Il mio compito non è tanto quello di entrare nel merito di un giudizio
su questa guerra - comunque, per non sottrarmi, dirò subito che l'ho
ritenuta sbagliata e non comprensibile da diversi punti di vista, e prima
ancora che il Papa si sia chiaramente espresso - quanto piuttosto di declinare
una riflessione più ampia sul tema della pace, così come è
stata espressa dall'insegnamento della Chiesa in questi ultimi decenni, a
partire dalla Pacem in terris (PT), di cui ricorre quest'anno il 40.mo anniversario,
e soprattutto nei Messaggi che dal 1968 i due Papi, Paolo VI e Giovanni Paolo
II, hanno scritto in occasione della Giornata Mondiale della Pace. Il no alla
guerra, infatti, non può essere ridotto ad uno slogan gridato. I papi
più recenti non si sono infatti limitati a gridare un chiaro no alla
guerra (da Benedetto XV: "inutile strage", a Pio XII: "Niente
è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra",
a Paolo VI nel suo celebre discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965:
"Jamais plus la guerre!; ai numerosi interventi di Giovanni Paolo II,
fra cui quello del 1991;"la guerra è un'avventura senza ritorno";
e l'ultimo del 23 febbraio scorso: "Mai potremo essere felici gli uni
contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato
dal terrorismo e dalla logica della guerra"), ma hanno sempre accompagnato
il no alla guerra con un sì alla promozione dei diritti fondamentali
dell'uomo.
Il sì alla pace a ben poco servirebbe, se non si accompagnasse ad un
si a tutte quelle condizioni che ne permettono una trascrizione storica, ossia
che la rendono fattiva e duratura, per quanto è possibile nelle cose
di questo mondo; e se non si accompagnasse ad un no a tutto ciò che
nega o incrina la pace.
Vorrei partire da due citazioni, per avviare qualche riflessione ordinata.
- "La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi,
può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine
stabilito da Dio". Così l'incipit di quella grande enciclica che
è la Pacem in terris, di Giovanni XXIII. Si tratta della "pace
in terra", che non è ancora lo shalom biblico, ossia quella pace
messianica che ci verrà donata pienamente alla fine dei tempi insieme
al Regno di Dio. C'è un rapporto fra questi due momenti, ma nessun
progetto politico e sociale può dirsi definitivo, fin che dura la condizione
pellegrinante dell'uomo.
La seconda è di Giovanni Paolo II ed è tolta dall'Angelus del
23 febbraio scorso. Dopo aver affermato con forza che "è doveroso
per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo
essere felici gli uni contro gli altri, mai il futuro dell'umanità
potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra",
il Papa si rivolge direttamente ai cristiani per una consegna: "Noi cristiani,
in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace,
nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di
vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo,
della menzogna e della violenza".
Queste due citazioni ci offrono subito un orizzonte autentico e vasto per
collocare un discorso cristiano sulla pace: un orizzonte oggettivo (l'ordine
stabilito da Dio) e un orizzonte soggettivo, al quale nessuno di noi può
sfuggire (il rimando decisivo alla coscienza).
1. Un orizzonte oggettivo
Che cos'è? E' l'ordine stabilito da Dio. E' ciò che Dio vuole.
E' il suo disegno sul mondo. E qui viene in aiuto tutto l'insegnamento della
PT. C'è un ordine voluto da Dio, c'è un progetto divino che
si rivela nel mondo attraverso l'uomo. Rileggendo la PT, ci accorge che questo
documento, prima che essere un inno alla pace, è un inno alla persona
umana, ai suoi diritti e ai suoi doveri. "La dignità della persona
è il fondamento della pace": è l'affermazione più
ricorrente nella PT. L'enciclica è tutto l'opposto di un vago appello,
di una pia predicazione ,di una sentimentale esortazione alla pace. Essa coglie
invece la radice della questione, quando mette al centro di ogni discorso
sulla pace il rispetto della dignità della persona umana. Una dignità
non semplicemente proclamata, ma declinata secondo i celebri quattro pilastri,
che formano l'ossatura costante del documento: ossia i valori della verità,
della giustizia, della solidarietà e della libertà, valori che
la PT ritiene indispensabili a livello personale, comunitario, nelle relazioni
tra popoli e nazioni, a livello internazionale.
