"Pacem in terris": La posizione della Chiesa sulla pace
Milano, 16 marzo 2003

Domenica 16 marzo 2003 si è svolto presso il Palalido di Milano il convegno diocesano "Pacem in terris. La posizione della chiesa sulla pace. Dopo la relazione di Sua Ecc.za Mons. Renato Martino, Presidente dl Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace sono stati posti alcuni interrogativi al relatore a cura delle aggregazioni laicali cattoliche presenti in diocesi. Infine le conclusioni dell'Arcivescovo di Milano Cardinale Dionigi Tettamanzi.

Sono disponibili:

Intervento di Sua Ecc.za Mons. Renato Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace
Intervento dell'Arcivescovo di Milano Cardinale Dionigi Tettamanzi.
Messaggio del cardinale a tutte le parrocchie della Diocesi a seguito del convegno


PACEM IN TERRIS LA POSIZIONE DELLA CHIESA SULLA PACE

Milano, 16 marzo 2003

PREMESSA
Sarebbe certamente banale e riduttivo evocare l'enciclica "Pacem in terris", nel quarantesimo anniversario della sua promulgazione, solo per trovarvi un'analogia tra la drammaticità della situazione dei primi anni Sessanta e quella attuale. Si tratta di un'enciclica che certamente può fornire importanti indicazioni per un discernimento delle problematiche sociali, in particolare per valutare la qualità attuale delle relazioni tra i popoli, che il Santo Padre considera nello stesso "profondo stato di disordine"[1] in cui erano ai tempi del Suo Beato Predecessore, del quale egli vuole usare persino le stesse parole[2], ma il cui valore, ricchezza e profondità, immutati e riscontrabili ancora oggi, sono da cercare altrove.
Possiamo invitare alla lettura della PT proponendola con Mons. Franco Biffi come: "Una sinfonia della pace in quattro valori e quattro movimenti". È questa la descrizione più sintetica ed efficace sia della struttura del testo (sostanzialmente quattro grandi capitoli), sia dell'"anima" della dottrina sociale della Chiesa (DSC) che sta nei quattro grandi valori sui quali essa si fonda e si costruisce: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà. Proprio in virtù di questa articolazione ed elaborazione la PT può parlare della pace da una prospettiva e con una ragionevolezza che colgono nel segno la vera natura non solo della pace, ma anche delle questioni aperte in tema di conflitti e in relazione alle loro cause.
Prima di affermare che è un inno alla pace, è opportuno presentare questa enciclica come un inno alla persona umana, ai suoi diritti e doveri, alla sua dignità. "La dignità della persona umana è il fondamento della pace": è questa l'affermazione più ricorrente nella PT. Ed è appunto da questa prospettiva e valenza culturale-antropologica che si sviluppa e si precisa il valore dell'enciclica e tutta la successiva DSC, della quale la PT costituisce un momento evolutivo fondamentale ed imprescindibile.
Anche di fronte alla situazione internazionale di quell'apparentemente lontano 1963, che domandava pace (la possiamo ricordare solo per cenni: la costruzione del muro di Berlino, la guerra fredda, la crisi cubana…), la risposta dell'enciclica non fu certo limitata ad un vago appello o ad una sentimentale esortazione alla pace. Seppe cogliere invece la radice della questione e proporne la soluzione indicandola nel rispetto della dignità della persona umana. Questo rispetto consiste nell'attuare, vivere, vivificare nella società i grandi valori della verità, della giustizia, dell'amore - o carità - e della libertà. Solo nella ricerca, nell'attuazione e nella condivisione di questi valori è possibile offrire un futuro dignitoso a tutto l'uomo e a tutti gli uomini. Solo così è possibile affrontare tutte le questioni sociali aperte - a partire dal bene comune universale sino alle tematiche della partecipazione, della democrazia, della divisione dei poteri - e trovare indicazioni ed elementi di soluzione.
Anticipando le conclusioni del Concilio Vaticano II e operando così la svolta decisiva che imprimerà nuovi dinamismi e fecondità teologica e culturale (di ciò beneficerà enormemente la DSC), la PT, nella fedeltà alla Tradizione e alla dottrina cattolica, traduce quello che fino ad allora era insegnato e difeso come "primato della Verità", nel primato della persona umana. È la prospettiva che Giovanni Paolo II rilancerà nella sua enciclica programmatica Redemptor hominis mediante la felice espressione: "L'uomo via della Chiesa" (n.14). La Verità di Dio ora viene proposta ed insegnata soprattutto indicando l'uomo - la persona umana - la sua centralità, e la sua storicità come luogo e ambito della salvezza che Dio vuole operare. La portata di questa nuova prospettiva cristologica ed antropologica produrrà - per offrire soltanto un esempio - la sostituzione del metodo deduttivo con quello che definisco metodo del discernimento[3]: ci si concentra non tanto nell'applicazione dei principi, dai quali l'agire si ricava per via deduttiva, quanto piuttosto sulla ricerca di cogliere la presenza efficace di Dio nella storia per comprendere la Sua volontà ed impegnarsi per la realizzazione del Regno. Si passa appunto dal dedurre al discernere, significativamente sostenuto dalla prospettiva teologica, secondo il metodo del "vedere, giudicare, agire" (Lett. enc. , 217).
Non pretendo, con questa mia riflessione, di esaurire l'ampia gamma di intuizioni, contenuti, riflessioni, giudizi e valutazioni che la PT offre copiosamente. Cercherò soltanto di effettuare alcune sottolineature nel testo dell'enciclica per ricavarne preziose indicazioni, oggi quanto mai attuali ed importanti, per delineare la posizione della Chiesa sulla pace.
Pace e rispetto dell'ordine voluto da Dio
Già le prime parole dell'Introduzione della PT ci aiutano a scoprire la specificità e la portata del messaggio che caratterizza tutto il documento: "La Pace in terra… può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio"[4]. La pace è la realizzazione di questo stesso ordine che corrisponde al disegno di Dio sul mondo. Immediatamente dopo, esaltando il valore dell'uomo e delle sue capacità, espresse anche attraverso i progressi della scienza e della tecnica, il testo ci offre una importante prospettiva affermando: "la grandezza dell'uomo, che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze [quelle che compongono l'universo] e volgerle al suo servizio"[5].Abbiamo qui due direttrici di riflessione di grande importanza per comprendere la posizione della Chiesa sulla pace.
La prima prende avvio dal riferimento veritativo al quale si àncora la riflessione teologica sulla Creazione: c'è un ordine, c'è un ordine voluto da Dio, c'è un progetto divino che si rivela nella natura del mondo. Pace significa allora comprendere questo progetto, questo disegno, rispettarlo e realizzarlo.
Non meno importante la seconda direttrice: il concetto di pace, ossia di ordine desiderato e proposto da Dio, è connotato dalla dinamicità. L'uomo, dotato di intelligenza, capace di gestire il creato e le sue risorse, è chiamato a scoprire, a cercare e a comprendere questo progetto. Potremmo dire che è questa la vocazione dell'uomo, in quanto essere razionale, chiamato, quando si esprime a livello sociale, a realizzare se stesso mentre riconosce progressivamente questo ordine e progetta in vari modi di perfezionarlo, rispettandolo nella sua natura intima e ultima. Tra pace e compimento umano c'è dunque un legame intrinseco sia per quanto riguarda l'obiettivo essenziale dello sforzo umano, che è produrre la pace ossia sviluppo autentico, sia per quanto riguarda la dimensione esistenziale umana, nella quale produrre la pace ossia sviluppo autentico significa rispondere all'autentica vocazione della persona umana.
In questa prospettiva risulta chiaro il significato della posizione della Chiesa, che non è pacifista, ma pacificatrice. È questo il senso e il valore delle parole che Giovanni Paolo II ha pronunciato in questo frangente storico, parole che si elevano ben al di sopra degli slogan di un certo pacifismo o a quelli del movimento contrario, entrambi seriamente a rischio di deriva ideologica e di unilateralismi.
Pace non è assenza di guerra; non è nemmeno essere contro qualcuno che vuole la guerra; non è in nessun caso difesa preventiva, perché mai si devono colpire presunti o veri nemici prima di essere colpiti. La pace è il risultato di una ricerca, di un darsi da fare, di un mettersi all'opera per comprendere chi siamo realmente, qual è il nostro vero bene, nella consapevolezza, che da sempre proviene dal Magistero della Chiesa, del fatto che l'uomo è capace di bene ed è stato messo in grado di giungere alla Verità, seppure nella contingenza della storia.
Questa consapevolezza ha un grande valore se pensiamo all'attuale dibattito tra mondo cattolico e mondo laico a proposito di etica. Come spesso è accaduto, anche oggi si chiede ai cattolici impegnati nella cultura e in ambito politico di deporre i propri convincimenti religiosi per impegnarsi più efficacemente - secondo una presunta laicità - nel dibattito sociale. Anche oggi i cattolici sono accusati di voler imporre i propri principi etici alla società, di una sorta di fondamentalismo religioso (questo peccato di ingerenza è stato spesso attribuito anche al Santo Padre, come se al Papa non fosse concesso, come a tutti, di esprimere il proprio pensiero) e di non condividere con gli altri un luogo in cui la verità deve rimanere assente, perché affermarla significherebbe minare alla radice il pluralismo e il diritto di cittadinanza delle singole opzioni: la condicio sine qua non affinché tutti possano portare la loro verità è che nulla sia vero[6]. La Verità che la Chiesa porta, invece, è la Verità di Cristo. È una Verità che non chiede di essere imposta, ma che si offre, ricca di duemila anni di storia, di sofferenza, di carità… e di studio. La Chiesa desidera testimoniare Cristo offrendo un aiuto, un contributo, un servizio e la propria ragionevolezza nel proporre, senza alcuna imposizione, valori e criteri per il bene dell'uomo. Lo spirito di servizio con cui la Chiesa realizza tali interventi è stato presentato da Paolo VI nel Discorso che fece all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1965: la Chiesa "non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire,…con disinteresse, con umiltà e amore"[7].
