"La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi,
può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine
stabilito da Dio". Così l'incipit di quella grande enciclica
che è la Pacem in terris, di Giovanni XXIII (1963).
Intendo qui esporre alcune riflessioni fondamentali, tratte dal magistero della
Chiesa sul tema della pace.
1. La pace in terra non è ancora lo shalom biblico, che coincide con
la pienezza del regno di Dio già inaugurato da Gesù Cristo con
l'evento della Pasqua e destinato, come germe presente nel mondo mediante la
Chiesa, a fecondare la nostra storia e a sfociare, alla fine dei tempi, nella
comunione e nell'abbraccio eterno di Dio con l'umanità. La pace in terra
è la pace possibile, è la pace difficile, è la pace impegnativa,
è la pace che porta i contrassegni delle nostre grandezze e delle nostre
miserie, è la pace segnata dalla lacerazione originale, dalle ferite
profonde della nostra esistenza.
La pace messianica ha con la pace in terra lo stesso rapporto dialettico che
il Regno di Dio ha con la nostra storia umana; lo stesso rapporto dialettico
che l'evangelizzazione ha con la promozione umana; lo stesso rapporto dialettico
che la liberazione evangelica ha con i processi di liberazione umana. E' un
rapporto che è stato chiaramente e lucidamente esposto da Paolo VI nell'Esortazione
apostolica Evangelii nuntiandi (1975). C'è un legame necessario
fra annuncio del Vangelo e promozione umana, perché il cristianesimo
è l'evento del Dio che si è fatto carne. Ma l'annuncio evangelico
della pace, pur avendo un legame necessario con gli sforzi dell'uomo per costruirla
in questo mondo, non si può esaurire in nessun progetto mondano. Legame
necessario, dunque, ma non identità: la quale non solo presterebbe il
fianco a catture ideologiche, ma renderebbe irrilevante il "di più",
ossia il dono che immeritatamente e gratuitamente il Redentore apporta all'umanità:
il "di più" di una salvezza integrale ed eterna. Diversamente
si perviene ad una totale secolarizzazione e mondanizzazione dell'esperienza
cristiana che si troverebbe imprigionata e vanificata dentro ai progetti politici
e sociali. La stessa antropologia cristiana subirebbe una grave mutilazione,
perché avrebbe come meta il paradiso sulla terra, dunque un dio ridotto
ad idolo costruito dalle mani dell'uomo. Sarebbe resa vana la stessa croce di
Cristo, se l'umanità, pelagianamente, fosse capace di autoredenzione.
Scrive infatti Paolo VI:
"Non dobbiamo nasconderci che molti cristiani, anche generosi e sensibili
alle questioni drammatiche che racchiude il problema della liberazione, volendo
impegnare la Chiesa nello sforzo di liberazione, hanno spesso la tentazione
di ridurre la sua missione alle dimensioni di un progetto semplicemente temporale;
i suoi compiti a un disegno antropologico; la salvezza, di cui essa è
messaggera e sacramento, a un benessere materiale; la sua attività, trascurando
ogni preoccupazione spirituale e religiosa, a iniziative di ordine politico
o sociale. Ma se così fosse, la Chiesa perderebbe la sua significazione
fondamentale. Il suo messaggio di liberazione non avrebbe più alcuna
originalità e finirebbe facilmente per essere accaparrato e manipolato
da sistemi ideologici e da partiti politici" (n. 32).
Questa tentazione riduzionistica è presente anche nel nostro panorama
attuale, e non solo fra i non cristiani, ma fra i cristiani stessi, come diceva
Paolo VI non senza un certo coraggio. E così papa Montini concludeva
il discorso: la liberazione evangelica "non può limitarsi alla
sola e ristretta dimensione economica, politica, sociale o culturale, ma deve
mirare all'uomo intero, in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso
l'assoluto, anche l'Assoluto di Dio" (n. 33). E ancora:
"La Chiesa collega ma non identifica mai liberazione umana e salvezza
in Gesù Cristo, perché sa per rivelazione, per esperienza storica
e per riflessione di fede, che non ogni nozione di liberazione è necessariamente
coerente e compatibile con una visione evangelica dell'uomo, delle cose e degli
avvenimenti; sa che non basta instaurare la liberazione, creare il benessere
e lo sviluppo, perché venga il regno di Dio" (n. 35).
