca il costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora legale facilità la soppressione della Vita nascente, con l'aborto. […] La soppressione di una Vita nascitura, o già venuta alla luce, viola innanzi tutto il principio morale sacrosanto, a cui sempre la concezione dell'umana esistenza deve riferirsi: la Vita umana è sacra fin dal primo momento del suo concepimento e fino all'ultimo istante della sua sopravvivenza naturale nel tempo. E' sacra: che vuol dire? Vuol dire che essa è sottratta a qualsiasi arbitrario potere soppressivo; è intangibile, è degna di ogni rispetto, d'ogni cura, d'ogni doveroso sacrificio.[…] Se vogliamo che l'ordine sociale progrediente si regga sopra i principii intangibili, non offendiamolo nel cuore del suo essenziale sistema: il rispetto alla vita umana. Anche sotto questo aspetto Pace e Vita sono solidali alla base dell'ordine e della civiltà".

Giovanni Paolo II ha innumerevoli passi su questo tema. Mi ha sempre colpito un suo intervento all'Angelus del 5 aprile 1981, per la qualità profetica di quelle sue lontane dichiarazioni:
"Se si concede diritto di cittadinanza all'uccisione dell'uomo, quando è ancora nel seno della madre, allora ci si immette per ciò stesso sulla china di incalcolabili conseguenze di natura morale. Se è lecito togliere la vita ad un essere umano, quando esso è più debole, totalmente dipendente dalla madre, dai genitori, dall'ambito delle coscienze umane, allora si uccide non soltanto un uomo innocente, ma anche le stesse coscienze. […] Se accettassimo il diritto di togliere il dono della vita all'uomo non ancora nato, riusciremmo poi a difendere il diritto dell'uomo alla vita in ogni altra situazione? Riusciremmo a fermare il processo di distruzione delle coscienze umane?".
Lo stesso card. Tettamanzi, sempre domenica scorsa nel Convegno diocesano a Milano, disse: "Essere sentinelle della pace significa dire no ad ogni attentato all'incomparabile dignità di ogni essere umano, a cominciare dal fondamentale diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale". E tutti ci ricordiamo di madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace, che in diversi Parlamenti e assemblee ricordava lo stesso concetto: "l'aborto è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo". Sta anche qui la debolezza di certo pacifismo del nostro occidente: il grido contro la guerra diventa fioco, ed è facilmente catturabile da strumentalizzazioni politiche, se non è portato coerentemente contro tutto ciò che attenta alla vita dell'uomo.