Il dinamismo, la progressività della ricerca della pace, che ho sottolineato poc'anzi, sono i tratti essenziali del contributo, prezioso, che la Chiesa può offrire all'umanità: si tratta di cercare insieme e costruire insieme la pace, nel qui ed ora della contingenza, una pace che risponda pienamente alle esigenze richieste dal rispetto della dignità di tutto l'uomo e di ogni uomo. Solo da un tale rispetto, reso efficace, pratico e praticabile possono derivare esiti benefici per l'uomo e per i popoli. Tutto ciò è ribadito e ulteriormente chiarito nella PT. Da questa enciclica proviene l'insegnamento che la "convivenza umana deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale"[8] perché l'ordine tra gli esseri umani nella convivenza "è di natura morale"[9]. Ciò significa che le soluzioni ai problemi relativi alla convivenza non si possono trovare negli accorgimenti di tecnica politica e non. Solo se l'uomo cerca il progetto divino di pace - anzi, proprio nel riconoscere che c'è in lui questa vocazione alla pace, e che è necessario comprenderla - può realizzare se stesso. Tutto ciò richiede, oltre all'intelligenza, la sensibilità personale, la parte migliore di ciascuna persona, ossia la capacità di dono, di amore, di buona volontà.
La pace e i valori della convivenza umana
Un ulteriore arricchimento alla posizione della Chiesa sulla pace ci viene dall'indicazione della PT dei quattro valori che stanno a fondamento della convivenza umana: verità, giustizia, carità (o amore) e libertà. Il Santo Padre Giovanni Paolo II li ha riproposti nel Suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno, fornendo per ciascuno di essi una puntuale definizione che risulta utilissima per comprendere il significato della proposta cristiana sul tema della pace: "La verità sarà fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L'amore sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni" (n. 3).
Tali valori non devono essere disgiunti e non possono essere compresi e tanto meno vissuti separatamente, ossia non può esserci verità senza giustizia, carità e libertà. Ritengo sia opportuno soffermarmi brevemente sul significato di questi valori, di queste quattro parole: "verità", "giustizia", "carità", "libertà", che al giorno d'oggi, in qualche modo, non hanno più un significato pienamente condiviso per l'uso e più spesso l'abuso così frequente da far perdere ad essi rilevanza e forza comunicativa.
Oltre la verità, , che ho appena considerato, abbiamo dunque la giustizia. Con il termine giustizia non si intende l'obbedienza ad una norma o il semplice rispetto di un diritto: si vuole altresì indicare che ogni azione è eticamente rilevante in positivo quando è volta alla realizzazione della persona ossia all'attuazione della sua verità. Giustizia è allora un insieme di condizioni che permettono di realizzare appieno l'umanità personale in ogni dimensione[10].
Alla giustizia, così intesa, si accompagna la carità, che non è l'occasionale beneficenza quanto il porsi responsabilmente di fronte all'altro per aiutarlo a realizzare la sua umanità. Essa è definita dalla PT come "operante solidarietà" (n. 54). Non tanto allora, come dirà più tardi Giovanni Paolo II, "un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane"[11], quanto piuttosto l'esito a livello comportamentale di una mentalità formata, temprata e voluta. La carità cristiana è la solidarietà che sa rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione[12].
L'ultimo valore proposto è la libertà. Anche in questo caso occorre superare la definizione corrente o più usata, quella che riduce questo valore al semplice libero arbitrio. Senza porre certamente in discussione la capacità e possibilità di scelta individuali, alla parola libertà si dovrà altresì collegare il dovere di perseguire il bene, ossia la capacità che l'uomo ha di comprendere la verità, di perseguirla, di sceglierla: questa è la risposta che la persona umana è chiamata a dare alla vita e agli altri uomini.
Sotto questo profilo si può ben cogliere l'attualità e l'enorme valenza educativa che da questa concezione di libertà si ricava in tema di corrispondenza e di reciprocità tra diritti e doveri. La nostra cultura, impregnata di individualismo, nella quale la giusta emancipazione di tanti soggetti e la stessa partecipazione alla vita sociale e alle risorse hanno alla fine ottenuto riconoscimento e diffusione, ha finito per dare luogo e spazio ad una forma di arroganza, capace di chiedere solo diritti senza riconoscere i propri doveri. La consapevolezza della loro corrispondenza e reciprocità induce, invece, a riaffermare con fermezza la necessità, da parte di ciascuno, di assumersi le proprie responsabilità, senza cercare scusanti nelle fin troppo facili giustificazioni che derivano dalla ormai consolidata mentalità. Avere un diritto significa avere un corrispondente dovere, ovvero una responsabilità. Se ho il diritto al lavoro ho anche il dovere di lavorare. Se ho il diritto all'assistenza ho anche il dovere di contribuire ad essa, secondo il mio ruolo e la mia posizione nella società. Reciprocità e corrispondenza dei diritti e dei doveri allargano gli orizzonti, ci fanno sentire partecipi e collaboratori, co-protagonisti della continua costruzione del mondo. Il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003 sottolinea questa fondamentale necessità di collegamento tra diritti e doveri: i doveri - spiega il Santo Padre - sono l'ambito entro il quale i diritti non scadono nel libero arbitrio: "Un'osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d'insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l'ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell'esercizio dell'arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo"[13].
Pace e bene comune internazionale
Tenendo come obiettivi di fondo la centralità della persona umana e la necessità di provvedere al suo autentico sviluppo, Giovanni XXIII si rese conto, con lungimiranza e concretezza, che di fronte a problemi internazionali occorre elaborare proposte di soluzione di eguale ampiezza e dimensioni. L'ideale della pace, infatti, è trattato nell'enciclica "Pacem in terris" in tutta l'accezione positiva che gli proviene dagli approcci biblici e teologici, ma ciò non significa che la riflessione del beato Giovanni XXIII faccia astrazione dal problema delle mediazioni istituzionali e delle trasformazioni politiche e giuridiche che si impongono affinché quell'ideale possa trovare un'efficace trascrizione storica. L'enciclica, infatti, argomenta razionalmente e politicamente sulla necessità della pace, con analisi e riflessioni sullo spreco delle risorse impiegate nella corsa agli armamenti; sulla giustizia sociale in una prospettiva mondiale; sull'interdipendenza dei popoli; sui rapporti di sfruttamento tra Nord e Sud del mondo; sulla necessità di rafforzare le Nazioni Unite; sul diritto dei popoli all'indipendenza. Da questa enciclica proviene anche un incoraggiamento alla responsabilità politica di ampio respiro, sostenuta dalla consapevolezza che la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una possibilità oggettiva iscritta nel processo storico. In questa prospettiva desidero richiamare la vostra attenzione su due aspetti qualificanti la posizione della Chiesa sulla pace: il disarmo e la necessità di adeguati poteri pubblici mondiali.
a) Disarmo. La "Pacem in terris" lancia un monito, drammaticamente attuale anche nello scenario internazionale contemporaneo, circa la priorità che deve essere assegnata al disarmo integrale, non solo sul piano delle politiche relative agli armamenti, ma anzitutto a livello culturale: si tratta di smontare "anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità"[14].
Di fronte al rischio di una guerra nucleare, della distruzione assoluta, l'enciclica sostiene che nella nostra epoca, che si vanta di essere l'era atomica, è alieno dalla ragione considerare ancora la guerra come mezzo idoneo a restaurare i diritti violati[15]. L'enciclica segna, in tal modo, una discontinuità forte e innovativa rispetto alle riflessioni precedenti, dovuta ad una lucida e compiuta consapevolezza della novità della "rivoluzione nucleare". Giovanni XXIII si rende conto del fatto che l'equilibrio del terrore non può corrispondere all' "insegnamento plurisecolare della Chiesa sulla pace intesa come "tranquillitas ordinis" - "tranquillità dell'ordine", secondo la definizione di Sant'Agostino" [16] e prende posizione a favore del disarmo integrale: è proprio il carattere qualitativamente nuovo della guerra nucleare, con le sue prospettive di sterminio globale, di autodistruzione del genere umano, a rendere inaccettabili il ricorso alla guerra e la stessa possibilità di continuare a considerarla nei termini di extrema ratio.
b) Poteri pubblici mondiali. Già quarant'anni fa, con lucidità e chiara preveggenza, la PT, a fronte dell'inadeguatezza degli Stati nazionali a realizzare il bene comune universale, propose la costituzione di poteri pubblici mondiali mediante un processo democratico, sulla base dei principi di solidarietà e di sussidiarietà. Tale urgenza si è fatta più pressante nell'odierno contesto di globalizzazione, in cui l'autorità degli Stati nazionali appare ancora più fragile, mentre le esigenze del bene comune universale diventano più impellenti.
Pur riconoscendo il notevole progresso compiuto, nei quarant'anni trascorsi dalla pubblicazione della PT, verso la realizzazione della nobile visione di Giovanni XXIII, non sembra meno critico, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2003), Giovanni Paolo II. Egli scrive: "Non solo la visione precorritrice di Papa Giovanni XXIII, la prospettiva cioè di un'autorità pubblica internazionale a servizio dei diritti umani, della libertà e della pace, non si è ancora interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo, la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel dovere di rispettare e applicare i diritti umani". Poco più avanti aggiunge: "Allo stesso tempo, siamo testimoni dell'affermarsi di una preoccupante forbice tra una serie di nuovi "diritti" promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo: penso, ad esempio, al diritto al cibo, all'acqua potabile, alla casa, all'auto-determinazione e all'indipendenza"[17].
Nell'enucleazione di una figura dei poteri pubblici mondiali sarà quanto mai indispensabile seguire le preziosissime indicazioni offerte dalla PT. Tra queste è di particolare importanza la correlazione tra i contenuti storici del bene comune universale e la configurazione e il funzionamento dei poteri pubblici mondiali. Tale questione è morale prima che strutturale. E al centro devono essere posti la famiglia umana e il bene comune universale a cui essa tende, entrambi considerati in concreto.
Il valore del bene comune universale, nella prospettiva indicata da Giovanni XXIII, deve essere il criterio ispiratore della creatività progettuale e della configurazione più pertinente dei poteri pubblici mondiali: criterio non platonico, ma unico e complesso insieme, come unica, complessa e storicamente connotata è la famiglia umana. "L'ordine morale… - recita la PT - come esige l'autorità pubblica nella convivenza per l'attuazione del bene comune, di conseguenza esige pure che l'autorità a tale scopo sia efficiente. Ciò postula che gli organi nei quali l'autorità prende corpo, diviene operante e persegue il suo fine, siano strutturali e agiscano in maniera da essere idonei a tradurre nella realtà i contenuti nuovi che il bene comune viene assumendo nell'evolversi storico della convivenza" (n. 71).
