Domenica 16 marzo 2003 si è svolto presso il Palalido di Milano il convegno diocesano "Pacem in terris. La posizione della chiesa sulla pace. Dopo la relazione di Sua Ecc.za Mons. Renato Martino, Presidente dl Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace sono stati posti alcuni interrogativi al relatore a cura delle aggregazioni laicali cattoliche presenti in diocesi. Infine le conclusioni dell'Arcivescovo di Milano Cardinale Dionigi Tettamanzi.
Sono disponibili:
Intervento di Sua Ecc.za Mons. Renato Martino, Presidente
del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Intervento dell'Arcivescovo di Milano Cardinale Dionigi Tettamanzi.
Messaggio del cardinale a tutte le parrocchie della
Diocesi a seguito del convegno
1. Siamo alle conclusioni: conclusioni che in realtà sono un appello
a ricominciare un cammino di pace. È un cammino già certamente
in atto nelle nostre comunità cristiane, ma che esige di essere reso
più ampio e capillare, più condiviso e deciso.
Questo cammino può essere rilanciato oggi nella nostra Chiesa ambrosiana
da alcune parole, semplici e significative.
I - La parola della gratitudine
2. La prima parola è quella della gratitudine.
La rivolgiamo, anzitutto, a Dio. Sì, è lui, il Signore, che ha
ispirato e guidato questo nostro Convegno!
La rivolgiamo poi a Sua Eccellenza l'arcivescovo Renato Martino, perché
ci ha aiutato a comprendere - alla luce dell'enciclica Pacem in terris - la
posizione della Chiesa sulla pace. Lo ringraziamo per la ricca e articolata
relazione che ci ha regalato e per averci permesso di cogliere da vicino - anche
attraverso le riposte alle nostre domande - ciò che pulsa nel cuore della
Chiesa ogni volta che essa parla di pace e opera per la pace.
La parola della gratitudine è per tutti e per ciascuno di voi, che siete
venuti a questo Convegno e che ora ritornate alle vostre comunità e realtà
ecclesiali per essere, ancora più responsabilmente, araldi e testimoni
operosi del "Vangelo della pace" e intelligenti protagonisti di una
continua educazione personale e comunitaria alla pace.
3. In modo del tutto particolare, il nostro grazie è per il papa Giovanni
Paolo II. Lo ringraziamo per la costanza, la creatività e la tenacia
con cui - lungo tutto il suo pontificato e, soprattutto, nei momenti di più
forte apprensione come gli attuali - ha fatto sentire la sua voce, innalzato
la sua preghiera, messo in atto iniziative concrete e coraggiose a favore della
pace. Se oggi siamo qui lo dobbiamo al suo invito di fare del quarantesimo anniversario
della Pacem in terris "un'occasione quanto mai opportuna per fare tesoro
dell'insegnamento profetico di Papa Giovanni XXIII", come ha scritto nel
suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno (n. 10).
In realtà, è tutto qui il senso del nostro Convegno, che abbiamo
voluto per essere aiutati "a conoscere, in modo corretto e senza smagliature
o unilateralismi, la posizione della Chiesa sulla pace" e, dunque, come
"un momento serio di riflessione e di conoscenza della dottrina della Chiesa
e delle sue concrete implicazioni" (Messaggio alla Diocesi, 11 febbraio
2003).
II - La parola della responsabilità
4. Dopo la gratitudine, la seconda parola è quella della responsabilità,
ossia dell'invito rinnovato e fortificato ad assumere i nostri compiti personali
e comunitari, nella Chiesa e nella società.
Ed è ancora il Papa a rivolgerci in modo sintetico, semplice, stimolante
ed entusiasmante la parola della responsabilità. È una parola
che ha rivolto al mondo intero lo scorso 23 febbraio, prima dell'Angelus domenicale.
Dopo aver richiamato l'attenzione di tutti sul periodo di "grande apprensione"
che stiamo vivendo "per il pericolo di una guerra, che potrebbe turbare
l'intera regione del Medio Oriente e aggravare le tensioni purtroppo già
presenti in quest'inizio del terzo millennio"; dopo aver affermato con
forza che "è doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano,
proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro
dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica
della guerra"; e prima di indire per il 5 marzo una giornata di preghiera
e di digiuno per la causa della pace, il Papa ha così dichiarato: "Noi
cristiani, in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della
pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè,
di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo,
della menzogna e della violenza" (n. 1).