La terza pista è quella della ricerca della verità. E' la verità "la forza pacifica e possente della pace, poiché si comunica per irraggiamento suo proprio, al di fuori di ogni costrizione" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la pace 1980). Anche questo tema - il rapporto fra pace e verità, già enunciato nella Pacem in terris - non ha molta fortuna nella considerazione della cultura dominante, oggi fortemente influenzata dal c.d. pensiero debole, che taccia perfino di fondamentalismo, di intolleranza e di attentato alla democrazia chi si sente portatore di una identità veritativa. Come se un'autentica vita democratica potesse fondarsi e svilupparsi solo su una visione scettica dell'esistenza, o peggio ancora sulla menzogna, tipica dei regimi totalitari. C'è una limpida e forte espressione di Giovanni Paolo II, che si trova nella Centesimus Annus (1991) ed è stata ripetuta anche nella visita al Parlamento italiano il 14 novembre scorso, circa il rischio di una alleanza fra democrazia e relativismo etico: "Se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia" (n. 46). Questo non significa cadere nel fondamentalismo, perché la verità, essendo basata sulla dignità trascendente della persona umana, ha come suo metodo il rispetto della libertà.
Quello della verità è un compito e un orizzonte quanto mai attuali nella nostra società, soprattutto per quanto attiene ad es. l'istruzione scolastica e l'educazione che ai giovani viene data nei nostri oratori e nelle nostre parrocchie. Senza una preoccupazione orientata in senso veritativo, le persone - diventando massa da manipolare - sono facile preda dell'egemonia culturale di moda. L'opinione pubblica manipolata crea a sua volta movimenti che rischiano di rimanere effimeri, perché privano le persone della capacità di pensare con la propria testa: sola la verità è liberante. E solo la verità può essere la forza della pace. Giovanni Paolo II dedica tutto il messaggio della pace del 1980 a questo tema. Sostanzialmente afferma che le non-verità e le menzogne sono alla base della violenza e dunque costituiscono una minaccia alla pace. Scrive ad es.:
"La violenza si radica nella menzogna e ha bisogno della menzogna, nel tentativo di assicurasi una rispettabilità dinanzi all'opinione mondiale mediante giustificazioni del tutto estranee alla sua natura e, del resto, spesso tra loro contraddittorie. Che dire della pratica di imporre a coloro che non condividono le proprie posizioni - per meglio combatterli o ridurli al silenzio - l'etichetta di nemici, attribuendo loro intenzioni ostili, stigmatizzandoli come aggressori mediante una propaganda abile e costante? […] Accuse selettive, insinuazioni perfide, manipolazione delle informazioni, discredito gettato sistematicamente contro l'avversario - contro la sua persona, le sue intenzioni, i suoi atti -, ricatto e intimidazione: ecco il disprezzo della verità, messo in atto per creare un clima di incertezza, nel quale si vogliono costringere le persone, i gruppi, i governi, le stesse istanze internazionali a silenzi rassegnati e complici, a compromessi parziali, a reazioni irrazionali: tutti atteggiamenti egualmente suscettibili di favorire il gioco omicida della violenza e di contrastare la causa della pace" (n. 1).
Quanto la comunità cristiana, e non solo, sia chiamata oggi a far fronte a questo "disorientamento veritativo" (è anche esso una delle povertà e delle insipienze dei nostri giorni), è sotto gli occhi di tutti. Le nostre stesse parrocchie, che rischiano di diventare sempre più dei centri di servizi ricreativi e sociali, oltre che di servizi religiosi, a fatica oggi riescono ad esprimere una posizione cristiana dotata di dignità culturale e quindi delle personalità cristiane in grado di dialogare con qualunque posizione culturale e religiosa senza accomodamenti o riduzionismi.

In questa ottica risulta già chiaro il significato della posizione della Chiesa, che - come ha ribadito mons. Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, domenica scorsa (16 marzo) a Milano, in occasione del Convegno diocesano "Pacem in terris" - "non è pacifista, ma pacificatrice. E' questo il senso e il valore delle parole che Giovanni Paolo II ha pronunciato in questo frangente storico, parole che si elevano ben al di sopra degli slogan di un certo pacifismo o a quelli del movimento contrario, entrambi seriamente a rischio di una deriva ideologica e di unilateralismi".