E' a partire da questi pilastri - indivisibili - che si sono via via sviluppate
riflessioni sempre più articolate da parte dei papi sul perseguimento
della pace, possibile solo se legato alla tutela e alla promozione dei diritti
fondamentali della persona umana e dei corrispondenti doveri. Su questo punto
l'insegnamento della Chiesa si è andato precisando e sviluppando, anche
grazie all'incalzare di problemi e situazioni sempre nuove.
Quali sono i cardini di tale riflessione?
a. Questi diritti fondamentali simul stabunti simul cadunt, ossia stanno
insieme o cadono insieme. Lo ha ripetuto con forza Giovanni Paolo II nel Messaggio
per la Pace del 1999:
"Nessun diritto umano è sicuro, se non ci si impegna a tutelarli
tutti. Quando si accetta senza reagire la violazione di uno qualsiasi dei
diritti fondamentali, si pongono a rischio tutti gli altri. E' indispensabile
pertanto un approccio globale al tema dei diritti umani e un serio impegno
a loro difesa" (n. 12).
b. Fra questi diritti fondamentali, i due ultimi Papi hanno fortemente sottolineato - in aperta e dichiarata connessione al tema della pace - almeno tre piste: la giustizia sociale, la difesa della vita umana, la ricerca della verità.
La prima pista è esposta in innumerevoli documenti, i quali tutti
dicono una cosa per sé ovvia: la pace è minacciata quando permangono
situazioni di ingiustizia, di sperequazione, di violenza, di terrorismo e
di guerra. Ad es. scrive Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace del 1993:
"Si afferma e diventa sempre più grave nel mondo un'altra seria
minaccia per la pace: molte persone, anzi intere popolazioni vivono oggi in
condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri
s'è fatta più evidente anche nelle nazioni economicamente più
sviluppate. Si tratta di un problema che si impone alla coscienza dell'umanità,
giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali
da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente,
l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale" (n.
1)
Questa connessione è fortemente avvertita e compresa ed ha il consenso
pressoché unanime della pubblica opinione e della cultura di massa.
L'altra pista - ossia la connessione fra pace e difesa della vita - non ha
le stesse simpatie, anzi sembra quasi rimossa e occultata non solo nel mondo
laicista, ma perfino in qualche frangia del mondo cattolico, che mostra di
essere infastidita da tale connessione e, pur affermando la negatività
dell'aborto, non sempre lo mette in relazione alla tematica della pace. Eppure
tale correlazione è fortemente sottolineata nell'insegnamento del magistero
della Chiesa, e non solo - come spesso capita di sentire in cattolici non
bene informati - nel magistero di questo papa, ma anche in quello dei predecessori.
Ad es. Paolo VI, nel Messaggio per la pace del 1977:
"Non è solo la guerra che uccide la Pace. Ogni delitto contro
la Vita è un attentato contro la Pace, specialmente se esso intacca
il costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora legale
facilità la soppressione della Vita nascente, con l'aborto. [
]
La soppressione di una Vita nascitura, o già venuta alla luce, viola
innanzi tutto il principio morale sacrosanto, a cui sempre la concezione dell'umana
esistenza deve riferirsi: la Vita umana è sacra fin dal primo momento
del suo concepimento e fino all'ultimo istante della sua sopravvivenza naturale
nel tempo. E' sacra: che vuol dire? Vuol dire che essa è sottratta
a qualsiasi arbitrario potere soppressivo; è intangibile, è
degna di ogni rispetto, d'ogni cura, d'ogni doveroso sacrificio.[
] Se
vogliamo che l'ordine sociale progrediente si regga sopra i principii intangibili,
non offendiamolo nel cuore del suo essenziale sistema: il rispetto alla vita
umana. Anche sotto questo aspetto Pace e Vita sono solidali alla base dell'ordine
e della civiltà".