5. "Sentinelle della pace"! Sì, carissimi, è questo
il "distintivo" che ci deve caratterizzare; è questo l'impegno
che ci è chiesto di assumere; è questa la responsabilità
che ci viene affidata e di cui dobbiamo rendere conto; è questo il contributo
che ciascuno di noi può offrire alla causa della pace, animato dalla
speranza che la pace dipende anche da noi, da ciascuno di noi, e non solo dai
responsabili dei popoli e delle nazioni.
Siamo, dunque, tutti chiamati ad essere "sentinelle della pace". Come
tale, la sentinella rimane sempre desta, vigile, attenta a scrutare l'orizzonte
e a cogliere immediatamente ogni segnale per mettere in guardia di fronte ai
pericoli e per prendere, in tempo reale, le decisioni necessarie. In ordine
alla salvaguardia del grande bene della pace, il suo compito - come dice il
Papa - consiste appunto nel "vigilare, affinché le coscienze non
cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza".
Un rinnovato decisivo rimando alla coscienza
6. Siamo così rimandati, ancora una volta, alla grande realtà
della coscienza. Sì, la parola della responsabilità passa attraverso
la coscienza, non può passare che attraverso la coscienza! E per la verità
non c'è un rimando superiore a quello della coscienza, perché
è quanto di più decisivo e di più fondamentale possa esistere.
Con tale rimando raggiungiamo il cuore di ogni persona, ciò che essa
ha di più sacro e che, nello stesso tempo, determina ogni sua scelta
e ogni sua azione e, in tal modo, concorre a configurare nella concretezza la
convivenza sociale. Quest'ultima, infatti, quand'anche fosse pesantemente condizionata
da alcune strutture e situazioni, non è mai il frutto di determinismi
intoccabili, ma dipende sempre, e in larga parte, dalla libertà delle
persone che quelle stesse strutture e condizioni hanno contribuito a realizzare.
Sento di dover insistere, come ho già fatto in diverse occasioni in questi
mesi, sulla coscienza. Questa è una realtà "universale",
che riguarda tutti e tutti interpella. Nello stesso tempo, è una realtà
"personale", personalissima, perché chiama in causa ciascuno
singolarmente e nella sua unicità e irripetibilità. Essa è
pure, e inscindibilmente, una realtà "etica", in quanto attiene
ai valori e li indica; è anzi una realtà "religiosa",
perché ultimamente rimanda al disegno di Dio, da lui stesso iscritto
nella "natura" dell'uomo e nella realtà del mondo.
7. È molto interessante rilevare come a questa stessa realtà della
coscienza rimandi proprio l'enciclica Pacem in terris, fin dalle sue prime battute.
Secondo Giovanni XXIII, infatti, "la pace in terra, anelito profondo degli
esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo
nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio" (n. 1). Ora di questo
"ordine stabilito da Dio", ossia dell'ordine morale, ogni uomo è
capace di trovare le tracce dentro di sé e, quindi, di riconoscerle e
di seguirle. In quanto tale - scrive ancora Papa Giovanni -, l'uomo porta scolpito
in sé, quale riflesso dell'infinita sapienza di Dio, un "ordine
che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire" (n. 3).
La conclusione si fa obbligatoria: l'ascolto della voce della coscienza è
la premessa e la garanzia per edificare una pace giusta e duratura, precisamente
perché la pace non può fondarsi che su quell'ordine voluto da
Dio che la coscienza stessa, appunto, sa riconoscere e proporre come "imperativo
categorico". Di conseguenza, se vogliamo essere autentiche "sentinelle
delle pace", dobbiamo ascoltare e seguire la voce della coscienza. Ciò
può e deve avvenire secondo i due compiti, peraltro indisgiungibili,
della coscienza: quello del discernimento e quello della decisione operosa.
Una coscienza chiamata a discernere
8. Primo irrinunciabile compito della coscienza è quello del discernimento:
essa è chiamata a riconoscere, secondo verità, i valori e le esigenze
che sono iscritti in ogni persona umana, come pure nell'ordine sociale.
In questo senso, il giudizio di coscienza comporta di esprimere con estrema
chiarezza e decisione un "sì" convinto e pieno alla pace e
alle sue necessarie condizioni e, nello stesso tempo, un "no" altrettanto
consapevole e determinato a tutto ciò che può turbare o distruggere
la pace.