Questi principi basilari sono stati abbondantemente ripresi, confermati, analizzati
e approfonditi in due documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede
circa la teologia della liberazione, approvati dal papa Giovanni Paolo II: Libertatis
nuntius (1984) e Libertatis conscientia (1986).
Radicando la pace in Dio e accogliendola come suo dono, la si libera dalle ideologie
e da ogni possibile strumentalizzazione.
2. "Christus est pax nostra" (Ef 2,14). E' Cristo la nostra
pace, è Lui che ha annullato l'inimicizia nella sua carne con il sacrificio
della croce, che ha riconciliato cielo e terra, Dio e l'umanità, e dunque
gli uomini e i popoli tra di loro. Non va mai dimenticato che il bene messianico
della pace è frutto non di ignavia, ma di una azione drammatica, che
è costata il sangue prezioso del Figlio di Dio. Proprio guardando a Cristo,
ci rendiamo conto che ogni azione di pace è pacificatrice, più
che pacifista: ossia è azione a caro prezzo, è una pace conquistata
con l'offerta di se stessi, non una pace semplicemente gridata. Questo fa la
differenza fra una concezione cristiana di pace - che fa leva su un dono da
accogliere con la pienezza della nostra responsabilità fino al sacrificio
di se stessi - e altre concezioni di pace. Quando parlo di offerta di se stessi,
parlo di tutta una antropologia, ossia di una concezione globale e unitaria
dell'esistenza umana che fa affidamento su Dio, non su se stessi; che vede la
propria libertà finalizzata non al narcisismo o al libertarismo, ma alla
verità in tutti gli ambiti della vita. E' la pace a caro prezzo. L'esistenza
cristiana è posta sotto la luce del dramma salvifico, che non elimina
il combattimento spirituale: testimoniare la verità è lottare
contro la menzogna; promuovere la vita è lottare contro la morte; testimoniare
la giustizia è lottare contro l'ingiustizia; vivere per essere liberi
è lottare contro le mille forme di schiavitù idolatriche che seducono
il nostro cuore; testimoniare il perdono è lottare contro la vendetta
e l'odio. La testimonianza cristiana ci chiede insomma anche di andare contro
corrente.
Per noi cristiani non si può invocare e gridare la pace e poi accettare
le ingiustizie ( e non solo quelle del Terzo Mondo, ma anche quelle di casa
nostra), essere contro la vita concepita, contro la famiglia fondata sul matrimonio,
contro la libertà educativa dei genitori. Non si può invocare
la pace e poi intraprendere un'azione di sistematica delegittimazione di chi
la pensa diversamente. Non si può invocare la pace e scegliere il relativismo
etico, ossia l'indifferenza fra bene e male, che è alla radice di ogni
forma di violenza, anche la più subdola.
E' stato scritto che "i fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti
di fango": è la lacerazione profonda, è il paradosso
della nostra esistenza che solo Cristo riesce a guarire e a comporre. Non si
può non fare i conti con questa lacerazione fondamentale, che è
alla radice dell'immoralità del vivere, degli egoismi personali e di
gruppo, della corruzione politica, dei tradimenti e delle infedeltà a
livello familiare e interpersonale, della insensibilità di fronte ai
milioni di esseri umani che vengono impediti di nascere e in favore dei quali
non si fa più alcuna marcia e non si movimenta più alcuna piazza.
Le guerre sono il segno macroscopico del male che ci portiamo dentro: diventa
ipocrita la demonizzazione della guerra se non è accompagnata da un protesta
interiore contro qualunque forma di male che sta accovacciata nella nostra vita.
Il meccanismo del capro espiatorio o della delega è, anche sul piano
psicologico, una regressione al caos delle origini, una fuga dalle proprie responsabilità.
Questi sono i motivi per cui il Papa ci ha invitato alla preghiera, al digiuno,
al cambiamento del cuore. La pace non può essere sbandierata, senza che
essa diventi uno stile di vita che è lotta al male, all'ingiustizia,
alla violenza: nella nostra vita personale e sociale, anche con il sacrificio
di noi stessi se fosse necessario, perché se non c'è un motivo
per cui morire, non c'è nemmeno un motivo per cui vivere.