2. Un orizzonte soggettivo

E' altrettanto fondamentale, perché fa appello alla coscienza, dunque alla responsabilità dell'uomo, di ogni uomo, perché si impegni al discernimento per operare decisioni giuste e sagge. Ricorda che la radice del male sta nel cuore di ogni persona. Solo affrontando anche la realtà del male radicale che sta accovacciato presso il portale della nostra esistenza come belva pronta a dilaniare, comprendiamo tutto l'impegno la fatica della pace. Per il cristiano, la pace è essenzialmente dono di Dio, da accogliere e da trascrivere nell'esperienza della vita. E' la pace a caro prezzo, per la quale è morto lo stesso Gesù. Per questo Paolo VI, proprio nel I Messaggio per la Giornata della Pace del 1968, scrisse: "Sarà da auspicare che la esaltazione dell'ideale della pace non debba favorire l'ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa della giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga delle responsabilità, dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose. Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà e l'amore".
E qui si apre tutto il discorso educativo, che è profetico e realistico insieme, perché il profetismo cristiano circa la pace non lo si può staccare dall'incarnazione, ossia dal principio di realtà, ma lo assume in pieno con la forza del Vangelo.
Educare alla pace é educare alla vita, è educare al principio di realtà, è educare al senso delle cose e degli avvenimenti, è educare alla testimonianza cristiana, è educare all'umano, a tutto l'umano, senza strabismi, senza indebite selezioni, senza sbilanciamenti che provocherebbero danni immensi nella costruzione di una personalità cristiana. Per questa educazione integrale bisogna partire da una concezione alta della persona umana: oserei dire da una concezione, prima ancora che etica, metafisica della persona umana.
Il tema della pace non va dunque isolato da una concezione globale della vita, quale è offerta dal Vangelo di Cristo, da tutta la ininterrotta testimonianza dei santi, della predicazione del magistero della Chiesa, degli scritti dei dottori e dei teologi e dell'apporto della riflessione filosofica. Scriveva Paolo VI nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"Dobbiamo oggi difendere la Pace sotto il suo aspetto, potremmo dire metafisico, anteriore e superiore a quello storico e contingente della pausa militare e della esteriore tranquillitas ordinis; vogliamo considerare la causa della Pace rispecchiata in quella della vita umana stessa. Il nostro "sì" alla Pace si allarga ad un "sì" alla vita. La Pace deve affermarsi non soltanto sui campi di battaglia, ma dovunque si svolge l'esistenza dell'uomo. Vi è, anzi vi deve essere anche una Pace che tutela questa esistenza non solo dalle minacce delle armi belliche, ma una Pace altresì che protegge la vita in quanto tale, contro ogni pericolo, ogni malanno, ogni insidia".
Sul piano educativo è fondamentale ribadire che l'esperienza cristiana non è mai utopia, ma speranza. Utopia è, etimologicamente, il "non luogo", ossia è ciò che non solo non esiste di fatto, ma non può esistere nemmeno di diritto. L'utopia - presa in questo senso e non semplicemente presa nel fascino linguistico che il termine può assumere quando fosse utilizzato come principio critico della situazione esistente - è un'astrazione. E l'astrazione è lontana mille miglia dall'esperienza cristiana, che invece è contrassegnata dalla virtù della speranza: una speranza fondata su un avvenimento realmente accaduto, quello del Verbo che si è fatto carne. Nella storia umana agisce, come germe di salvezza, la forza redentrice di Cristo risorto, che non elimina dolore, sofferenza e morte dalla nostra condizione umana (non siamo ancora nell'Eden), ma conferisce al buio e alle tribolazioni della vita un senso salvifico insperato e trascendente. Questo fa la differenza fra utopia e speranza, fra una concezione che idealizza la realtà e il cristianesimo che incarna un ideale. Mi sembra un dato che derivi dalla stessa incarnazione del Verbo che nella storia ci sia il male e dunque ci siano anche le violenze e le guerre. Ma proprio per questo c'è bisogno di un Salvatore e di una Salvezza che non siano generati da questo mondo. Il processo educativo non si può staccare dal principio di realtà, ma lo assume pienamente con la forza del vangelo. E' quanto ha dichiarato Paolo VI nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"La pace non è sogno puramente ideale, non è un'utopia attraente, ma infeconda e irraggiungibile; è, e deve essere, una realtà; una realtà mobile e da generare ad ogni stagione della civiltà […]. Come non è la Pace uno stato di atarassia pubblica, in cui chi ne gode è dispensato da ogni cura e difeso da ogni disturbo, e può concedersi una beatitudine stabile e tranquilla, che più sa di inerzia e di edonismo, che non di vigore vigilante ed operoso".
L'esistenza cristiana è posta sotto la luce del dramma salvifico della Pasqua, che non elimina, in nome di una pietistica e consolatoria concezione dell'amore, il combattimento spirituale, ma anzi lo richiama. La pace portata da Cristo è anche divisione, nel cuore anzitutto - fra grazia e peccato, fra bene e male - come nei rapporti sociali, laddove la testimonianza si configura come lotta all'idolatria, alla menzogna, all'ingiustizia, come i santi abbondantemente ci mostrano: costi quel che costi. Testimoniare la verità è lottare contro la menzogna; promuovere la vita è lottare contro la morte; testimoniare la giustizia è lottare contro l'ingiustizia; vivere per essere liberi è lottare contro le mille forme di schiavitù idolatriche che seducono il nostro cuore; testimoniare il perdono è lottare contro la vendetta e l'odio. La testimonianza cristiana ci chiede insomma anche di andare contro corrente.
Per noi cristiani non si può invocare e gridare la pace e poi accettare le ingiustizie ( e non solo quelle del Terzo Mondo, ma anche quelle di casa nostra), essere contro la vita concepita, contro la famiglia fondata sul matrimonio, contro la libertà educativa dei genitori. Non si può invocare la pace e poi intraprendere un'azione di sistematica delegittimazione di chi la pensa diversamente. Non si può invocare la pace e scegliere il relativismo etico, ossia l'indifferenza fra bene e male, che è alla radice di ogni forma di violenza, anche la più subdola.
E' stato scritto che "i fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti di fango": è la lacerazione profonda, è il paradosso della nostra esistenza che solo Cristo riesce a guarire e a comporre. Non si può non fare i conti con questa lacerazione fondamentale, che è alla radice dell'immoralità del vivere, degli egoismi personali e di gruppo, della corruzione politica, dei tradimenti e delle infedeltà a livello familiare e interpersonale, della insensibilità di fronte ai milioni di esseri umani che vengono impediti di nascere e in favore dei quali non si fa più alcuna marcia e non si movimenta più alcuna piazza. Le guerre sono il segno macroscopico del male che ci portiamo dentro: diventa ipocrita la demonizzazione della guerra se non è accompagnata da un protesta interiore contro qualunque forma di male che sta accovacciata nella nostra vita. Il meccanismo del capro espiatorio o della delega è, anche sul piano psicologico, una regressione al caos delle origini, una fuga dalle proprie responsabilità. Senza il realismo del peccato personale, che viene redento da Cristo e fa appello alla conversione della vita, si entra nella secolarizzazione del senso di colpa, consegnato di volta in volta allo stato, al partito, alla piazza, perché si trovi il colpevole e su di lui ricada la colpa di tutti: poco importa che il colpevole sia identificato ora in Hitler, ora in Stalin, ora negli USA, ora nei governanti di turno…