Diventa urgente, allora, determinare i contenuti del bene comune universale odierno. Guardando ad essi, è possibile intravedere quale possa essere la rete di poteri e di funzioni di cui ha bisogno il mondo. A questo riguardo vi propongo una pagina drammatica del documento del Santo Padre Giovanni Paolo II per il dopo Giubileo : "È possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all'analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi? Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all'insidia della droga, all'abbandono nell'età avanzata o nella malattia, all'emarginazione o alla discriminazione sociale. [...] E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell'uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l'incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini?"[18]. Considerando l'obbligatorietà etica e la dimensione storica di tali contenuti, si dovrebbe coerentemente operare la scelta di mezzi adeguati, ossia istituzioni e risorse finanziarie, ma soprattutto l'impegno morale ed educativo, comunitario ed universale. La realizzazione della pace non può prescindere, inoltre, dalla questione della tutela e della promozione della dignità e dei diritti di ogni uomo, connotate storicamente.
Nel contesto internazionale, gli Stati sono chiamati a ripensare e a ridefinire l'autorità da esercitare. A livello locale essa non viene assolutamente meno, specie rispetto ad alcune funzioni, perché i cittadini del mondo, pur godendo oggi di maggiore mobilità, sono esseri corporei, solidali con l'ambiente e con il territorio[19]. In questa prospettiva, tuttavia, riconoscendo la dipendenza dell'autorità dall'ordine morale, che si esprime concretamente mediante le esigenze storiche del bene comune universale, sarà possibile rinunciare ad una concezione ideologica della sovranità. È da considerare, piuttosto, come una realtà al servizio del bene comune universale e indispensabile per la sua realizzazione, a livello locale e mondiale. La sovranità, rispetto all'attuale assetto, può essere ridistribuita tra Stati nazionali ed eventuali entità politiche regionali o mondiali, a seconda delle necessità storiche e secondo procedure democratiche. Le Nazioni possono rinunciare liberamente all'esercizio di alcune prerogative e affidarlo ad una sovranità superiore, in vista del bene umano universale.
In considerazione di tutto questo e in ragione della difesa e della promozione del bene comune, che è universale e particolare insieme, una sovranità superiore può intervenire - secondo i principi della giustizia, della solidarietà e della sussidiarietà - nell'area di una sovranità che si esplica su un piano inferiore. Quando una sovranità nazionale, con gravi atti, come nel caso dell'eliminazione di interi gruppi etnici, religiosi o linguistici, va contro il bene fisico, morale, culturale e religioso delle popolazioni sottoposte alla propria giurisdizione, compie dei crimini contro l'umanità e contro Dio. Ciò autorizza altre autorità, specie quelle superiori, qualora esistano, all'intervento in favore dei gruppi oppressi, sulla base di regole internazionali comuni e certe. Gli argomenti della sovranità nazionale e della non ingerenza non possono essere addotti come pretesto per impedire l'intervento in difesa delle parti aggredite[20].
Pace e impegno sociale dei cattolici
Dalla PT viene un forte e pressante richiamo pastorale: la pace ha bisogno di un convinto e generoso impegno dei cristiani nella società, soprattutto dei fedeli laici. Tale richiamo è stato per certi aspetti recentemente ribadito dalla Nota dottrinale "Circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica", rivolta agli stessi cattolici dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, promulgata lo scorso 16 gennaio (con data del 24 novembre 2002, Solennità di Cristo Re).
Nella PT troviamo soprattutto l'invito a partecipare alla vita politica, il richiamo alla prudenza e alla gradualità e la sollecitazione a coltivare la spiritualità.
a) Per quanto riguarda il tema della partecipazione, la PT valorizza la fondazione teologica dell'impegno politico: i cattolici sono chiamati all'impegno nella vita pubblica per collaborare alla realizzazione del bene comune ossia ad impegnarsi nelle istituzioni affinché esse provvedano alla realizzazione (o perfezionamento) integrale delle persone. Non si tratta dunque di un impegno soltanto gestionale, ma prima ancora di un impegno culturale, da svolgere con un preciso riferimento all'"ordine soprannaturale" (PT n. 76).
L'impegno politico è per i laici un impegno che non va mai disgiunto dalla loro esperienza e vita di fede. Il richiamo della Chiesa non è, infatti, un generico invito ad elargire la propria generosità di tempo ed energie in una sorta di estemporaneo volontariato. La Chiesa, attraverso questo impegno dei laici, svolge anche la sua missione; essa, con l'assistenza dello Spirito Santo, sa discernere il giusto rapporto e dare concretezza alla reciprocità tra evangelizzazione e promozione umana. Di conseguenza, questo impegno, come sostiene la PT e la stessa Nota dottrinale sopra citata, chiede non solo buona volontà, ma anche competenze tecniche e professionali, unitamente a cospicue risorse spirituali.
In questa prospettiva, la PT indica la necessità di una formazione integrale, completa (n. 77-80), affinché l'azione sia vissuta dai cristiani nella loro interiorità come "sintesi di elementi scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali" (n. 78). E non è forse questo il rimedio proposto alla frattura tra la fede professata e la vita quotidiana che soltanto tre anni più tardi i Padri Conciliari stigmatizzarono come uno "tra i più gravi errori del nostro tempo"[21]? Non è questo il seme che germoglierà successivamente, in sede conciliare, quando si affermerà (anche la menzionata Nota torna a ribadirlo) che l'esperienza cristiana - e segnatamente la fede, la speranza e la carità - per chi è impegnato nel sociale, cresce nell'impegno civile? L'appello ad una formazione integrale, ad una formazione che sostenga i credenti ad alimentare la propria fede da vivere nel concreto del lavoro quotidiano e delle problematiche e vicissitudini dell'esistenza, purtroppo cade spesso nel vuoto o comunque non sa sempre trovare adeguate forme di realizzazione.
b) L'impegno sociale e politico dei cattolici deve tener conto inoltre dell'appello alla prudenza e alla gradualità (PT 85-86), così come si evince anche dalla Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (per richiamare solo il documento più recente). Tale appello non invita certo ad assumere un atteggiamento ozioso e lassista sia sotto il profilo operativo, sia sotto quello etico-dottrinale. Si tratta di operare secondo una legge di gradualità, ma non operando una gradualità della legge. La fermezza che accompagna la difesa e la promozione dei valori cristiani si deve unire alla pazienza, al sacrificio, all'instancabilità del procedere in un lavoro culturale, di dialogo e di confronto, lento ma che, non per questo, si lascia raffreddare nella speranza, anzi sa gioire anche di piccoli ma significativi successi. Si tratta infatti di imparare uno stile dinamico, di costante e aggiornato discernimento, per poter realizzare, nel qui e ora, il miglior bene possibile.
c) L'impegno sociale e politico, l'impegno per la pace ha bisogno di uomini e di donne rinnovati dall'azione dello Spirito. Non si deve credere che la vita spirituale, alimentata soprattutto dalla fede religiosa, sia lontana o addirittura contraria all'impegno concreto per la pace. Essa, in realtà, alimenta i gesti di pace, proprio perché si alimenta dell'amore di Dio. Le situazioni cosiddette concrete non sono mai solo concrete. Esse sono il teatro di un impegno personale che ha bisogno di essere alimentato da una vita spirituale incentrata su Dio. La spiritualità cristiana è così forza primaria di conoscenza del concreto ed elemento di primo piano per la stessa soluzione di molti problemi complessi.
Il papa Giovanni XXIII, nell'enciclica Mater et magistra ricordava infatti che "Qualora si garantisca nelle attività e nelle istituzioni temporali l'apertura ai valori spirituali e ai fini soprannaturali, si rafforza in esse l'efficienza rispetto ai loro fini specifici ed immediati". Questa osservazione vale anche per la pace. Ecco perché nella visione del Santo Padre Giovanni Paolo II le religioni hanno una importanza fondamentale e, possiamo dire, un ruolo pubblico di primaria importanza nella costruzione della pace. Esse lo possono tanto più adeguatamente svolgere, quanto più si concentrano su quanto è loro proprio: lo sguardo rivolto a Dio e la costruzione di una spiritualità di pace. L'incontro di preghiera per tutte le religioni che il Santo Padre ha promosso il 24 gennaio 2002 ad Assisi aveva questo significato. Lo stesso significato hanno avuto la Giornata di digiuno celebrata il primo giorno di Quaresima il 5 marzo scorso e lo stesso l'insistente invito del papa alla preghiera del Rosario nell'anno dedicato al Rosarium Virginis Mariae.
Conclusione
Il "compito immenso" affidato agli uomini di buona volontà dalla PT, nel capitolo conclusivo, è quello di "ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell'amore, nella libertà" (n. 87). Ricomporre: ossia "ancora una volta mettere insieme". Il richiamo etimologico è quanto mai suggestivo. "sun ballon", ossia simbolo, termine che rimanda a sacramento, e dolorosamente, al suo opposto, "dia-ballon", diavolo, colui che divide. Questo sforzo di ricomposizione attraverso la mediazione culturale, il dialogo e il confronto aperto, è da vivere come un modo di essere e fare sacramento, ossia incarnare qui e ora Cristo, vivente ed operante nella Chiesa, è cercare di esprimere il Suo amore e la Sua Carità.
Vogliamo allora celebrare il quarantennale di questa importante Enciclica desiderando rinnovare la nostra coscienza del dovere che ci compete in quanto cristiani di fare della nostra vita un sacramento: la nostra vita deve diventare strumento e segno efficace della grazia di Dio. Il nostro impegno per la pace, ossia per la realizzazione di tutto l'uomo e di tutti gli uomini - "pace", l'ebraico "shalom", significa "completezza" - il nostro impegno per il rispetto della dignità umana che si esprime nel rispetto dei diritti e dei doveri, hanno una fondazione teologica e spirituale che deve essere riscoperta e valorizzata, così da diventare alimento spirituale capace di rinnovare le nostre persone nel segno evangelico della giustizia e della pace.