3. Qui si apre tutto il problema educativo. Educare alla pace e educare alla
vita, è educare al principio di realtà, è educare al senso
delle cose e degli avvenimenti, è educare alla testimonianza cristiana,
è educare all'umano, a tutto l'umano, senza strabismi, senza indebite
selezioni, senza sbilanciamenti che provocherebbero danni immensi nella costruzione
di una personalità cristiana. Per questa educazione integrale bisogna
partire da una concezione alta della persona umana: oserei dire da una concezione,
prima ancora che etica, metafisica della persona umana. Questa espressione mi
ha richiamato quanto il giovane arcivescovo di Cracovia, card. Wojtyla, scriveva
a p. Henry de Lubac, mentre portava a termine la prima stesura di "Persona
e atto":
"Dedico i rarissimi momenti liberi a un lavoro vicino al mio cuore e
consacrato al senso e mistero metafisico della Persona. Il male dei nostri tempi
consiste in primo luogo in una sorta di degradazione, anzi in una polverizzazione
della fondamentale unicità di ogni persona umana. Questo male è
molto più di ordine metafisico che di ordine morale. A tale disintegrazione
a volte pianificata da ideologie ateistiche dobbiamo opporre, piuttosto che
sterili polemiche, una sorta di 'ricapitolazione' dell'inviolabile mistero della
persona".
Il tema della pace non va dunque isolato da una concezione globale della vita,
quale è offerta dal Vangelo di Cristo, da tutta la ininterrotta testimonianza
dei santi, della predicazione del magistero della Chiesa, degli scritti dei
dottori e dei teologi e dell'apporto della riflessione filosofica. Scriveva
Paolo VI nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"Dobbiamo oggi difendere la Pace sotto il suo aspetto, potremmo dire
metafisico, anteriore e superiore a quello storico e contingente della pausa
militare e della esteriore tranquillitas ordinis; vogliamo considerare la causa
della Pace rispecchiata in quella della vita umana stessa. Il nostro "sì"
alla Pace si allarga ad un "sì" alla vita. La Pace deve affermarsi
non soltanto sui campi di battaglia, ma dovunque si svolge l'esistenza dell'uomo.
Vi è, anzi vi deve essere anche una Pace che tutela questa esistenza
non solo dalle minacce delle armi belliche, ma una Pace altresì che protegge
la vita in quanto tale, contro ogni pericolo, ogni malanno, ogni insidia".
Sul piano educativo è fondamentale ribadire che l'esperienza cristiana
non è mai utopia, ma speranza. Utopia è, etimologicamente, il
"non luogo", ossia è ciò che non solo non esiste di
fatto, ma non può esistere nemmeno di diritto. L'utopia - presa in questo
senso e non semplicemente presa nel fascino linguistico che il termine può
assumere quando fosse utilizzato come principio critico della situazione esistente
- è un'astrazione. E l'astrazione è lontana mille miglia dall'esperienza
cristiana, che invece è contrassegnata dalla virtù della speranza:
una speranza fondata su un avvenimento realmente accaduto, quello del Verbo
che si è fatto carne. Nella storia umana agisce, come germe di salvezza,
la forza redentrice di Cristo risorto, che non elimina dolore, sofferenza e
morte dalla nostra condizione umana (non siamo ancora nell'Eden), ma conferisce
al buio e alle tribolazioni della vita un senso salvifico insperato e trascendente.
Questo fa la differenza fra utopia e speranza, fra una concezione che idealizza
la realtà e il cristianesimo che incarna un ideale. Mi sembra un dato
che derivi dalla stessa incarnazione del Verbo che nella storia ci sia il male
e dunque ci siano anche le violenze e le guerre. Ma proprio per questo c'è
bisogno di un Salvatore e di una Salvezza che non siano generati da questo mondo.
Il processo educativo non si può staccare dal principio di realtà,
ma lo assume pienamente con la forza del vangelo. E' quanto ha dichiarato
Paolo VI nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 gennaio 1978:
"La pace non è sogno puramente ideale, non è un'utopia
attraente, ma infeconda e irraggiungibile; è, e deve essere, una realtà;
una realtà mobile e da generare ad ogni stagione della civiltà
[
]. Come non è la Pace uno stato di atarassia pubblica, in cui
chi ne gode è dispensato da ogni cura e difeso da ogni disturbo, e può
concedersi una beatitudine stabile e tranquilla, che più sa di inerzia
e di edonismo, che non di vigore vigilante ed operoso".
