Scriveva qualche anno fa il card. Biffi: "La cultura oggi dominante censura implacabilmente l'idea stessa della morte. Si possono violare tutti i tabù, ma non questo: è un argomento che non può neppure essere sfiorato nei discorsi delle persone che sanno vivere. E si direbbe che anche noi ci siamo lasciati tutti intimidire da questa interdizione sociologica: una seria riflessione sulla morte non ha quasi più posto nella nostra predicazione".
In questi giorni di preghiera per i defunti, i nostri cimiteri tracimano di fiori e di lumini. Tante persone fanno celebrare le messe in suffragio per i defunti. Ma se tutti questi gesti non sono accompagnati da una "seria riflessione sulla morte", si corre il rischio dell'abitudinarietà, che non fa crescere il nostro camminare umano verso un traguardo che riguarda tutte le persone e tutta la persona, ma semplicemente lo romuove e lo occulta relegandolo in un angolo dell'esistenza. La spiritualità cristiana della grande tradizione della Chiesa ha sempre tenuta viva la "memoria mortis", anche se oggi, come ricordava il card. Biffi, assistiamo a un certo silenzio sulla morte nella stessa predicazione ecclesiale.
In realtà, l'intera esistenza del cristiano è attraversata dal mistero della morte, a partire dal battesimo - che è immersione nella morte di Gesù - fino al momento conclusivo, quando la morte è chiamata a diventare un atto consapevole, ossia una scelta di obbedienza e di abbandono amoroso a quel Dio che ci ha creati e redenti, e non semplice accadimento da subire. Così infatti è avvenuto nella vita di Gesù. La morte di Gesù non è stata una bella morte dal punto di vista umano: l'evangelista Marco mette in evidenza il grido straziante di Gesù sulla croce. M apoiché Dio ha accolto la morte del suo Figlio e l'ha trasformata in vita e salvezza per il mondo intero, quella morte - nella riflessione dell'evangelista Giovanni - viene descritta come la manifestazione suprema dell'amore di Cristo per tutti: "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). La morte, da potenza distruttrice, diventa in Gesù l'atto supremo dell'amore e la celebrazione della vita, e della vita eterna. Ecco perché, sempre nel vangelo di Giovanni, Gesù sulla croce grida: "Tutto è compiuto!" (19,30). La morte come compimento della vita, non come distruzione della vita! La morte come passaggio alla comunione piena e definitiva con Dio.
Questo non elimina la paura della morte. Dire che la morte è un atto di obbedienza e di amore a Dio non significa che di essa non si debba aver paura e angoscia. La Scrittura testimonia nei salmi e nella stessa esistenza di Gesù che la morte non è un evento che lasci impassibili. Né l'impassibilità stoica, né l'impassibilità orientale fanno parte dell'esperienza cristiana. Ma è altrettanto vero che la Scrittura ci consegna un altro modo di vedere e di affrontare la morte: essa non è solo segno e conseguenza del peccato, ma è anche un itinerario verso il Padre, è pasqua, ossia passaggio ad una pienezza di vita che quaggiù può essere solo sognata e desiderata. Solo l'avvenimento della risurrezione di Gesù può affrancare l'uomo dalla invalicabile assurdità della morte.
Da qui la lezione che ci viene dalla fede: prepararsi a morire vuol dire non certo accartocciarsi su se stessi per entrare in un dolorismo tragico, bensì vegliare sui nostri comportamenti e sulle nostre scelte, perché la nostra vita, così come si snocciola nella ferialit` dei nostri giorni, sia una vita di obbedienza a Dio e di amore ai fratelli, al cosmo, all'intera creazione.
"Forte come la morte è l'amore": così si esprime l'amata del Cantico dei Cantici (8,6). Morire d'amore: così è avvenuto in Gesù, così deve avvenire in ogni suo discepolo.