Arcivescovo Renato R. Martino
Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

  torna su                          

[1] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, n. 2.
[2] Cfr. PT 3
[3] Cfr. Congregazione per l'Educazione Cattolica, Orientamenti per lo studio e l'insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, 30 dicembre 1988, n. 8.
[4] PT, 1
[5] Id.
[6] G. Rusconi, Come se Dio non ci fosse, Einaudi, Torino 2001.
[7] Paolo VI, Discorso all'ONU, 4 ottobre 1965, introd.
[8] PT 19 (edizioni EP)
[9] PT 20 (edizioni EP)
[10] Cfr. sul tema della giustizia: GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, nn. 4-5,7-9,12,14.
[11] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.
[12] Cfr. Ivi,n. 40.
[13] Pacem in terris: un impegno permanente. Messaggio di Sua Santità Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace - 1° gennaio 2003, n. 5, Supplemento a "L'Osservatore Romano" del 18 dicembre 2002, p. III.
[14] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, n. 61.
[15] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris, nn. 59-63.
[16] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, n. 6.
[17] Giovanni Paolo II, Pacem in terris: un impegno permanente, n. 5.
[18] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50-51: AAS 93 (2001) 303-304.
[19] "I poteri pubblici della comunità mondiale - scrive Giovanni XXIII nella PT - non hanno lo scopo di limitare la sfera di azione ai poteri pubblici nelle singole comunità politiche e tanto meno di sostituirsi ad essi; hanno invece lo scopo di contribuire alla creazione, su un piano mondiale, di un ambiente nel quale i poteri pubblici delle singole comunità politiche, i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza" (n. 74).
[20] Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico (16 gennaio 1993) n. 13, in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Giovanni Paolo II e la famiglia dei popoli. Il Santo Padre al Corpo Diplomatico (1978-2002). Introduzione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Città del Vaticano 2002, pp. 232-233.
[21] Cfr. Cost. past. Gaudium et spes, 43.
  torna su                          




Chiamati ad essere sentinelle della pace

Intervento al Convegno diocesano "Pacem in Terrris". La posizione della Chiesa sulla pace
Milano, Palalido, 16 marzo 2003