4. Il problema della pace, che in questi ultimi decenni è stato oggetto di un sempre maggiore interesse da parte del magistero della Chiesa, è strettamente legato alla tutela e alla promozione dei diritti e dei corrispondenti doveri fondamentali della persona. I papi più recenti non si sono infatti limitati a gridare un chiaro no alla guerra (da Benedetto XV: "inutile strage", a Pio XII: "Niente è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra", a Paolo VI nel suo celebre discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965: "Jamais plus la guerre!; ai numerosi interventi di Giovanni Paolo II, fra cui quello del 1991;"la guerra è un'avventura senza ritorno"; e l'ultimo del 23 febbraio scorso: "Mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell'umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra"), ma hanno sempre accompagnato il no alla guerra con un sì alla promozione dei diritti fondamentali dell'uomo. Qui si innesta il ricco insegnamento del Concilio Vaticano II, della Pacem in terris di Giovanni XXIII, della Populorum Progressio di Paolo VI e delle encicliche e dell'insegnamento sociale di Giovanni Paolo II. Quali sono i cardini di tale insegnamento? Qualche rapido cenno.
a. Il Vaticano II nella Gaudium et spes:
"La pace non è la semplice assenza della guerra, né può
ridursi al solo rendere stabile l'equilibrio delle forze contrastanti, né
è l'effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza
definita 'opera della giustizia' (n. 78).
La pace è frutto dell'ordine stabilito da Dio. E' tutta l'impostazione
architettonica della Pacem in terris, che ha al centro non un discorso moralistico
e predicatorio sulla pace, bensì la persona umana "soggetta di
diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla
sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili
e inalienabili" (n. 5), il primo dei quali è il diritto all'esistenza.
Tutta la struttura dell'enciclica non è, paradossalmente, sulla pace,
bensì su ciò che solamente la può concretamente costruire
e assicurare, ossia sui diritti e sui doveri da rispettare, a livello personale,
comunitario, fra gli Stati e le nazioni. In modo particolare torna nell'intero
documento l'impalcatura dei 4 pilastri - ripresi da Giovanni Paolo II nell'ultimo
messaggio per la Giornata della Pace - sui quali fondare una pacifica convivenza:
verità, giustizia, libertà, solidarietà.
b. Questi diritti fondamentali simul stabunti simul cadunt, ossia stanno insieme
o cadono insieme. Lo ha ripetuto con forza Giovanni Paolo II nel Messaggio per
la Pace del 1999:
"Nessun diritto umano è sicuro, se non ci si impegna a tutelarli
tutti. Quando si accetta senza reagire la violazione di uno qualsiasi dei diritti
fondamentali, si pongono a rischio tutti gli altri. E' indispensabile pertanto
un approccio globale al tema dei diritti umani e un serio impegno a loro difesa"
(n. 12).
c. Fra questi diritti fondamentali, i due ultimi Papi hanno fortemente sottolineato - in aperta e dichiarata connessione al tema della pace - almeno tre piste: la giustizia sociale, la difesa della vita umana, la ricerca della verità.
La prima pista è esposta in innumerevoli documenti, i quali tutti dicono
una cosa per sé ovvia: la pace è minacciata quando permangono
situazioni di ingiustizia, di sperequazione, di violenza, di terrorismo e di
guerra. Ad es. scrive Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace del 1993:
"Si afferma e diventa sempre più grave nel mondo un'altra seria
minaccia per la pace: molte persone, anzi intere popolazioni vivono oggi in
condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri
s'è fatta più evidente anche nelle nazioni economicamente più
sviluppate. Si tratta di un problema che si impone alla coscienza dell'umanità,
giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali
da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente,
l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale" (n.
1)
Questa connessione è fortemente avvertita e compresa ed ha il consenso
pressoché unanime della pubblica opinione e della cultura di massa.
L'altra pista - ossia la connessione fra pace e difesa della vita - non ha
le stesse simpatie, anzi sembra quasi rimossa e occultata non solo nel mondo
laicista, ma perfino in qualche frangia del mondo cattolico, che mostra di essere
infastidita da tale connessione e, pur affermando la negatività dell'aborto,
non sempre lo mette in relazione alla tematica della pace. Eppure tale correlazione
è fortemente sottolineata nell'insegnamento del magistero della Chiesa,
e non solo - come spesso capita di sentire in cattolici non bene informati -
nel magistero di questo papa, ma anche in quello dei predecessori. Ad es. Paolo
VI, nel Messaggio per la pace del 1977:
"Non è solo la guerra che uccide la Pace. Ogni delitto contro
la Vita è un attentato contro la Pace, specialmente se esso intacca il
costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora legale facilità
la soppressione della Vita nascente, con l'aborto. [
] La soppressione
di una Vita nascitura, o già venuta alla luce, viola innanzi tutto il
principio morale sacrosanto, a cui sempre la concezione dell'umana esistenza
deve riferirsi: la Vita umana è sacra fin dal primo momento del suo concepimento
e fino all'ultimo istante della sua sopravvivenza naturale nel tempo. E' sacra:
che vuol dire? Vuol dire che essa è sottratta a qualsiasi arbitrario
potere soppressivo; è intangibile, è degna di ogni rispetto, d'ogni
cura, d'ogni doveroso sacrificio.[
] Se vogliamo che l'ordine sociale progrediente
si regga sopra i principii intangibili, non offendiamolo nel cuore del suo essenziale
sistema: il rispetto alla vita umana. Anche sotto questo aspetto Pace e Vita
sono solidali alla base dell'ordine e della civiltà".