Ora il "sì" alla pace da parte di una coscienza rettamente
formata ed educata è, più precisamente, il "sì"
alla pace "vera". È la stessa coscienza a dirci che la pace
non è solo assenza di guerra; non è pacifismo; non è prepotenza
passata in giudicato e non è un ordine esteriore fondato sulla violenza
e sulla paura; non è neppure repressione e ignavia o equilibrio superficiale
tra interessi materiali ed economici divergenti
Essa è, piuttosto,
desiderio universale di tutti i popoli ed esigenza fondamentale radicata nel
cuore di ogni uomo; è proclamazione e realizzazione dei valori più
alti e universali della vita, quali la verità, la giustizia, l'amore
e la libertà; è dono di Dio, affidato come compito all'uomo; è
un ordine sociale fondato sulla giustizia, rispettoso dei diritti delle persone
e dei popoli, progressivamente teso all'instaurazione di un'autentica solidarietà
operante tra tutti.
9. Ma se vogliamo essere autentiche "sentinelle della pace", è
necessario che questo fondamentale "sì alla pace" si concretizzi
in un "sì alle condizioni della pace", che sono molteplici
e non possono essere disgiunte tra di loro. Da questo punto di vista, la voce
della coscienza ci ripete con insistenza che la realizzazione della pace comporta
di:
· rispettare la verità, che porta al riconoscimento, alla tutela
e alla promozione dell'innata e intangibile dignità di ogni persona;
· garantire la giustizia, che esige il rispetto dei diritti fondamentali
degli uomini e dei popoli, a partire da quelli più deboli e più
poveri, l'adoperarsi per sconfiggere la povertà, la realizzazione di
una globalizzazione senza emarginazioni;
· vivere l'amore, mediante la costruzione di un mondo più solidale,
che elimini le disparità e operi in concreto per ridistribuire equamente
non solo beni e risorse economiche, ma anche conoscenze e democrazia;
· assicurare la libertà, favorendo in tutti l'assunzione di responsabilità
e lo spirito di iniziativa, garantendo a ciascuno di non essere sottoposto a
costrizioni, coercizioni e ricatti, salvaguardando il rispetto e la promozione
della libertà religiosa;
· essere disponibili al perdono e alla riconciliazione;
· coltivare il dialogo, quale strumento e forza per affrontare e comporre
i conflitti;
· realizzare un disarmo comune e generale;
· sostenere gli organismi internazionali, a iniziare dall'Onu, rafforzandone
l'autorevolezza, la rappresentatività e la democraticità.
10. Sempre assolvendo al compito del discernimento che le è proprio,
ogni coscienza che obbedisce alla verità indica con certezza assoluta
il grave dovere morale di dire dei "no categorici" a tutto ciò
che nega la pace, o la incrina, o la rende impossibile. Essere "sentinelle
della pace" significa, dunque, dire:
· "no" ad ogni attentato all'incomparabile dignità di
ogni essere umano, a cominciare dal fondamentale diritto alla vita dal concepimento
alla morte naturale;
· "no" all'egoismo personale o di gruppo;
· "no" all'ingiustizia che non permette a ogni uomo e popolo
di avere parte di quei beni culturali, economici, sociali e politici che sono
destinati a tutti;
· "no" alla accumulazione di rancori, frustrazioni e disperazione
tra le persone e i popoli;
· "no" al terrorismo, che è segno di vigliaccheria e
costituisce sempre un autentico crimine contro l'umanità;
· "no" ai regimi e alle dittature, di qualunque colore essi
siano, che portano inevitabilmente alla sopraffazione e alla distruzione, anche
fisica, dell'uomo;
· "no" alla violenza, che è cosa ben diversa dal doveroso
legittimo uso della forza quando questa si presenta come l'unica strada realisticamente
possibile per neutralizzare l'ingiusto aggressore;
· "no" alla guerra, "se non come estrema possibilità"
per ristabilire il bene comune "e nel rispetto di ben rigorose condizioni",
tra cui non "vanno trascurate le conseguenze che [la guerra] comporta per
le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari" (Giovanni
Paolo ii, Al Corpo diplomatico, 13 gennaio 2003);
· "no" al drammatico ampliamento dei tradizionali limiti morali
e legali della causa giusta per includervi l'uso preventivo della forza militare
per abbattere regimi pericolosi o per affrontare il problema delle armi di distruzione
di massa.
Una coscienza da educare
11. Ancora circa il compito di discernimento proprio della coscienza occorre
rilevare con forza la necessità di una vera e propria "educazione
della coscienza". La coscienza, infatti, è sì qualcosa di
innato e di naturale nell'uomo, ma è anche una realtà che può
ingannarsi e ingannare, se non è fatta oggetto di costante vigilanza
e di continua premura mediante una permanente conversione alla verità
e al bene.
