ALBERTO FRANZINI

LA CADUTA
DEL MURO DI BERLINO
Il contributo di Giovanni Paolo II


Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2009
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In occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 189), il PDL di Cremona ha promosso un incontro di carattere culturale per commemorare quell’evento che segnò una svolta nella guerra fredda tra Occidente ed Oriente europei. Se i protagonisti di quell’evento furono tanti, un posto rilevante spetta ai testimoni di quella “Chiesa del silenzio” dal cui seno è uscito, provvidenzialmente, l’arcivescovo di Cracovia, il cardinale Karol Wojtyla, eletto Papa il 16 ottobre 1978. Quel Papa finalmente potè parlare. E la sua parola fu decisiva per capire tutto quanto successe prima e dopo gli avvenimenti del 1989.
Al sottoscritto è stato affidato il non facile compito di illustrare il contributo del Papa polacco alla caduta del Muro di Berlino. Qui viene pubblicata la mia relazione tenuta a Cremona il 9 novembre 2009, presso la sala Zanoni, in Via del Vecchio Passeggio 1.
Don Alberto Franzini

Casalmaggiore, 9 novembre 2009
Festa liturgica della Dedicazione della Basilica Lateranense


Il giudizio sul 1989 nella Centesimus Annus (1991)

E’ davvero imponente il contributo della Chiesa, di tanti vescovi e sacerdoti, di tanti cristiani laici non solo alla caduta del muro di Berlino nel novembre 1989, ma anche al crollo di un impero – quello sovietico e quello del Patto di Varsavia – e di un totalitarismo, quello del sistema comunista, che sembravano incrollabili e che, insieme al breve ma tragico totalitarismo nazista, ha imbarbarito e insanguinato l’Europa nel secolo scorso. Imponente, poi, appare il contributo specifico di Karol Wojtyla, prima come arcivescovo di Cracovia, e poi come Papa.
Nell’enciclica Centesimus Annus, del 1991 (centenario della Rerum Novarum, dei Leone XIII), Giovanni Paolo II ha il coraggio di affrontare, a poco meno due anni di distanza, l’interpretazione degli avvenimenti del 1989. E inizia con l’affermare che “un contributo importante, anzi decisivo, ha dato l’impegno della Chiesa per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo: in ambienti fortemente ideologizzati, in cui lo schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune dignità umana, la Chiesa ha affermato con semplicità ed energia che ogni uomo – quali che siano le sue convinzioni personali – porta in sé l’immagine di Dio e, quindi, merita rispetto. In tale affermazione si è spesso riconosciuta la grande maggioranza del popolo, e ciò ha portato alla ricerca di forme di lotta e di soluzioni politiche più rispettose della dignità della persona” (n.22). Il cuore dell’antropologia cristiana – ossia l’uomo immagine di Dio – è anche il cuore della riflessione antropologica che ha accompagnato l’intero cammino esistenziale e pastorale di K. Wojtyla, che ha sempre visto nella cultura il motore di ogni identità personale e nazionale e di ogni sviluppo e rinnovamento dell’uomo. “La cultura – ebbe a dire Papa Wojtyla nel celebre discorso all’Unesco (Parigi, 2 giugno 1980) - è ciò per cui l'uomo in quanto uomo diventa più uomo, «è» di più, accede di più all'«essere». E' qui anche che si fonda la distinzione capitale fra ciò che l'uomo è e ciò che egli ha, fra l'essere e l'avere”. E nell’enciclica sopra citata, il Papa scrive che “al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio”, tanto che “quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle nazioni” (n. 24). Il Papa propone da subito la sua diagnosi circa gli avvenimenti del 1989, quando intravede non tanto nella crisi economica e politica, ma nel “vuoto spirituale, provocato dall’ateismo” la radice di ciò che è successo nel’Europa dell’Est. Paradossalmente, quel “vuoto spirituale”, che ha lasciato prive di orientamento le giovani generazioni, le ha anche “indotte, nell’insopprimibile ricerca della propria identità e del senso della vita, a riscoprire le radici religiose della cultura delle loro nazioni e la stessa persona di Cristo, come risposta esistenzialmente adeguata al desiderio di bene, di verità e di vita che è nel cuore di ogni uomo”(n. 24). Non si è trattato solo di una ricerca intellettuale, di un percorso spirituale: bensì di una vicenda che ha visto sofferenze e persecuzioni verso coloro che sono rimasti fedeli a Dio. Sta esattamente qui il fallimento del marxismo, secondo il Papa: “il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirvi senza sconvolgere il cuore” (n. 24). Qui sta il nocciolo di quanto è avvenuto nel secolo scorso, il secolo che ha visto prima trionfanti e poi sconfitte le “ideologie del male”, come le chiama Giovanni Paolo II nel libro Memoria e identità (Rizzoli 2005).