Giovanni Paolo II ha innumerevoli passi su questo tema. Mi ha sempre colpito
un suo intervento all'Angelus del 5 aprile 1981, per la qualità profetica
di quelle sue lontane dichiarazioni:
"Se si concede diritto di cittadinanza all'uccisione dell'uomo, quando
è ancora nel seno della madre, allora ci si immette per ciò stesso
sulla china di incalcolabili conseguenze di natura morale. Se è lecito
togliere la vita ad un essere umano, quando esso è più debole,
totalmente dipendente dalla madre, dai genitori, dall'ambito delle coscienze
umane, allora si uccide non soltanto un uomo innocente, ma anche le stesse coscienze.
[
] Se accettassimo il diritto di togliere il dono della vita all'uomo
non ancora nato, riusciremmo poi a difendere il diritto dell'uomo alla vita
in ogni altra situazione? Riusciremmo a fermare il processo di distruzione delle
coscienze umane?".
La terza pista è quella della ricerca della verità. E' la verità
"la forza pacifica e possente della pace, poiché si comunica
per irraggiamento suo proprio, al di fuori di ogni costrizione" (Giovanni
Paolo II, Messaggio per la pace 1980). Anche questo tema - il rapporto fra pace
e verità, già enunciato nella Pacem in terris - non ha molta fortuna
nella considerazione della cultura dominante, oggi fortemente influenzata dal
c.d. pensiero debole, che taccia perfino di fondamentalismo, di intolleranza
e di attentato alla democrazia chi si sente portatore di una identità
veritativa. Come se un'autentica vita democratica potesse fondarsi e svilupparsi
solo su una visione scettica dell'esistenza, o peggio ancora sulla menzogna,
tipica dei regimi totalitari. C'è una limpida e forte espressione di
Giovanni Paolo II, che si trova nella Centesimus Annus (1991) ed è stata
ripetuta anche nella visita al Parlamento italiano il 14 novembre scorso, circa
il rischio di una alleanza fra democrazia e relativismo etico: "Se non
esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica,
allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per
fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo
aperto oppure subdolo, come dimostra la storia" (n. 46). Questo non
significa cadere nel fondamentalismo, perché la verità, essendo
basata sulla dignità trascendente della persona umana, ha come suo metodo
il rispetto della libertà.
Quello della verità è un compito e un orizzonte quanto mai attuali
nella nostra società, soprattutto per quanto attiene ad es. l'istruzione
scolastica e l'educazione che ai giovani viene data nei nostri oratori e nelle
nostre parrocchie. Senza una preoccupazione orientata in senso veritativo, le
persone - diventando massa da manipolare - sono facile preda dell'egemonia culturale
di moda. L'opinione pubblica manipolata crea a sua volta movimenti che rischiano
di rimanere effimeri, perché privano le persone della capacità
di pensare con la propria testa: sola la verità è liberante. E
solo la verità può essere la forza della pace. Giovanni Paolo
II dedica tutto il messaggio della pace del 1980 a questo tema. Sostanzialmente
afferma che le non-verità e le menzogne sono alla base della violenza
e dunque costituiscono una minaccia alla pace. Scrive ad es.:
"La violenza si radica nella menzogna e ha bisogno della menzogna, nel
tentativo di assicurasi una rispettabilità dinanzi all'opinione mondiale
mediante giustificazioni del tutto estranee alla sua natura e, del resto, spesso
tra loro contraddittorie. Che dire della pratica di imporre a coloro che non
condividono le proprie posizioni - per meglio combatterli o ridurli al silenzio
- l'etichetta di nemici, attribuendo loro intenzioni ostili, stigmatizzandoli
come aggressori mediante una propaganda abile e costante? [
] Accuse selettive,
insinuazioni perfide, manipolazione delle informazioni, discredito gettato sistematicamente
contro l'avversario - contro la sua persona, le sue intenzioni, i suoi atti
-, ricatto e intimidazione: ecco il disprezzo della verità, messo in
atto per creare un clima di incertezza, nel quale si vogliono costringere le
persone, i gruppi, i governi, le stesse istanze internazionali a silenzi rassegnati
e complici, a compromessi parziali, a reazioni irrazionali: tutti atteggiamenti
egualmente suscettibili di favorire il gioco omicida della violenza e di contrastare
la causa della pace" (n. 1).