Ecco perché a livello personale e comunitario diventa urgente conoscere
- studiandola e approfondendola nei suoi contenuti e nelle sue motivazioni -
la dottrina della Chiesa sulla pace e sulla guerra, così come essa è
presentata nel "Catechismo della Chiesa Cattolica" ed è contenuta
nei diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa, in particolare nei
Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace.
È quanto abbiamo voluto fare con questo Convegno ed è quanto deve
diventare parte integrante degli itinerari educativi, della catechesi e della
stessa predicazione nelle nostre parrocchie e nelle diverse aggregazioni ecclesiali.
12. Non solo. È pure urgente evitare ogni emotività e, peggio
ancora, ogni irrazionalità nell'affrontare i diversi problemi che, di
volta in volta, si presentano all'orizzonte della storia. È piuttosto
con la "freddezza" propria di chi vuole rigorosamente comprendere
e razionalmente giudicare che questi stessi problemi vanno affrontati ad ogni
livello, in ogni ambiente e in ogni pubblico confronto. Né ci può
influenzare il giudizio degli altri: occorre essere e rimanere sovranamente
liberi di fronte a chiunque, a qualunque posizione di parte, ad ogni alleanza
più o meno doverosa o presunta tale, a qualsiasi accusa di parteggiare
per l'una o per l'altra parte o di venire meno ad amicizie o ad appartenenze
culturali.
Sì, in questa linea, essere "sentinelle della pace" comporta
anche di non lasciarsi ingabbiare da discussioni culturali, più o meno
pretestuose, sulla fedeltà all'Occidente e sul rapporto tra quest'ultimo,
il cristianesimo e la Chiesa. Ciò che davvero deve essere determinante
è il riconoscimento e il rispetto della verità e l'ascolto della
voce di una coscienza che si è immunizzata da ogni forma di soggettivismo
individualista o di collateralismo culturale o politico.
13. Sempre in questa stessa direzione, c'è bisogno anche di non essere
passivamente acritici nei confronti dei mass media, ma di essere lucidamente
attenti a individuare ogni manipolazione o strumentalizzazione della verità,
che si può incontrare, per denunciarla e prenderne le distanze in modo
concreto, convinto e capace di argomentare le proprie posizioni. È questo
un compito che ci chiama direttamente in causa, come Chiesa e come cristiani
(cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2003,
n. 3).
Una coscienza che spinge ad agire
14. Insieme con quello del discernimento, c'è un altro compito che è
proprio della coscienza: è il compito di decidersi e di scegliere in
ordine all'agire concreto. La voce della coscienza, infatti, si presenta come
un "appello", un "imperativo", un "dettame" obbligante
che spinge ad agire, a compiere atti concreti coerenti con quanto indicato dalla
coscienza stessa.
Essere "sentinelle della pace" comporta, dunque, che non ci si limiti
a "parlare" di pace, ma che ci si impegni a "fare" opere
di pace. Il "sì" alla pace e il "no" a tutto ciò
che la inquina o la rende impossibile investe la vita concreta di tutti e di
ciascuno in ogni atteggiamento e in ogni comportamento. La pace non può
essere solo proclamata o gridata; la pace va fatta! Va fatta in casa, nella
scuola, sul lavoro, in ogni ambiente della vita sociale, a livello politico,
in ambito nazionale e in quello internazionale. Va fatta da tutti, nessuno escluso.
Essa è, certamente, opera e dovere dei responsabili delle sorti dei popoli
e della nazioni: in una convivenza democratica questi devono essere costantemente
sollecitati e spinti, con ogni legittima iniziativa anche di pressione da parte
dell'opinione pubblica, a volere davvero la pace e a cercare tutte le strade
possibili per risolvere i conflitti e per superare le ingiustizie con la "forza
della ragione" e non con le "ragioni della forza", ossia con
le armi.
15. Ma la pace è anche opera di ciascuno di noi! È dunque la coscienza
personale, personalissima di ciascuno di noi che ci deve "inquietare"
- sì, il termine è da prendersi con la massima serietà
- nella nostra insopprimibile individualità. Lo ricordava con toni appassionati
Paolo VI nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1974: "Il
destino della Pace dipende anche da ciascuno di noi. Perché ciascuno
di noi fa parte del corpo civile operante con sistema democratico
La Pace
è possibile, se ciascuno di noi la vuole; se ciascuno di noi ama la Pace,
educa e forma la propria mentalità alla Pace, difende la Pace, lavora
per la Pace. Ciascuno di noi deve ascoltare nella propria coscienza il doveroso
appello: La Pace dipende anche da te".