La prima visita del Papa in Polonia

Questo lucido e coraggioso giudizio di Papa Wojtyla ha una lunga storia. Al futuro Papa è toccata in sorte un’esistenza carica di eventi, dove, insieme alla vista di un male crescente – che per lui e per il popolo polacco era costituito prima dall’invasione nazista e poi dalla lunga dominazione comunista – gli è stata rivelata l’esperienza cristiana come esperienza di misericordia, di verità e di libertà dentro agli avvenimenti della storia, e non semplicemente come avvenimenti interiori. Questa è la personalità di Wojtyla: egli è sì un mistico, ma un mistico cristiano, che, a causa della realtà di Cristo, che tutto pervade, vive la propria esperienza spirituale non al di fuori o accanto o contro la storia, ma al contrario dentro lo spessore degli avvenimenti storici, in cui si costruisce il corpo di Cristo.
Il primo segnale che la storia stava cambiando fu proprio la prima delle nove visite che Giovanni Paolo II compì nella sua Polonia. Quando il Papa entrò a Varsavia il 2 giugno 1979, il suo ingresso fu un trionfo. La capitale, ricostruita dopo la le distruzioni della guerra, era una città cupa, ingrigita, dominata dal Palazzo della Cultura in stile comunista-barocco, dono di Stalin. La città, con l’arrivo del Papa, aveva cambiato volto. La folla, esultante, lanciava fiori e si abbandonava al canto. L’omelia tenuta a Varsavia forse rimane la più importante del suo pontificato. Lì ribadì che “non si può escludere Cristo dalla storia dell’uomo in qualsiasi parte del globo. L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo è un atto contro l’uomo. Senza di lui non è possibile capire la storia della Polonia, e soprattutto quella degli uomini che sono passati, o passano per questa terra”. A Varsavia proseguiva e attualizzava il primo grido del suo pontificato in piazza San Pietro, il giorno dell’inizio del suo ministero papale (22 ottobre 1978): “Non abbiate paura! Aprite, spalancate le porte a Cristo. Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura. Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo Lui lo sa!”. A Varsavia quel grido appariva ancor più coraggioso che a Roma. D’un tratto si capì che si voltava pagina. Appariva d’un colpo superata l’antica prudenza di una Chiesa che, con la Ostpolitik vaticana di Paolo VI, tentava, attraverso le vie sagge della diplomazia, di tenere in vita e di difendere quel che restava del popolo cristiano delle democrazie socialiste, di fronte ad un impero che tutti consideravano ancora solido e carico di futuro. Quel futuro cominciava a sgretolarsi. C’erano state le sofferte testimonianze di cardinali, vescovi, preti e laici della “Chiesa del silenzio”: una Chiesa confessante, che aveva preparato, forse proprio perché fedele nella persecuzione, lo sgretolamento dell’”impero del male”, ma che al Concilio Vaticano II non aveva potuto far sentire la propria voce, anche perché impedita dalle autorità comuniste e forse non del tutto capita e amata dalla Chiesa occidentale, alle prese con la modernità e la secolarizzazione. La “Chiesa del silenzio” è uscita allo scoperto e si è imposta anche alla Chiesa universale, oltre che al mondo intero, proprio con il Papa slavo “venuto di lontano”.
La Ostpolitik era già, comunque, stata messa alla prova dal desiderio vivo di Paolo VI di prendere parte nel 1966 alle celebrazioni del millennio della Polonia cristiana. Ma il regime – non formalmente, ma ponendo condizioni inaccettabili – di fatto impedì il viaggio di Paolo VI. Giovanni Paolo II dichiarò esplicitamente nella sua omelia a Varsavia che questo Papa polacco aveva “capito immediatamente”, alla sua elezione, di essere stato chiamato a compiere quello che “Paolo VI non aveva potuto realizzare nel millennio del battesimo della Polonia”.
Con Giovanni Paolo II nasce un nuovo modello di diplomazia papale, totalmente fondato s una visione non diplomatica della storia (rapporto tra poteri e istituzioni), ma totalmente fondata su Cristo: “Cristo non cessi – disse ancora a Varsavia – di essere per noi libro aperto della vita per il futuro”.