1. Siamo alle conclusioni: conclusioni che in realtà sono un appello a ricominciare un cammino di pace. È un cammino già certamente in atto nelle nostre comunità cristiane, ma che esige di essere reso più ampio e capillare, più condiviso e deciso.
Questo cammino può essere rilanciato oggi nella nostra Chiesa ambrosiana da alcune parole, semplici e significative.
I - La parola della gratitudine
2. La prima parola è quella della gratitudine.
La rivolgiamo, anzitutto, a Dio. Sì, è lui, il Signore, che ha ispirato e guidato questo nostro Convegno!
La rivolgiamo poi a Sua Eccellenza l'arcivescovo Renato Martino, perché ci ha aiutato a comprendere - alla luce dell'enciclica Pacem in terris - la posizione della Chiesa sulla pace. Lo ringraziamo per la ricca e articolata relazione che ci ha regalato e per averci permesso di cogliere da vicino - anche attraverso le riposte alle nostre domande - ciò che pulsa nel cuore della Chiesa ogni volta che essa parla di pace e opera per la pace.
La parola della gratitudine è per tutti e per ciascuno di voi, che siete venuti a questo Convegno e che ora ritornate alle vostre comunità e realtà ecclesiali per essere, ancora più responsabilmente, araldi e testimoni operosi del "Vangelo della pace" e intelligenti protagonisti di una continua educazione personale e comunitaria alla pace.
3. In modo del tutto particolare, il nostro grazie è per il papa Giovanni Paolo II. Lo ringraziamo per la costanza, la creatività e la tenacia con cui - lungo tutto il suo pontificato e, soprattutto, nei momenti di più forte apprensione come gli attuali - ha fatto sentire la sua voce, innalzato la sua preghiera, messo in atto iniziative concrete e coraggiose a favore della pace. Se oggi siamo qui lo dobbiamo al suo invito di fare del quarantesimo anniversario della Pacem in terris "un'occasione quanto mai opportuna per fare tesoro dell'insegnamento profetico di Papa Giovanni XXIII", come ha scritto nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno (n. 10).
In realtà, è tutto qui il senso del nostro Convegno, che abbiamo voluto per essere aiutati "a conoscere, in modo corretto e senza smagliature o unilateralismi, la posizione della Chiesa sulla pace" e, dunque, come "un momento serio di riflessione e di conoscenza della dottrina della Chiesa e delle sue concrete implicazioni" (Messaggio alla Diocesi, 11 febbraio 2003).
II - La parola della responsabilità
4. Dopo la gratitudine, la seconda parola è quella della responsabilità, ossia dell'invito rinnovato e fortificato ad assumere i nostri compiti personali e comunitari, nella Chiesa e nella società.
Ed è ancora il Papa a rivolgerci in modo sintetico, semplice, stimolante ed entusiasmante la parola della responsabilità. È una parola che ha rivolto al mondo intero lo scorso 23 febbraio, prima dell'Angelus domenicale. Dopo aver richiamato l'attenzione di tutti sul periodo di "grande apprensione" che stiamo vivendo "per il pericolo di una guerra, che potrebbe turbare l'intera regione del Medio Oriente e aggravare le tensioni purtroppo già presenti in quest'inizio del terzo millennio"; dopo aver affermato con forza che "è doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra"; e prima di indire per il 5 marzo una giornata di preghiera e di digiuno per la causa della pace, il Papa ha così dichiarato: "Noi cristiani, in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza" (n. 1).
5. "Sentinelle della pace"! Sì, carissimi, è questo il "distintivo" che ci deve caratterizzare; è questo l'impegno che ci è chiesto di assumere; è questa la responsabilità che ci viene affidata e di cui dobbiamo rendere conto; è questo il contributo che ciascuno di noi può offrire alla causa della pace, animato dalla speranza che la pace dipende anche da noi, da ciascuno di noi, e non solo dai responsabili dei popoli e delle nazioni.
Siamo, dunque, tutti chiamati ad essere "sentinelle della pace". Come tale, la sentinella rimane sempre desta, vigile, attenta a scrutare l'orizzonte e a cogliere immediatamente ogni segnale per mettere in guardia di fronte ai pericoli e per prendere, in tempo reale, le decisioni necessarie. In ordine alla salvaguardia del grande bene della pace, il suo compito - come dice il Papa - consiste appunto nel "vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza".
Un rinnovato decisivo rimando alla coscienza
6. Siamo così rimandati, ancora una volta, alla grande realtà della coscienza. Sì, la parola della responsabilità passa attraverso la coscienza, non può passare che attraverso la coscienza! E per la verità non c'è un rimando superiore a quello della coscienza, perché è quanto di più decisivo e di più fondamentale possa esistere. Con tale rimando raggiungiamo il cuore di ogni persona, ciò che essa ha di più sacro e che, nello stesso tempo, determina ogni sua scelta e ogni sua azione e, in tal modo, concorre a configurare nella concretezza la convivenza sociale. Quest'ultima, infatti, quand'anche fosse pesantemente condizionata da alcune strutture e situazioni, non è mai il frutto di determinismi intoccabili, ma dipende sempre, e in larga parte, dalla libertà delle persone che quelle stesse strutture e condizioni hanno contribuito a realizzare.
Sento di dover insistere, come ho già fatto in diverse occasioni in questi mesi, sulla coscienza. Questa è una realtà "universale", che riguarda tutti e tutti interpella. Nello stesso tempo, è una realtà "personale", personalissima, perché chiama in causa ciascuno singolarmente e nella sua unicità e irripetibilità. Essa è pure, e inscindibilmente, una realtà "etica", in quanto attiene ai valori e li indica; è anzi una realtà "religiosa", perché ultimamente rimanda al disegno di Dio, da lui stesso iscritto nella "natura" dell'uomo e nella realtà del mondo.
7. È molto interessante rilevare come a questa stessa realtà della coscienza rimandi proprio l'enciclica Pacem in terris, fin dalle sue prime battute. Secondo Giovanni XXIII, infatti, "la pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio" (n. 1). Ora di questo "ordine stabilito da Dio", ossia dell'ordine morale, ogni uomo è capace di trovare le tracce dentro di sé e, quindi, di riconoscerle e di seguirle. In quanto tale - scrive ancora Papa Giovanni -, l'uomo porta scolpito in sé, quale riflesso dell'infinita sapienza di Dio, un "ordine che la coscienza rivela e ingiunge perentoriamente di seguire" (n. 3).
La conclusione si fa obbligatoria: l'ascolto della voce della coscienza è la premessa e la garanzia per edificare una pace giusta e duratura, precisamente perché la pace non può fondarsi che su quell'ordine voluto da Dio che la coscienza stessa, appunto, sa riconoscere e proporre come "imperativo categorico". Di conseguenza, se vogliamo essere autentiche "sentinelle delle pace", dobbiamo ascoltare e seguire la voce della coscienza. Ciò può e deve avvenire secondo i due compiti, peraltro indisgiungibili, della coscienza: quello del discernimento e quello della decisione operosa.
Una coscienza chiamata a discernere
8. Primo irrinunciabile compito della coscienza è quello del discernimento: essa è chiamata a riconoscere, secondo verità, i valori e le esigenze che sono iscritti in ogni persona umana, come pure nell'ordine sociale.
In questo senso, il giudizio di coscienza comporta di esprimere con estrema chiarezza e decisione un "sì" convinto e pieno alla pace e alle sue necessarie condizioni e, nello stesso tempo, un "no" altrettanto consapevole e determinato a tutto ciò che può turbare o distruggere la pace.
Ora il "sì" alla pace da parte di una coscienza rettamente formata ed educata è, più precisamente, il "sì" alla pace "vera". È la stessa coscienza a dirci che la pace non è solo assenza di guerra; non è pacifismo; non è prepotenza passata in giudicato e non è un ordine esteriore fondato sulla violenza e sulla paura; non è neppure repressione e ignavia o equilibrio superficiale tra interessi materiali ed economici divergenti… Essa è, piuttosto, desiderio universale di tutti i popoli ed esigenza fondamentale radicata nel cuore di ogni uomo; è proclamazione e realizzazione dei valori più alti e universali della vita, quali la verità, la giustizia, l'amore e la libertà; è dono di Dio, affidato come compito all'uomo; è un ordine sociale fondato sulla giustizia, rispettoso dei diritti delle persone e dei popoli, progressivamente teso all'instaurazione di un'autentica solidarietà operante tra tutti.
9. Ma se vogliamo essere autentiche "sentinelle della pace", è necessario che questo fondamentale "sì alla pace" si concretizzi in un "sì alle condizioni della pace", che sono molteplici e non possono essere disgiunte tra di loro. Da questo punto di vista, la voce della coscienza ci ripete con insistenza che la realizzazione della pace comporta di:
· rispettare la verità, che porta al riconoscimento, alla tutela e alla promozione dell'innata e intangibile dignità di ogni persona;
· garantire la giustizia, che esige il rispetto dei diritti fondamentali degli uomini e dei popoli, a partire da quelli più deboli e più poveri, l'adoperarsi per sconfiggere la povertà, la realizzazione di una globalizzazione senza emarginazioni;