Essere "sentinelle della pace" significa, allora, farsi instancabili
"operatori di pace", essere generosi, costanti, audaci e fiduciosi
"seminatori di gesti quotidiani di pace". Nessuno dica: "Tocca
ai grandi della terra! Noi non possiamo fare niente! Il nostro apporto è
del tutto insignificante e ininfluente!". No, tocca anche a noi! La pace
dipende anche da ciascuno di noi, è anche opera nostra, perché
non c'è persona - piccola o grande, ricca o povera, semplice o dotta
- che non sia in grado di porre nella storia, giorno dopo giorno, innumerevoli
"gesti di pace" fatti di sincerità, di attenzione, di accoglienza,
di amicizia, di cura, di impegno, di generosità, di stima per l'altro,
di apertura, di sopportazione, di perdono, di amore (cfr. Colossesi 3,12-15).
La forza "politico-giuridica" del dialogo e del perdono
16. La pace va, dunque, costruita concretamente. Per fare ciò vanno messe
in atto adeguate opere di pace, anche a livello sociale, istituzionale, dentro
i singoli Stati e a livello internazionale. Sì, pure a questo livello
è coinvolta la nostra responsabilità, certamente una responsabilità
differenziata, in rapporto cioè alle varie possibilità e ai diversi
compiti che abbiamo nell'ambito della vita sociale e politica.
Secondo quest'ultima direzione, mi limito a ricordare che su tutti noi grava
il compito di una "conversione" culturale e, dunque, di un nuovo modo
di considerare gli obiettivi, gli strumenti e i metodi dell'intervento sociale
e politico a favore della pace vera, giusta e duratura.
Gli obiettivi sono la realizzazione del "bene comune universale",
un'esigenza questa che appare particolarmente urgente e indilazionabile oggi,
in un contesto di crescente globalizzazione come è il nostro.
Gli strumenti per tale obiettivo sono una nuova organizzazione dell'intera famiglia
umana con una reale ed effettiva "autorità pubblica internazionale",
da intendere appunto come struttura democratica al servizio del bene comune
universale.
17. I metodi poi sono quelli che puntano sul dialogo e che sono capaci di coniugare
tra di loro giustizia e perdono. È quest'ultimo un punto culturale, e
insieme spirituale, di grande valore. Non si deve, infatti, credere che il dialogo
e il perdono siano atteggiamenti validi solo nei rapporti diretti e quotidiani
tra le singole persone, mentre a livello sociale, politico e internazionale
non hanno alcuna rilevanza, né possono averla di fatto. Occorre piuttosto
rimarcare che essi, oltre ad una indubbia valenza etica, ne hanno anche una
giuridica e politica. Dialogo e perdono, in altri termini, sono - e devono essere
sempre di più, anche mediante l'individuazione di corrispondenti dispositivi
istituzionali - strumenti da utilizzare per l'edificazione della pace nel mondo.
Il dialogo, in particolare, va inteso e messo in atto come ricerca di ciò
che è e resta comune agli uomini, anche in mezzo alle tensioni, alle
opposizioni e ai conflitti; come strumento per la realizzazione del bene con
mezzi pacifici; come volontà costante di ricorrere a tutte le possibili
formule di negoziati, di mediazioni, di arbitrato, per far sì che i fattori
di avvicinamento prevalgano sui fattori di divisione e di odio tra gli uomini,
i popoli, le nazioni, gli Stati.
Anche il perdono, poi, va visto come premessa indispensabile per camminare verso
una pace autentica e stabile. Come, infatti, ha sottolineato il Papa nel suo
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1997, senza un atteggiamento
di sincero perdono "le ferite continuano a sanguinare, alimentando nelle
generazioni che si succedono un astio interminabile, che è fonte di vendetta
e causa di sempre nuove rovine" (n. 1).
18. Mi piace confermare queste considerazioni sulla rilevanza del perdono anche
con la parola del carissimo cardinale Carlo Maria Martini. A lui che a Gerusalemme,
nella santa e martoriata terra di Gesù, continua la sua quotidiana preghiera
di intercessione, mandiamo da questo Convegno un caloroso e affettuoso saluto,
sentendoci uniti da una profonda comunione.