La “nuova diplomazia” di Giovanni Paolo II e la sua interpretazione teologica della storia

Dal punto di vista filosofico, Wojtyla era un “realista”, ossia un convinto discepolo del pensiero di San Tommaso, che era una filosofia dell’”essere”: la realtà va concepita come un “essere partecipato”, al cui fondamento sta l’Essere sussistente che è Dio. In tal modo, la mente umana è in grado di afferrare la verità delle cose ed è in grado di esporla in modo coerente. Ma il suo “realismo filosofico” non corrispondeva affatto a una “concezione realista” delle relazioni internazionali (a tale concezione si ispirava anche la Ostpolitik). Egli rifiutava l’idea che il potere militare, economico e politico potesse essere il motore della storia: ecco perché rifiutava di scendere a compromessi su questi piani.
Egli rifiutava tale concezione anzitutto come cristiano, perché, convinto che è il Vangelo a rivelare la verità sull’uomo e sul suo destino, riteneva che è Dio a presiedere la storia e che pertanto la Chiesa fosse singolarmente libera di agire nella storia.
Egli la rifiutava anche come polacco, perché aveva molto riflettuto sul fatto che la nazione polacca aveva conservato la propria identità e dunque era potuta sopravvivere anche quando lo Stato polacco aveva cessato di esistere e anche quando l’apparato statale era diventato straniero, se non nemico, del popolo polacco. Ancora una volta Karol Wojtyla era arrivato a concludere che a muovere la storia, soprattutto nel lungo periodo, è la cultura. I realisti, nel senso diplomatico, avevano torto: non che il potere militare e politico non contassero, ma la cultura contava molto di più. E il cuore della cultura, per il Papa polacco, è la religione. La dimensione culturale costituiva anche un superamento dell’epoca costantiniana, che fondamentalmente portava a configurare il rapporto fra la Chiesa e gli Stati come rapporto fra due potenze di tipo istituzionale e politico. Questo non significava che la Chiesa dovesse rientrare nelle catacombe, come nell’epoca precostantiniana. La Chiesa, nella visione di Wojtyla, è la custode e la testimone di alcune verità essenziali sulla condizione umana, verità che non potevano non avere riflessi e conseguenze anche sul piano pubblico. La Chiesa non rinunciava all’impegno diplomatico, in quanto realtà anche di questo mondo: ma la Chiesa si doveva confrontare col mondo soprattutto sul piano culturale. Questo voleva dire assumere apertamente la difesa e la promozione dei fondamentali diritti umani. Il nuovo stile della Chiesa postcostantiniana, concepita anche dal Vaticano II, non era certo il rifugio nell’intimità delle coscienze o nel perimetro delle sagrestie, ma doveva configurarsi come testimonianza della verità circa la dignità e i diritti inalienabili della persona, a partire dal suo fondamento, che è il diritto alla libertà religiosa, concepita come la libertà di adorare Dio e di dare a Dio il posto che merita anche nella sfera pubblica, sulla base di un antropologia integrale, ben lontana da ogni sua riduzione agnostica, laicistica e secolaristica.
In tal modo la caduta del muro di Berlino, prima che avvenimento storico-politico, o meglio dentro all’avvenimento storico-politico, viene interpretato da Giovanni Paolo II come avvenimento storico-spirituale, in quanto fu causato non certo da una rivoluzione armata e violenta, ma neppure da una rivoluzione pacificamente politica, bensì fu il frutto di un processo culturale e spirituale che, partito dalla Polonia nel primo viaggio papale, si estese poi anche a tutti gli Stati “democratici” dell’Est, fino al crollo dell’Unione Sovietica. Si può dire che Karol Wojtyla scelse decisamente