Giovanni Paolo II ha innumerevoli passi su questo tema. Mi ha sempre colpito
un suo intervento all'Angelus del 5 aprile 1981, per la qualità profetica
di quelle sue lontane dichiarazioni:
"Se si concede diritto di cittadinanza all'uccisione dell'uomo, quando
è ancora nel seno della madre, allora ci si immette per ciò
stesso sulla china di incalcolabili conseguenze di natura morale. Se è
lecito togliere la vita ad un essere umano, quando esso è più
debole, totalmente dipendente dalla madre, dai genitori, dall'ambito delle
coscienze umane, allora si uccide non soltanto un uomo innocente, ma anche
le stesse coscienze. [
] Se accettassimo il diritto di togliere il dono
della vita all'uomo non ancora nato, riusciremmo poi a difendere il diritto
dell'uomo alla vita in ogni altra situazione? Riusciremmo a fermare il processo
di distruzione delle coscienze umane?".
Lo stesso card. Tettamanzi, sempre domenica scorsa nel Convegno diocesano
a Milano, disse: "Essere sentinelle della pace significa dire no ad ogni
attentato all'incomparabile dignità di ogni essere umano, a cominciare
dal fondamentale diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale".
E tutti ci ricordiamo di madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace,
che in diversi Parlamenti e assemblee ricordava lo stesso concetto: "l'aborto
è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo". Sta anche
qui la debolezza di certo pacifismo del nostro occidente: il grido contro
la guerra diventa fioco, ed è facilmente catturabile da strumentalizzazioni
politiche, se non è portato coerentemente contro tutto ciò che
attenta alla vita dell'uomo.
La terza pista è quella della ricerca della verità. E' la verità
"la forza pacifica e possente della pace, poiché si comunica per
irraggiamento suo proprio, al di fuori di ogni costrizione" (Giovanni
Paolo II, Messaggio per la pace 1980). Anche questo tema - il rapporto fra
pace e verità, già enunciato nella Pacem in terris - non ha
molta fortuna nella considerazione della cultura dominante, oggi fortemente
influenzata dal c.d. pensiero debole, che taccia perfino di fondamentalismo,
di intolleranza e di attentato alla democrazia chi si sente portatore di una
identità veritativa. Come se un'autentica vita democratica potesse
fondarsi e svilupparsi solo su una visione scettica dell'esistenza, o peggio
ancora sulla menzogna, tipica dei regimi totalitari. C'è una limpida
e forte espressione di Giovanni Paolo II, che si trova nella Centesimus Annus
(1991) ed è stata ripetuta anche nella visita al Parlamento italiano
il 14 novembre scorso, circa il rischio di una alleanza fra democrazia e relativismo
etico: "Se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta
l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente
strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte
facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia"
(n. 46). Questo non significa cadere nel fondamentalismo, perché la
verità, essendo basata sulla dignità trascendente della persona
umana, ha come suo metodo il rispetto della libertà.
Quello della verità è un compito e un orizzonte quanto mai attuali
nella nostra società, soprattutto per quanto attiene ad es. l'istruzione
scolastica e l'educazione che ai giovani viene data nei nostri oratori e nelle
nostre parrocchie. Senza una preoccupazione orientata in senso veritativo,
le persone - diventando massa da manipolare - sono facile preda dell'egemonia
culturale di moda. L'opinione pubblica manipolata crea a sua volta movimenti
che rischiano di rimanere effimeri, perché privano le persone della
capacità di pensare con la propria testa: sola la verità è
liberante. E solo la verità può essere la forza della pace.
Giovanni Paolo II dedica tutto il messaggio della pace del 1980 a questo tema.