Egli, rompendo nei giorni scorsi il "silenzio sabbatico" tenuto in
questo periodo, così ha scritto su "L'Osservatore Romano" di
mercoledì 12 marzo: "La pace ha un costo
Ciò significa
che bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa
a cui si avrebbe pure diritto. Non basta dunque invocare la pace: bisogna essere
disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio per questo grande bene, e non
solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione".
E più avanti aggiungeva: "Sì, la pace non può che
essere frutto della giustizia, ma la pace di questo mondo non sarà soltanto
il risultato di una giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle
attuali aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia che
è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce di singoli
e di gruppi in vista di un bene comune più alto e condiviso. La pace
perciò alla fine è opera di una giustizia che partecipa della
giustizia divina, di una giustizia cioè che è anche perdonante,
misericordiosa, riabilitante, capace di dimenticare i torti subiti".
III - La parola del dono
19. Dopo aver parlato della coscienza come discernimento e decisione operosa,
non possiamo concludere senza un riferimento alla coscienza cristiana, illuminata
dalla fede e animata dalla carità. Due sono le parole che, a questo riguardo,
vorrei far risuonare. La prima è la parola del dono; la seconda è
quella della missione.
È, anzitutto, quella del dono la parola che anche adesso fa ascoltare
il suo messaggio in mezzo a noi. Sì, perché la pace non è
un puro risultato dell'ingegno umano, dello sforzo dei politici, dei trattati
internazionali e dell'impegno di tutti gli uomini di buona volontà. Tutte
queste opere umane sono necessarie, ma da sole non sono in grado di assicurare
una pace vera e duratura.
La pace è "dono di Dio"! È una realtà che discende
da Dio, creatore della pace. Essa si realizza in pienezza in Gesù e viene
comunicata agli uomini attraverso la sua croce e il suo sangue. Sì, la
pace trova in Gesù la sua origine, il suo fondamento, il suo contenuto:
Gesù stesso, infatti, è la nostra pace perché, con la sua
morte e risurrezione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, inchiodando
sul legno della croce il documento della nostra condanna che ci teneva lontani
da Dio (cfr. Colossesi 2,14) e abbattendo il muro di separazione e di inimicizia
che divideva tra loro gli uomini (cfr. Efesini 2,14-18).
20. Quanto è avvenuto una volta per sempre sulla croce, noi oggi lo ritroviamo
e lo incontriamo nella storia viva e quotidiana della Chiesa e, in particolare,
nell'Eucaristia, che è il sacrificio della nuova ed eterna alleanza,
il memoriale della Pasqua del Signore.
La Chiesa costituisce, quindi, sulla terra il luogo, il segno e la fonte della
pace tra i popoli e dell'unità di tutto il genere umano. Ed è
nell'Eucaristia che ogni cristiano trova la sorgente più vera della pace,
l'invito più forte ad essere operatore di pace, il luogo privilegiato
di invocazione della pace, la forza più autentica per operare nell'amore,
che della pace è uno dei pilastri fondamentali.
Essere "sentinelle della pace" significa allora attingere continuamente
dall'Eucaristia la grazia che ci rende persone veramente pacificate e capaci
di diffondere pace.
IV - La parola della missione
21. Inscindibilmente unita con la parola del dono c'è quella della missione.
Sì, perché la pace è un "dono affidato agli uomini".
Scesa come grazia e benedizione sulla comunità di coloro che hanno accolto
il messaggio della Pasqua del Signore, la pace si presenta come un "compito",
come un "imperativo etico" per la Chiesa e per i cristiani. Essa va
vissuta non solo dentro la Chiesa, ma anche come rapporto di amore con tutti.
Accolta come uno dei frutti della vita nuova prodotta dallo Spirito Santo, deve
accompagnarsi inseparabilmente con la giustizia, la verità, la libertà.
22. Questo compito va, dunque, realizzato secondo la triplice direzione che
caratterizza la missione della Chiesa.
Si tratta, allora, di "annunciare" il Vangelo della pace, di annunciarlo
in ogni occasione e in ogni modo, senza mai stancarsi di far risuonare il nome
della pace anche quando le speranze di vederla realizzata sembrano molto ridotte
o scomparse del tutto.