un’interpretazione teologica per accostarsi compiutamente al senso delle vicende storiche. Per lui, il dramma della storia come storia della salvezza, che vede all’opera il dialogo fra Dio e l’uomo che si è compiuto in Cristo, con l’illuminismo era sparito. “L’uomo – questo il preciso pensiero del Papa – era rimasto solo: solo come creatore della propria storia e della propria civiltà; solo come colui che decide di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, come colui che esisterebbe ‘etsi Deus non daretur’, anche se Dio non ci fosse” (Memoria e identità, cit. p. 21). Ma se se l’uomo può decidere da solo ciò che è bene e ciò che è male, se Dio sparisce – è un celebre pensiero anche di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov – diventa lecito anche uccidere, e “l’uomo può anche disporre che un gruppo di uomini debba essere annientato” (ibid., pp. 21-22). E il Papa, nel suo libro citato, riporta molti esempi di questa devastazione omicida, quando parla del Terzo Reich, dei contadini in Ucraina, del clero ortodosso e cattolico in Russia, ecc. Ma proprio l’interpretazione teologica della storia, accanto alla rilevazione delle radici del male, consente a Giovanni Paolo II di accogliere anche il bene, perché “colui che può porre un definitivo limite al male è Dio stesso”(ibid., p. 29). Solo una “teologia della storia” è in grado di cogliere in profondità quanto accade, di male ma anche di bene, nella consapevolezza che Dio può trarre il bene anche dal male. Scrive Giovanni Paolo II: “Potrebbe sembrare che il male dei campi di concentramento, delle camere a gas, della crudeltà di certi interventi di polizia, infine della guerra totale e dei sistemi basati sulla prepotenza […] fosse più potente di ogni bene. Se, tuttavia, guardiamo con occhio più penetrante la storia dei popoli e delle nazioni che hanno attraversato la prova dei sistemi totalitari e delle persecuzioni a causa della fede,scopriremo che proprio lì si è rivelata con chiarezza la presenza vittoriosa della croce di Cristo” (ibid., pp. 31-32).
La testimonianza del Papa, a partire dal suo primo viaggio in Polonia, fu uno stimolo al rinnovamento morale e spirituale. Giovanni Paolo II lanciò una sfida, ma senza mai umiliare gli avversari. Per lui, il primo avversario non era il comunismo, ma la letargia dei polacchi, che aveva permesso, attraverso un consenso tacito sia pure imposto da un regime, che un governo alieno continuasse ad amministrare il Paese. La predicazione del Papa rinnovò le forze spirituali e identitarie della Polonia. E questo permise il graduale svuotamento, il progressivo sfinimento del regime alieno, e la nascita di Solidarnosc, con tutto quello che il sindacato rappresentò e con tutto quello che ne seguì. La rivoluzione morale, avviata nel 1979, aveva posto le basi per una successiva rivoluzione anche sociale e politica, senza che le motivazioni della prima venissero meno: e sarà proprio la continua necessità del rinnovamento morale ad essere oggetto della predicazione di Papa Wojtyla nei successivi viaggi in Polonia, quando il quadro politico era ormai mutato e quando altri problemi e altre sfide si affacciarono all’orizzonte.
Già nel 1970, nel ricevere il premio Nobel, un altro grande oppositore del comunismo nel mondo slavo, Alexander Solzenicyn, aveva affermato che nel mondo comunista la cultura della menzogna e della violenza erano strettamente intrecciate: solo liberandosi dalla prima, sarebbe venuta meno anche la seconda. Giovanni Paolo II, nel giugno 1979, cominciando a dissipare la menzogna, aveva creato le basi per mettere a nudo il vuoto del sistema comunista e per sconfiggere, senza violenza, la logica della violenza.