Sostanzialmente afferma che le non-verità e le menzogne sono alla base
della violenza e dunque costituiscono una minaccia alla pace. Scrive ad es.:
"La violenza si radica nella menzogna e ha bisogno della menzogna, nel
tentativo di assicurasi una rispettabilità dinanzi all'opinione mondiale
mediante giustificazioni del tutto estranee alla sua natura e, del resto,
spesso tra loro contraddittorie. Che dire della pratica di imporre a coloro
che non condividono le proprie posizioni - per meglio combatterli o ridurli
al silenzio - l'etichetta di nemici, attribuendo loro intenzioni ostili, stigmatizzandoli
come aggressori mediante una propaganda abile e costante? [
] Accuse
selettive, insinuazioni perfide, manipolazione delle informazioni, discredito
gettato sistematicamente contro l'avversario - contro la sua persona, le sue
intenzioni, i suoi atti -, ricatto e intimidazione: ecco il disprezzo della
verità, messo in atto per creare un clima di incertezza, nel quale
si vogliono costringere le persone, i gruppi, i governi, le stesse istanze
internazionali a silenzi rassegnati e complici, a compromessi parziali, a
reazioni irrazionali: tutti atteggiamenti egualmente suscettibili di favorire
il gioco omicida della violenza e di contrastare la causa della pace"
(n. 1).
Quanto la comunità cristiana, e non solo, sia chiamata oggi a far fronte
a questo "disorientamento veritativo" (è anche esso una delle
povertà e delle insipienze dei nostri giorni), è sotto gli occhi
di tutti. Le nostre stesse parrocchie, che rischiano di diventare sempre più
dei centri di servizi ricreativi e sociali, oltre che di servizi religiosi,
a fatica oggi riescono ad esprimere una posizione cristiana dotata di dignità
culturale e quindi delle personalità cristiane in grado di dialogare
con qualunque posizione culturale e religiosa senza accomodamenti o riduzionismi.
In questa ottica risulta già chiaro il significato della posizione della Chiesa, che - come ha ribadito mons. Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, domenica scorsa (16 marzo) a Milano, in occasione del Convegno diocesano "Pacem in terris" - "non è pacifista, ma pacificatrice. E' questo il senso e il valore delle parole che Giovanni Paolo II ha pronunciato in questo frangente storico, parole che si elevano ben al di sopra degli slogan di un certo pacifismo o a quelli del movimento contrario, entrambi seriamente a rischio di una deriva ideologica e di unilateralismi".
2. Un orizzonte soggettivo
E' altrettanto fondamentale, perché fa appello alla coscienza, dunque
alla responsabilità dell'uomo, di ogni uomo, perché si impegni
al discernimento per operare decisioni giuste e sagge. Ricorda che la radice
del male sta nel cuore di ogni persona. Solo affrontando anche la realtà
del male radicale che sta accovacciato presso il portale della nostra esistenza
come belva pronta a dilaniare, comprendiamo tutto l'impegno la fatica della
pace. Per il cristiano, la pace è essenzialmente dono di Dio, da accogliere
e da trascrivere nell'esperienza della vita. E' la pace a caro prezzo, per
la quale è morto lo stesso Gesù. Per questo Paolo VI, proprio
nel I Messaggio per la Giornata della Pace del 1968, scrisse: "Sarà
da auspicare che la esaltazione dell'ideale della pace non debba favorire
l'ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio
Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa della
giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga delle responsabilità,
dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose.
Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della
vita, ma proclama i più alti ed universali valori della vita: la verità,
la giustizia, la libertà e l'amore".
E qui si apre tutto il discorso educativo, che è profetico e realistico
insieme, perché il profetismo cristiano circa la pace non lo si può
staccare dall'incarnazione, ossia dal principio di realtà, ma lo assume
in pieno con la forza del Vangelo.
Educare alla pace é educare alla vita, è educare al principio
di realtà, è educare al senso delle cose e degli avvenimenti,
è educare alla testimonianza cristiana, è educare all'umano,
a tutto l'umano, senza strabismi, senza indebite selezioni, senza sbilanciamenti
che provocherebbero danni immensi nella costruzione di una personalità
cristiana. Per questa educazione integrale bisogna partire da una concezione
alta della persona umana: oserei dire da una concezione, prima ancora che
etica, metafisica della persona umana.