Lo stesso Vangelo della pace chiede di essere "celebrato", anzitutto
nel momento sorgivo e culminante dell'Eucaristia e poi, quasi come preparazione
e prolungamento della stessa Eucaristia, nella preghiera, umile, insistente
e fiduciosa. Sì, i cristiani non possono non credere nella "forza
debole e disarmata" della preghiera: essi si distinguono e si riconoscono
proprio perché sanno sempre aprire con fiducia le labbra e il cuore a
invocare un intervento dall'Alto, che solo può far sperare, contro ogni
speranza, in un futuro migliore e meno oscuro.
Siamo, infine, chiamati a "testimoniare" il Vangelo della pace, operando
assiduamente per un'edificazione della pace nella carità che perdona
e riconcilia e nella comunione vissuta nei rapporti interpersonali, in famiglia,
negli ambienti di vita e nella stessa comunità cristiana. A noi, come
Chiesa e come cristiani, è chiesto così di risplendere in mezzo
agli uomini come segno di unità e strumento della pace.
La novità evangelica anima della nostra speranza
23. Sì, possiamo e dobbiamo essere "sentinelle della pace"!
È un compito certamente impegnativo e non privo di tante difficoltà.
Abbiamo però una certezza che ci accompagna e ci sostiene: non siamo
soli! Non siamo soli, perché con noi c'è lo Spirito di Dio! Ed
è proprio lo Spirito Santo, artefice di comunione nell'amore, il vero
e principale protagonista dell'edificazione della pace. Donatoci dal Signore
Gesù, lo Spirito è sempre con noi, sa vincere ogni nostra resistenza
e sa renderci autentici operatori di pace.
Questa è la novità evangelica di cui siamo depositari. Di questa
novità dobbiamo essere gli araldi convinti e appassionati, in dialogo
sincero con tutti gli uomini di buona volontà, animati dalla certezza
che questa stessa novità evangelica non è mai "contro"
l'uomo, ma è sempre "per" il bene di ogni uomo e del mondo
intero. Non possiamo tenerla per noi questa novità, dobbiamo comunicarla
e proporla a tutti, perché tutti possano godere di quella pienezza della
pace che ci è data in dono.
24. Ed è questa stessa novità evangelica, con la forza che contiene
e sa sprigionare, ad animare la nostra speranza. Di questa speranza abbiamo
tutti bisogno; ne ha bisogno il mondo; ne hanno particolare bisogno tutti quegli
angoli della terra dove c'è ingiustizia e dove sempre più imminente
sembra lo scoppio della guerra.
Con la fiducia di chi ripone tutta la sua speranza nel Signore, ci auguriamo
che anche questo nostro Convegno - con le ricadute che senz'altro avrà
in ciascuno di noi, nelle nostre comunità cristiane e nei nostri ambienti
di vita - possa essere un "seme di pace" gettato nella nostra terra
perché possa portare "frutti di pace".
+ Dionigi Card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano
Messaggio del Cardinale Arcivescovo a tutte le parrocchie della Diocesi
a seguito del convegno "Pacem in Terris. La posizione della Chiesa sulla pace"
del 16 marzo scorso. Si invitano i delegati al convegno a leggere questo messaggio
durante le SS. Messe di domenica 23 marzo ed eventualmente a distribuirlo ai
fedeli.
Carissimi, come sapete, domenica scorsa abbiamo celebrato a Milano il Convegno
diocesano “Pacem in terris. La posizione della Chiesa sulla pace”. Il momento
che abbiamo vissuto ci impegna ora a continuare e a rilanciare un cammino di
pace. Sento per questo il bisogno di riproporre a tutti l’appello del Papa ad
essere «sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo», vigilando
«affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell’egoismo, della menzogna
e della violenza» (All’Angelus del 23 febbraio 2003). Per essere autentiche
“sentinelle della pace”, dobbiamo lasciarci guidare dalla voce della coscienza,
nel suo compito di discernimento e di decisione operosa. La voce della coscienza
ci chiede di “discernere”, ossia di riconoscere e giudicare, nella verità, i
valori e le esigenze delle persone e dell’ordine sociale. Esprimiamo, dunque,
un “sì” convinto alla pace e a tutto ciò che è necessario perché si realizzi
e, insieme, un “no” deciso a quanto la turba o la distrugge. Per non cadere,
però, in uno scorretto pacifismo, è necessario: educare la propria coscienza,
conoscendo e approfondendo la dottrina sociale della Chiesa sulla pace e sulla
guerra; evitare ogni reazione emotiva e irrazionale di fronte alle posizioni
che emergono su questi problemi; essere attenti e critici nei confronti delle
possibili manipolazioni della verità da parte dei mass media. La voce della
coscienza ci spinge anche ad “agire”. È necessario impegnarci a “fare” opere
di pace. Sì, la pace va fatta: in casa, nella scuola, sul lavoro, in ogni ambiente
della vita sociale, a livello politico, in ambito nazionale e internazionale.