Altri temi sono da trattare, fra cui il rapporto fra diritto internazionale e diritto dei singoli Stati; o il problema dell'azione militare come estremo rimedio per la legittima difesa; o il problema del terrorismo, definito da Giovanni Paolo II "un vero crimine contro l'umanità" (Messaggio per la Pace del 2002): problema che impone nuove riflessioni sul tema dei mezzi adatti per farvi fronte; o le missioni di pace, richieste per particolari situazioni; o il diritto di intervento umanitario per impedire la vittoria della violenza e della guerra civile; o la sicurezza dei cittadini, che richiede anche il ricorso alle forze dell'ordine.
Sulla legittima difesa conosciamo la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica: "si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare" (n. 2309). Le condizioni sono: che il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave e certo; che tutte le altre strade si siano rivelate impraticabili; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi danni più gravi, tenuto conto oggi anche del peso dei moderni mezzi di distruzione. La valutazione di tali criteri spetta a coloro che hanno la responsabilità del bene comune. Anche l'azione difensiva, comunque, va vista nell'ottica della pace come risposta, anche faticosa e rischiosa (non solo per chi è portatore di aggressione, ma anche per chi la subisce) al dilagare della violenza.
Giovanni Paolo II ha coniato l'espressione "ingerenza umanitaria" nel Messaggio per la pace del 2000:
"Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi" (n. 11).

La deplorazione della guerra è andata, per fortuna, crescendo nel nostro tempo, contro la retorica bellicista che ha accompagnato la storia dell'umanità. Ogni evento bellico è sempre un annebbiamento del Vangelo e una sconfitta per l'uomo. Da cristiani, siamo chiamati a dare il nostro originale, insostituibile e prezioso contributo affinché il bene della pace sia salvaguardato, custodito e promosso a tutti i livelli. La pace universale comincia dal nostro cuore e dal serio impegno di ciascuno di noi nelle nostre concrete comunità ecclesiali e civili a favore dei diritti fondamentali della persona.

Don Alberto Franzini

Casalmaggiore, 22 marzo 2003