Il tema della pace non va dunque isolato da una concezione globale della vita,
quale è offerta dal Vangelo di Cristo, da tutta la ininterrotta testimonianza
dei santi, della predicazione del magistero della Chiesa, degli scritti dei
dottori e dei teologi e dell'apporto della riflessione filosofica. Scriveva
Paolo VI nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"Dobbiamo oggi difendere la Pace sotto il suo aspetto, potremmo dire
metafisico, anteriore e superiore a quello storico e contingente della pausa
militare e della esteriore tranquillitas ordinis; vogliamo considerare la
causa della Pace rispecchiata in quella della vita umana stessa. Il nostro
"sì" alla Pace si allarga ad un "sì" alla
vita. La Pace deve affermarsi non soltanto sui campi di battaglia, ma dovunque
si svolge l'esistenza dell'uomo. Vi è, anzi vi deve essere anche una
Pace che tutela questa esistenza non solo dalle minacce delle armi belliche,
ma una Pace altresì che protegge la vita in quanto tale, contro ogni
pericolo, ogni malanno, ogni insidia".
Sul piano educativo è fondamentale ribadire che l'esperienza cristiana
non è mai utopia, ma speranza. Utopia è, etimologicamente, il
"non luogo", ossia è ciò che non solo non esiste di
fatto, ma non può esistere nemmeno di diritto. L'utopia - presa in
questo senso e non semplicemente presa nel fascino linguistico che il termine
può assumere quando fosse utilizzato come principio critico della situazione
esistente - è un'astrazione. E l'astrazione è lontana mille
miglia dall'esperienza cristiana, che invece è contrassegnata dalla
virtù della speranza: una speranza fondata su un avvenimento realmente
accaduto, quello del Verbo che si è fatto carne. Nella storia umana
agisce, come germe di salvezza, la forza redentrice di Cristo risorto, che
non elimina dolore, sofferenza e morte dalla nostra condizione umana (non
siamo ancora nell'Eden), ma conferisce al buio e alle tribolazioni della vita
un senso salvifico insperato e trascendente. Questo fa la differenza fra utopia
e speranza, fra una concezione che idealizza la realtà e il cristianesimo
che incarna un ideale. Mi sembra un dato che derivi dalla stessa incarnazione
del Verbo che nella storia ci sia il male e dunque ci siano anche le violenze
e le guerre. Ma proprio per questo c'è bisogno di un Salvatore e di
una Salvezza che non siano generati da questo mondo. Il processo educativo
non si può staccare dal principio di realtà, ma lo assume pienamente
con la forza del vangelo. E' quanto ha dichiarato Paolo VI nel Messaggio per
la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"La pace non è sogno puramente ideale, non è un'utopia
attraente, ma infeconda e irraggiungibile; è, e deve essere, una realtà;
una realtà mobile e da generare ad ogni stagione della civiltà
[
]. Come non è la Pace uno stato di atarassia pubblica, in cui
chi ne gode è dispensato da ogni cura e difeso da ogni disturbo, e
può concedersi una beatitudine stabile e tranquilla, che più
sa di inerzia e di edonismo, che non di vigore vigilante ed operoso".
L'esistenza cristiana è posta sotto la luce del dramma salvifico della
Pasqua, che non elimina, in nome di una pietistica e consolatoria concezione
dell'amore, il combattimento spirituale, ma anzi lo richiama. La pace portata
da Cristo è anche divisione, nel cuore anzitutto - fra grazia e peccato,
fra bene e male - come nei rapporti sociali, laddove la testimonianza si configura
come lotta all'idolatria, alla menzogna, all'ingiustizia, come i santi abbondantemente
ci mostrano: costi quel che costi. Testimoniare la verità è
lottare contro la menzogna; promuovere la vita è lottare contro la
morte; testimoniare la giustizia è lottare contro l'ingiustizia; vivere
per essere liberi è lottare contro le mille forme di schiavitù
idolatriche che seducono il nostro cuore; testimoniare il perdono è
lottare contro la vendetta e l'odio. La testimonianza cristiana ci chiede
insomma anche di andare contro corrente.