· vivere l'amore, mediante la costruzione di un mondo più solidale, che elimini le disparità e operi in concreto per ridistribuire equamente non solo beni e risorse economiche, ma anche conoscenze e democrazia;
· assicurare la libertà, favorendo in tutti l'assunzione di responsabilità e lo spirito di iniziativa, garantendo a ciascuno di non essere sottoposto a costrizioni, coercizioni e ricatti, salvaguardando il rispetto e la promozione della libertà religiosa;
· essere disponibili al perdono e alla riconciliazione;
· coltivare il dialogo, quale strumento e forza per affrontare e comporre i conflitti;
· realizzare un disarmo comune e generale;
· sostenere gli organismi internazionali, a iniziare dall'Onu, rafforzandone l'autorevolezza, la rappresentatività e la democraticità.
10. Sempre assolvendo al compito del discernimento che le è proprio, ogni coscienza che obbedisce alla verità indica con certezza assoluta il grave dovere morale di dire dei "no categorici" a tutto ciò che nega la pace, o la incrina, o la rende impossibile. Essere "sentinelle della pace" significa, dunque, dire:
· "no" ad ogni attentato all'incomparabile dignità di ogni essere umano, a cominciare dal fondamentale diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale;
· "no" all'egoismo personale o di gruppo;
· "no" all'ingiustizia che non permette a ogni uomo e popolo di avere parte di quei beni culturali, economici, sociali e politici che sono destinati a tutti;
· "no" alla accumulazione di rancori, frustrazioni e disperazione tra le persone e i popoli;
· "no" al terrorismo, che è segno di vigliaccheria e costituisce sempre un autentico crimine contro l'umanità;
· "no" ai regimi e alle dittature, di qualunque colore essi siano, che portano inevitabilmente alla sopraffazione e alla distruzione, anche fisica, dell'uomo;
· "no" alla violenza, che è cosa ben diversa dal doveroso legittimo uso della forza quando questa si presenta come l'unica strada realisticamente possibile per neutralizzare l'ingiusto aggressore;
· "no" alla guerra, "se non come estrema possibilità" per ristabilire il bene comune "e nel rispetto di ben rigorose condizioni", tra cui non "vanno trascurate le conseguenze che [la guerra] comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari" (Giovanni Paolo ii, Al Corpo diplomatico, 13 gennaio 2003);
· "no" al drammatico ampliamento dei tradizionali limiti morali e legali della causa giusta per includervi l'uso preventivo della forza militare per abbattere regimi pericolosi o per affrontare il problema delle armi di distruzione di massa.
Una coscienza da educare
11. Ancora circa il compito di discernimento proprio della coscienza occorre rilevare con forza la necessità di una vera e propria "educazione della coscienza". La coscienza, infatti, è sì qualcosa di innato e di naturale nell'uomo, ma è anche una realtà che può ingannarsi e ingannare, se non è fatta oggetto di costante vigilanza e di continua premura mediante una permanente conversione alla verità e al bene.
Ecco perché a livello personale e comunitario diventa urgente conoscere - studiandola e approfondendola nei suoi contenuti e nelle sue motivazioni - la dottrina della Chiesa sulla pace e sulla guerra, così come essa è presentata nel "Catechismo della Chiesa Cattolica" ed è contenuta nei diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa, in particolare nei Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace.
È quanto abbiamo voluto fare con questo Convegno ed è quanto deve diventare parte integrante degli itinerari educativi, della catechesi e della stessa predicazione nelle nostre parrocchie e nelle diverse aggregazioni ecclesiali.
12. Non solo. È pure urgente evitare ogni emotività e, peggio ancora, ogni irrazionalità nell'affrontare i diversi problemi che, di volta in volta, si presentano all'orizzonte della storia. È piuttosto con la "freddezza" propria di chi vuole rigorosamente comprendere e razionalmente giudicare che questi stessi problemi vanno affrontati ad ogni livello, in ogni ambiente e in ogni pubblico confronto. Né ci può influenzare il giudizio degli altri: occorre essere e rimanere sovranamente liberi di fronte a chiunque, a qualunque posizione di parte, ad ogni alleanza più o meno doverosa o presunta tale, a qualsiasi accusa di parteggiare per l'una o per l'altra parte o di venire meno ad amicizie o ad appartenenze culturali.
Sì, in questa linea, essere "sentinelle della pace" comporta anche di non lasciarsi ingabbiare da discussioni culturali, più o meno pretestuose, sulla fedeltà all'Occidente e sul rapporto tra quest'ultimo, il cristianesimo e la Chiesa. Ciò che davvero deve essere determinante è il riconoscimento e il rispetto della verità e l'ascolto della voce di una coscienza che si è immunizzata da ogni forma di soggettivismo individualista o di collateralismo culturale o politico.
13. Sempre in questa stessa direzione, c'è bisogno anche di non essere passivamente acritici nei confronti dei mass media, ma di essere lucidamente attenti a individuare ogni manipolazione o strumentalizzazione della verità, che si può incontrare, per denunciarla e prenderne le distanze in modo concreto, convinto e capace di argomentare le proprie posizioni. È questo un compito che ci chiama direttamente in causa, come Chiesa e come cristiani (cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2003, n. 3).
Una coscienza che spinge ad agire
14. Insieme con quello del discernimento, c'è un altro compito che è proprio della coscienza: è il compito di decidersi e di scegliere in ordine all'agire concreto. La voce della coscienza, infatti, si presenta come un "appello", un "imperativo", un "dettame" obbligante che spinge ad agire, a compiere atti concreti coerenti con quanto indicato dalla coscienza stessa.
Essere "sentinelle della pace" comporta, dunque, che non ci si limiti a "parlare" di pace, ma che ci si impegni a "fare" opere di pace. Il "sì" alla pace e il "no" a tutto ciò che la inquina o la rende impossibile investe la vita concreta di tutti e di ciascuno in ogni atteggiamento e in ogni comportamento. La pace non può essere solo proclamata o gridata; la pace va fatta! Va fatta in casa, nella scuola, sul lavoro, in ogni ambiente della vita sociale, a livello politico, in ambito nazionale e in quello internazionale. Va fatta da tutti, nessuno escluso.
Essa è, certamente, opera e dovere dei responsabili delle sorti dei popoli e della nazioni: in una convivenza democratica questi devono essere costantemente sollecitati e spinti, con ogni legittima iniziativa anche di pressione da parte dell'opinione pubblica, a volere davvero la pace e a cercare tutte le strade possibili per risolvere i conflitti e per superare le ingiustizie con la "forza della ragione" e non con le "ragioni della forza", ossia con le armi.
15. Ma la pace è anche opera di ciascuno di noi! È dunque la coscienza personale, personalissima di ciascuno di noi che ci deve "inquietare" - sì, il termine è da prendersi con la massima serietà - nella nostra insopprimibile individualità. Lo ricordava con toni appassionati Paolo VI nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1974: "Il destino della Pace dipende anche da ciascuno di noi. Perché ciascuno di noi fa parte del corpo civile operante con sistema democratico… La Pace è possibile, se ciascuno di noi la vuole; se ciascuno di noi ama la Pace, educa e forma la propria mentalità alla Pace, difende la Pace, lavora per la Pace. Ciascuno di noi deve ascoltare nella propria coscienza il doveroso appello: La Pace dipende anche da te".
Essere "sentinelle della pace" significa, allora, farsi instancabili "operatori di pace", essere generosi, costanti, audaci e fiduciosi "seminatori di gesti quotidiani di pace". Nessuno dica: "Tocca ai grandi della terra! Noi non possiamo fare niente! Il nostro apporto è del tutto insignificante e ininfluente!". No, tocca anche a noi! La pace dipende anche da ciascuno di noi, è anche opera nostra, perché non c'è persona - piccola o grande, ricca o povera, semplice o dotta - che non sia in grado di porre nella storia, giorno dopo giorno, innumerevoli "gesti di pace" fatti di sincerità, di attenzione, di accoglienza, di amicizia, di cura, di impegno, di generosità, di stima per l'altro, di apertura, di sopportazione, di perdono, di amore (cfr. Colossesi 3,12-15).
La forza "politico-giuridica" del dialogo e del perdono
16. La pace va, dunque, costruita concretamente. Per fare ciò vanno messe in atto adeguate opere di pace, anche a livello sociale, istituzionale, dentro i singoli Stati e a livello internazionale. Sì, pure a questo livello è coinvolta la nostra responsabilità, certamente una responsabilità differenziata, in rapporto cioè alle varie possibilità e ai diversi compiti che abbiamo nell'ambito della vita sociale e politica.
Secondo quest'ultima direzione, mi limito a ricordare che su tutti noi grava il compito di una "conversione" culturale e, dunque, di un nuovo modo di considerare gli obiettivi, gli strumenti e i metodi dell'intervento sociale e politico a favore della pace vera, giusta e duratura.
Gli obiettivi sono la realizzazione del "bene comune universale", un'esigenza questa che appare particolarmente urgente e indilazionabile oggi, in un contesto di crescente globalizzazione come è il nostro.