Quanto la comunità cristiana, e non solo, sia chiamata oggi a far fronte
a questo "disorientamento veritativo" (è anche esso
una delle povertà e delle insipienze dei nostri giorni), è sotto
gli occhi di tutti. Le nostre stesse parrocchie, che rischiano di diventare
sempre più dei centri di servizi ricreativi e sociali, oltre che di servizi
religiosi, a fatica oggi riescono ad esprimere una posizione cristiana dotata
di dignità culturale e quindi delle personalità cristiane in grado
di dialogare con qualunque posizione culturale e religiosa senza accomodamenti
o riduzionismi.
5. Altri temi sono da trattare, fra cui il rapporto fra diritto internazionale
e diritto dei singoli Stati; o il problema dell'azione militare come estremo
rimedio per la legittima difesa; o il problema del terrorismo, definito da Giovanni
Paolo II "un vero crimine contro l'umanità" (Messaggio
per la Pace del 2002): problema che impone nuove riflessioni sul tema dei mezzi
adatti per farvi fronte; o le missioni di pace, richieste per particolari situazioni;
o il diritto di intervento umanitario per impedire la vittoria della violenza
e della guerra civile; o la sicurezza dei cittadini, che richiede anche il ricorso
alle forze dell'ordine.
Sulla legittima difesa conosciamo la posizione del Catechismo della Chiesa cattolica:
"si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano
una legittima difesa con la forza militare" (n. 2309). Le condizioni
sono: che il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave e certo; che
tutte le altre strade si siano rivelate impraticabili; che ci siano fondate
condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi danni più
gravi, tenuto conto oggi anche del peso dei moderni mezzi di distruzione. La
valutazione di tali criteri spetta a coloro che hanno la responsabilità
del bene comune. Anche l'azione difensiva, comunque, va vista nell'ottica della
pace come risposta, anche faticosa e rischiosa (non solo per chi è portatore
di aggressione, ma anche per chi la subisce) al dilagare della violenza.
Giovanni Paolo II ha coniato l'espressione "ingerenza umanitaria"
nel Messaggio per la pace del 2000:
"Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi
di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli
strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi
con iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Queste tuttavia devono essere
circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto
del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello
soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi"
(n. 11).
La deplorazione della guerra è andata, per fortuna, crescendo nel nostro
tempo, contro la retorica bellicista che ha accompagnato la storia dell'umanità.
Ogni evento bellico è sempre un annebbiamento del Vangelo e una sconfitta
per l'uomo. Da cristiani, siamo chiamati a dare il nostro originale, insostituibile
e prezioso contributo affinché il bene della pace sia salvaguardato,
custodito e promosso a tutti i livelli. La pace universale comincia dal nostro
cuore e dal serio impegno di ciascuno di noi nelle nostre concrete comunità
ecclesiali e civili a favore dei diritti fondamentali della persona. E' in questa
luce che voglio concludere con quanto scriveva Paolo VI proprio nel primo Messaggio
per la Giornata della Pace (1968):
" Sarà da auspicare che la esaltazione dell'ideale della pace
non debba favorire l'ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio
del proprio Paese e dei propri fratelli quando questi sono impegnati nella difesa
della giustizia e della liebertà, ma cercano solamente la fuga delle
responsabilità, dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri
e di imprese generose. Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione
vile e pigra della vita, ma proclama i più alti ed universali valori
della vita: la verità, la giustizia, la libertà e l'amore".
Mi pare che questo sia il senso alto dell'impegno per la pace, anche quando
tale impegno risultasse oneroso e scomodo per la tranquillità della nostra
vita.
Don Alberto Franzini
Centro Culturale S. Omobono,
14 marzo 2003,
Cremona, Centro Pastorale Diocesano