Per noi cristiani non si può invocare e gridare la pace e poi accettare
le ingiustizie ( e non solo quelle del Terzo Mondo, ma anche quelle di casa
nostra), essere contro la vita concepita, contro la famiglia fondata sul matrimonio,
contro la libertà educativa dei genitori. Non si può invocare
la pace e poi intraprendere un'azione di sistematica delegittimazione di chi
la pensa diversamente. Non si può invocare la pace e scegliere il relativismo
etico, ossia l'indifferenza fra bene e male, che è alla radice di ogni
forma di violenza, anche la più subdola.
E' stato scritto che "i fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti
di fango": è la lacerazione profonda, è il paradosso della
nostra esistenza che solo Cristo riesce a guarire e a comporre. Non si può
non fare i conti con questa lacerazione fondamentale, che è alla radice
dell'immoralità del vivere, degli egoismi personali e di gruppo, della
corruzione politica, dei tradimenti e delle infedeltà a livello familiare
e interpersonale, della insensibilità di fronte ai milioni di esseri
umani che vengono impediti di nascere e in favore dei quali non si fa più
alcuna marcia e non si movimenta più alcuna piazza. Le guerre sono
il segno macroscopico del male che ci portiamo dentro: diventa ipocrita la
demonizzazione della guerra se non è accompagnata da un protesta interiore
contro qualunque forma di male che sta accovacciata nella nostra vita. Il
meccanismo del capro espiatorio o della delega è, anche sul piano psicologico,
una regressione al caos delle origini, una fuga dalle proprie responsabilità.
Senza il realismo del peccato personale, che viene redento da Cristo e fa
appello alla conversione della vita, si entra nella secolarizzazione del senso
di colpa, consegnato di volta in volta allo stato, al partito, alla piazza,
perché si trovi il colpevole e su di lui ricada la colpa di tutti:
poco importa che il colpevole sia identificato ora in Hitler, ora in Stalin,
ora negli USA, ora nei governanti di turno
Altri temi sono da trattare, fra cui il rapporto fra diritto internazionale
e diritto dei singoli Stati; o il problema dell'azione militare come estremo
rimedio per la legittima difesa; o il problema del terrorismo, definito da
Giovanni Paolo II "un vero crimine contro l'umanità" (Messaggio
per la Pace del 2002): problema che impone nuove riflessioni sul tema dei
mezzi adatti per farvi fronte; o le missioni di pace, richieste per particolari
situazioni; o il diritto di intervento umanitario per impedire la vittoria
della violenza e della guerra civile; o la sicurezza dei cittadini, che richiede
anche il ricorso alle forze dell'ordine.
Sulla legittima difesa conosciamo la posizione del Catechismo della Chiesa
cattolica: "si devono considerare con rigore le strette condizioni che
giustificano una legittima difesa con la forza militare" (n. 2309). Le
condizioni sono: che il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave
e certo; che tutte le altre strade si siano rivelate impraticabili; che ci
siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi
danni più gravi, tenuto conto oggi anche del peso dei moderni mezzi
di distruzione. La valutazione di tali criteri spetta a coloro che hanno la
responsabilità del bene comune. Anche l'azione difensiva, comunque,
va vista nell'ottica della pace come risposta, anche faticosa e rischiosa
(non solo per chi è portatore di aggressione, ma anche per chi la subisce)
al dilagare della violenza.
Giovanni Paolo II ha coniato l'espressione "ingerenza umanitaria"
nel Messaggio per la pace del 2000:
"Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di
un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli
strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi
con iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Queste tuttavia devono
essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno
rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta
a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle
armi" (n. 11).
La deplorazione della guerra è andata, per fortuna, crescendo nel
nostro tempo, contro la retorica bellicista che ha accompagnato la storia
dell'umanità. Ogni evento bellico è sempre un annebbiamento
del Vangelo e una sconfitta per l'uomo. Da cristiani, siamo chiamati a dare
il nostro originale, insostituibile e prezioso contributo affinché
il bene della pace sia salvaguardato, custodito e promosso a tutti i livelli.
La pace universale comincia dal nostro cuore e dal serio impegno di ciascuno
di noi nelle nostre concrete comunità ecclesiali e civili a favore
dei diritti fondamentali della persona.
Don Alberto Franzini
Casalmaggiore, 22 marzo 2003