Gli strumenti per tale obiettivo sono una nuova organizzazione dell'intera famiglia umana con una reale ed effettiva "autorità pubblica internazionale", da intendere appunto come struttura democratica al servizio del bene comune universale.
17. I metodi poi sono quelli che puntano sul dialogo e che sono capaci di coniugare tra di loro giustizia e perdono. È quest'ultimo un punto culturale, e insieme spirituale, di grande valore. Non si deve, infatti, credere che il dialogo e il perdono siano atteggiamenti validi solo nei rapporti diretti e quotidiani tra le singole persone, mentre a livello sociale, politico e internazionale non hanno alcuna rilevanza, né possono averla di fatto. Occorre piuttosto rimarcare che essi, oltre ad una indubbia valenza etica, ne hanno anche una giuridica e politica. Dialogo e perdono, in altri termini, sono - e devono essere sempre di più, anche mediante l'individuazione di corrispondenti dispositivi istituzionali - strumenti da utilizzare per l'edificazione della pace nel mondo.
Il dialogo, in particolare, va inteso e messo in atto come ricerca di ciò che è e resta comune agli uomini, anche in mezzo alle tensioni, alle opposizioni e ai conflitti; come strumento per la realizzazione del bene con mezzi pacifici; come volontà costante di ricorrere a tutte le possibili formule di negoziati, di mediazioni, di arbitrato, per far sì che i fattori di avvicinamento prevalgano sui fattori di divisione e di odio tra gli uomini, i popoli, le nazioni, gli Stati.
Anche il perdono, poi, va visto come premessa indispensabile per camminare verso una pace autentica e stabile. Come, infatti, ha sottolineato il Papa nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1997, senza un atteggiamento di sincero perdono "le ferite continuano a sanguinare, alimentando nelle generazioni che si succedono un astio interminabile, che è fonte di vendetta e causa di sempre nuove rovine" (n. 1).
18. Mi piace confermare queste considerazioni sulla rilevanza del perdono anche con la parola del carissimo cardinale Carlo Maria Martini. A lui che a Gerusalemme, nella santa e martoriata terra di Gesù, continua la sua quotidiana preghiera di intercessione, mandiamo da questo Convegno un caloroso e affettuoso saluto, sentendoci uniti da una profonda comunione.
Egli, rompendo nei giorni scorsi il "silenzio sabbatico" tenuto in questo periodo, così ha scritto su "L'Osservatore Romano" di mercoledì 12 marzo: "La pace ha un costo… Ciò significa che bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe pure diritto. Non basta dunque invocare la pace: bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione". E più avanti aggiungeva: "Sì, la pace non può che essere frutto della giustizia, ma la pace di questo mondo non sarà soltanto il risultato di una giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle attuali aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia che è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce di singoli e di gruppi in vista di un bene comune più alto e condiviso. La pace perciò alla fine è opera di una giustizia che partecipa della giustizia divina, di una giustizia cioè che è anche perdonante, misericordiosa, riabilitante, capace di dimenticare i torti subiti".
III - La parola del dono
19. Dopo aver parlato della coscienza come discernimento e decisione operosa, non possiamo concludere senza un riferimento alla coscienza cristiana, illuminata dalla fede e animata dalla carità. Due sono le parole che, a questo riguardo, vorrei far risuonare. La prima è la parola del dono; la seconda è quella della missione.
È, anzitutto, quella del dono la parola che anche adesso fa ascoltare il suo messaggio in mezzo a noi. Sì, perché la pace non è un puro risultato dell'ingegno umano, dello sforzo dei politici, dei trattati internazionali e dell'impegno di tutti gli uomini di buona volontà. Tutte queste opere umane sono necessarie, ma da sole non sono in grado di assicurare una pace vera e duratura.
La pace è "dono di Dio"! È una realtà che discende da Dio, creatore della pace. Essa si realizza in pienezza in Gesù e viene comunicata agli uomini attraverso la sua croce e il suo sangue. Sì, la pace trova in Gesù la sua origine, il suo fondamento, il suo contenuto: Gesù stesso, infatti, è la nostra pace perché, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, inchiodando sul legno della croce il documento della nostra condanna che ci teneva lontani da Dio (cfr. Colossesi 2,14) e abbattendo il muro di separazione e di inimicizia che divideva tra loro gli uomini (cfr. Efesini 2,14-18).
20. Quanto è avvenuto una volta per sempre sulla croce, noi oggi lo ritroviamo e lo incontriamo nella storia viva e quotidiana della Chiesa e, in particolare, nell'Eucaristia, che è il sacrificio della nuova ed eterna alleanza, il memoriale della Pasqua del Signore.
La Chiesa costituisce, quindi, sulla terra il luogo, il segno e la fonte della pace tra i popoli e dell'unità di tutto il genere umano. Ed è nell'Eucaristia che ogni cristiano trova la sorgente più vera della pace, l'invito più forte ad essere operatore di pace, il luogo privilegiato di invocazione della pace, la forza più autentica per operare nell'amore, che della pace è uno dei pilastri fondamentali.
Essere "sentinelle della pace" significa allora attingere continuamente dall'Eucaristia la grazia che ci rende persone veramente pacificate e capaci di diffondere pace.
IV - La parola della missione
21. Inscindibilmente unita con la parola del dono c'è quella della missione. Sì, perché la pace è un "dono affidato agli uomini".
Scesa come grazia e benedizione sulla comunità di coloro che hanno accolto il messaggio della Pasqua del Signore, la pace si presenta come un "compito", come un "imperativo etico" per la Chiesa e per i cristiani. Essa va vissuta non solo dentro la Chiesa, ma anche come rapporto di amore con tutti. Accolta come uno dei frutti della vita nuova prodotta dallo Spirito Santo, deve accompagnarsi inseparabilmente con la giustizia, la verità, la libertà.
22. Questo compito va, dunque, realizzato secondo la triplice direzione che caratterizza la missione della Chiesa.
Si tratta, allora, di "annunciare" il Vangelo della pace, di annunciarlo in ogni occasione e in ogni modo, senza mai stancarsi di far risuonare il nome della pace anche quando le speranze di vederla realizzata sembrano molto ridotte o scomparse del tutto.
Lo stesso Vangelo della pace chiede di essere "celebrato", anzitutto nel momento sorgivo e culminante dell'Eucaristia e poi, quasi come preparazione e prolungamento della stessa Eucaristia, nella preghiera, umile, insistente e fiduciosa. Sì, i cristiani non possono non credere nella "forza debole e disarmata" della preghiera: essi si distinguono e si riconoscono proprio perché sanno sempre aprire con fiducia le labbra e il cuore a invocare un intervento dall'Alto, che solo può far sperare, contro ogni speranza, in un futuro migliore e meno oscuro.
Siamo, infine, chiamati a "testimoniare" il Vangelo della pace, operando assiduamente per un'edificazione della pace nella carità che perdona e riconcilia e nella comunione vissuta nei rapporti interpersonali, in famiglia, negli ambienti di vita e nella stessa comunità cristiana. A noi, come Chiesa e come cristiani, è chiesto così di risplendere in mezzo agli uomini come segno di unità e strumento della pace.
La novità evangelica anima della nostra speranza
23. Sì, possiamo e dobbiamo essere "sentinelle della pace"! È un compito certamente impegnativo e non privo di tante difficoltà. Abbiamo però una certezza che ci accompagna e ci sostiene: non siamo soli! Non siamo soli, perché con noi c'è lo Spirito di Dio! Ed è proprio lo Spirito Santo, artefice di comunione nell'amore, il vero e principale protagonista dell'edificazione della pace. Donatoci dal Signore Gesù, lo Spirito è sempre con noi, sa vincere ogni nostra resistenza e sa renderci autentici operatori di pace.
Questa è la novità evangelica di cui siamo depositari. Di questa novità dobbiamo essere gli araldi convinti e appassionati, in dialogo sincero con tutti gli uomini di buona volontà, animati dalla certezza che questa stessa novità evangelica non è mai "contro" l'uomo, ma è sempre "per" il bene di ogni uomo e del mondo intero. Non possiamo tenerla per noi questa novità, dobbiamo comunicarla e proporla a tutti, perché tutti possano godere di quella pienezza della pace che ci è data in dono.
24. Ed è questa stessa novità evangelica, con la forza che contiene e sa sprigionare, ad animare la nostra speranza. Di questa speranza abbiamo tutti bisogno; ne ha bisogno il mondo; ne hanno particolare bisogno tutti quegli angoli della terra dove c'è ingiustizia e dove sempre più imminente sembra lo scoppio della guerra.
Con la fiducia di chi ripone tutta la sua speranza nel Signore, ci auguriamo che anche questo nostro Convegno - con le ricadute che senz'altro avrà in ciascuno di noi, nelle nostre comunità cristiane e nei nostri ambienti di vita - possa essere un "seme di pace" gettato nella nostra terra perché possa portare "frutti di pace".