Va fatta da tutti, nessuno escluso, perché la pace – oltre che dai responsabili
dei popoli e delle nazioni – dipende anche da ciascuno di noi! Seminiamo, dunque,
“gesti quotidiani di pace”, coltivando atteggiamenti di sincerità, di stima
e di accoglienza dell’altro, di pazienza e di generosità, di amore e di perdono.
Per essere “sentinelle della pace” come discepoli del Signore che testimoniano
la novità cristiana, ci è chiesto di lasciarci guidare da una coscienza illuminata
dalla fede e animata dalla carità. Riconosciamo, allora, che la pace è “dono”
di Dio, comunicata agli uomini mediante la Croce e il sangue di Gesù, “nostra
pace”. Questo stesso “dono” oggi lo ritroviamo e lo incontriamo nella Chiesa
e, in particolare, nell’Eucaristia. Continuiamo, dunque, ad attingere dalla
celebrazione eucaristica, soprattutto domenicale, la grazia che ci rende persone
pacificate e che sanno diffondere pace. La pace è sì dono di Dio, ma è un “dono
affidato agli uomini”. Viviamo, perciò, la “missione”, consegnata a tutti noi
cristiani, di annunciare, celebrare e testimoniare il “Vangelo della pace”:
annunciamolo, facendo risuonare sempre la parola della pace, anche quando sembra
venir meno la speranza di poterla realizzare; celebriamolo nell’Eucaristia e
mediante una preghiera umile, fiduciosa e insistente, che invoca dal Signore
il grande dono della pace; testimoniamolo, con una carità concreta e operosa,
sempre pronta a perdonare, riconciliare e far crescere la comunione nei rapporti
tra le persone, in famiglia, negli ambienti di vita e nella stessa comunità
cristiana. Carissimi, essere “sentinelle della pace” è un compito impegnativo
e, spesso, non privo di tante difficoltà. In questo compito, però, una certezza
ci accompagni e ci sostenga: non siamo soli! Con noi c’è lo Spirito di Dio!
È lui il vero e grande protagonista dell’edificazione della pace! Lasciamoci,
dunque, guidare e animare dallo Spirito di Gesù per essere autentici “operatori
di pace”. E se, nonostante tutto ciò, dovesse scoppiare la guerra? E se questa
guerra venisse dichiarata e condotta a dispetto del diritto internazionale e
di ogni principio morale? In questa ipotesi deprecabilissima – che speriamo
sempre non si verifichi –, che ne sarebbe delle indicazioni di questo messaggio?
Dovremmo forse perdere la fiducia e abbandonarci alla delusione perché tutti
i tentativi di scongiurare la guerra sono falliti e la nostra stessa preghiera
sembra non essere stata esaudita? No, carissimi! Anche in questa gravissima
e inaccettabile situazione, dovremmo continuare ad essere “sentinelle della
pace”! Proprio in tempo di guerra, infatti, la missione delle sentinelle si
fa più preziosa e necessaria. Da sentinelle vigili e accorte, dovremmo dunque:
condannare questa guerra e chiedere che finisca, utilizzando anche ogni mezzo
democratico per far sentire la nostra voce e incidere sull’opinione pubblica;
continuare a praticare il dialogo e il perdono, nella convinzione che essi hanno
un valore giuridico e politico anche nei rapporti tra gli Stati; non perdere
mai la fiducia nel Signore, ma rinnovarla ancora di più, intensificando l’impegno
della preghiera, della penitenza e della carità; convertire il nostro cuore
e intercedere perché si converta il cuore di quanti non hanno fatto abbastanza
per evitare la guerra e di quanti l’hanno caparbiamente voluta. Su ciascuno
di voi, sulle vostre famiglie e sulla vostra parrocchia, invoco di cuore la
grazia e la benedizione di Dio. Il Signore rivolga il suo volto su di voi e
vi doni la sua pace! La doni – la ridoni! –, in particolare, al Medio Oriente!
La doni ad ogni uomo! La doni al mondo intero!
Milano, 17 marzo 2003.
Il vostro
Arcivescovo + Dionigi card. Tettamanzi