+ Dionigi Card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano


  torna su                          


Chiamati ad essere "sentinelle della pace"

Messaggio del Cardinale Arcivescovo a tutte le parrocchie della Diocesi a seguito del convegno "Pacem in Terris. La posizione della Chiesa sulla pace" del 16 marzo scorso. Si invitano i delegati al convegno a leggere questo messaggio durante le SS. Messe di domenica 23 marzo ed eventualmente a distribuirlo ai fedeli.

Carissimi, come sapete, domenica scorsa abbiamo celebrato a Milano il Convegno diocesano “Pacem in terris. La posizione della Chiesa sulla pace”. Il momento che abbiamo vissuto ci impegna ora a continuare e a rilanciare un cammino di pace. Sento per questo il bisogno di riproporre a tutti l’appello del Papa ad essere «sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo», vigilando «affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell’egoismo, della menzogna e della violenza» (All’Angelus del 23 febbraio 2003). Per essere autentiche “sentinelle della pace”, dobbiamo lasciarci guidare dalla voce della coscienza, nel suo compito di discernimento e di decisione operosa. La voce della coscienza ci chiede di “discernere”, ossia di riconoscere e giudicare, nella verità, i valori e le esigenze delle persone e dell’ordine sociale. Esprimiamo, dunque, un “sì” convinto alla pace e a tutto ciò che è necessario perché si realizzi e, insieme, un “no” deciso a quanto la turba o la distrugge. Per non cadere, però, in uno scorretto pacifismo, è necessario: educare la propria coscienza, conoscendo e approfondendo la dottrina sociale della Chiesa sulla pace e sulla guerra; evitare ogni reazione emotiva e irrazionale di fronte alle posizioni che emergono su questi problemi; essere attenti e critici nei confronti delle possibili manipolazioni della verità da parte dei mass media. La voce della coscienza ci spinge anche ad “agire”. È necessario impegnarci a “fare” opere di pace. Sì, la pace va fatta: in casa, nella scuola, sul lavoro, in ogni ambiente della vita sociale, a livello politico, in ambito nazionale e internazionale. Va fatta da tutti, nessuno escluso, perché la pace – oltre che dai responsabili dei popoli e delle nazioni – dipende anche da ciascuno di noi! Seminiamo, dunque, “gesti quotidiani di pace”, coltivando atteggiamenti di sincerità, di stima e di accoglienza dell’altro, di pazienza e di generosità, di amore e di perdono. Per essere “sentinelle della pace” come discepoli del Signore che testimoniano la novità cristiana, ci è chiesto di lasciarci guidare da una coscienza illuminata dalla fede e animata dalla carità. Riconosciamo, allora, che la pace è “dono” di Dio, comunicata agli uomini mediante la Croce e il sangue di Gesù, “nostra pace”. Questo stesso “dono” oggi lo ritroviamo e lo incontriamo nella Chiesa e, in particolare, nell’Eucaristia. Continuiamo, dunque, ad attingere dalla celebrazione eucaristica, soprattutto domenicale, la grazia che ci rende persone pacificate e che sanno diffondere pace. La pace è sì dono di Dio, ma è un “dono affidato agli uomini”. Viviamo, perciò, la “missione”, consegnata a tutti noi cristiani, di annunciare, celebrare e testimoniare il “Vangelo della pace”: annunciamolo, facendo risuonare sempre la parola della pace, anche quando sembra venir meno la speranza di poterla realizzare; celebriamolo nell’Eucaristia e mediante una preghiera umile, fiduciosa e insistente, che invoca dal Signore il grande dono della pace; testimoniamolo, con una carità concreta e operosa, sempre pronta a perdonare, riconciliare e far crescere la comunione nei rapporti tra le persone, in famiglia, negli ambienti di vita e nella stessa comunità cristiana. Carissimi, essere “sentinelle della pace” è un compito impegnativo e, spesso, non privo di tante difficoltà. In questo compito, però, una certezza ci accompagni e ci sostenga: non siamo soli! Con noi c’è lo Spirito di Dio! È lui il vero e grande protagonista dell’edificazione della pace! Lasciamoci, dunque, guidare e animare dallo Spirito di Gesù per essere autentici “operatori di pace”. E se, nonostante tutto ciò, dovesse scoppiare la guerra? E se questa guerra venisse dichiarata e condotta a dispetto del diritto internazionale e di ogni principio morale? In questa ipotesi deprecabilissima – che speriamo sempre non si verifichi –, che ne sarebbe delle indicazioni di questo messaggio? Dovremmo forse perdere la fiducia e abbandonarci alla delusione perché tutti i tentativi di scongiurare la guerra sono falliti e la nostra stessa preghiera sembra non essere stata esaudita? No, carissimi! Anche in questa gravissima e inaccettabile situazione, dovremmo continuare ad essere “sentinelle della pace”! Proprio in tempo di guerra, infatti, la missione delle sentinelle si fa più preziosa e necessaria. Da sentinelle vigili e accorte, dovremmo dunque: condannare questa guerra e chiedere che finisca, utilizzando anche ogni mezzo democratico per far sentire la nostra voce e incidere sull’opinione pubblica; continuare a praticare il dialogo e il perdono, nella convinzione che essi hanno un valore giuridico e politico anche nei rapporti tra gli Stati; non perdere mai la fiducia nel Signore, ma rinnovarla ancora di più, intensificando l’impegno della preghiera, della penitenza e della carità; convertire il nostro cuore e intercedere perché si converta il cuore di quanti non hanno fatto abbastanza per evitare la guerra e di quanti l’hanno caparbiamente voluta. Su ciascuno di voi, sulle vostre famiglie e sulla vostra parrocchia, invoco di cuore la grazia e la benedizione di Dio. Il Signore rivolga il suo volto su di voi e vi doni la sua pace! La doni – la ridoni! –, in particolare, al Medio Oriente! La doni ad ogni uomo! La doni al mondo intero!

Milano, 17 marzo 2003.
Il vostro Arcivescovo + Dionigi card. Tettamanzi

 

 

  torna su