Il Discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo (11 ottobre 1988)

Per comprendere ulteriormente il pensiero del Papa sugli avvenimenti del 1989, è interessante riscoprire quel che Giovanni Paolo II disse nel suo discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo (11 ottobre 1988). Il Papa aveva davanti i rappresentanti dell’Europa: ma di quale Europa? Di un’Europa ancora divisa dal tempo degli accordi di Yalta (febbraio 1944), una divisione di cui il muro di Berlino era uno dei simboli più eloquenti. Il Papa non aveva mai accettato questa divisione, ritenuta innaturale sul piano storico e culturale, di un’Europa occidentale e di un’Europa orientale. La storia europea, disse il Papa a Strasburgo, includeva il cristianesimo, che “ha profondamente segnato la storia di tutti i popoli nella nostra unica Europa, greci e latini, tedeschi e slavi”. Era la riproposizione di quella felice espressione dell’”Europa a due polmoni” che Giovanni Paolo II ha spesso usato parlando dell’Europa e della Chiesa in Europa. La precisa meglio nel 1989, in un discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, laddove afferma: “Di fronte a questa realtà europea, appare con evidenza quanto i ‘blocchi’ sono stati artificiosi e innaturali. Io stesso ho spesso parlato dei due polmoni – l’Oriente e l’Occidente – senza i quali l’Europa non potrebbe respirare. Ed anche in futuro non ci sarà un’Europa pacifica ed irradiatrice di civiltà senza questa osmosi e questa partecipazione di valori, differenti eppure complementari”. Leggendo tra le righe questa metafora, si può comprendere come tutti i discorsi del Papa riguardo all’Europa (che superano abbondantemente il migliaio) abbiano la stessa chiave di lettura, che permette di precisare l’identità dell’Europa dal punto di vista geografico, politico e culturale.
A Strasburgo il Papa torna a insistere sulla cultura come fattore di unità e di sviluppo dell’Europa. Tutte le culture presenti in Europa vengono da lui considerate come altrettanti sforzi per confrontarsi con il mistero della vita e del destino dell’uomo: il che sollevava, inevitabilmente, la questione di Dio. Il Papa afferma con chiarezza che solo l’identità culturale, prima ancora che le istituzioni politiche ed economiche, può “assicurare la coesione spirituale” dell’Europa, la sua anima più profonda. E senza mezzi termini, il Papa parla della “dimensione trascendente” della persona umana, circa la quale si sono andati costruendo in Europa due umanesimi opposti.
Il primo riconosce che “l’obbedienza a Dio è la sorgente della vera libertà, che non è mai libertà arbitraria e senza scopo, ma libertà per la verità e il bene, due grandezze che si situano sempre al di là della capacità degli uomini di appropriarsene completamente”. Questo vuol dire, sul piano etico, accettare “principi e norme di comportamento che si impongono alla ragione o derivano dal’autorità della Parola di Dio, di cui l’uomo, individualmente o collettivamente, non può disporre a suo piacimento, secondo l’arbitrio delle mode o dei propri mutevoli interessi”.
L’altro umanesimo nega la dimensione trascendente della persona umana, considera la religione come una alienazione, e concepisce la libertà come un’autonomia radicale dell’individuo. Ricordando la distinzione fra “ciò che di Cesare” e “ciò che è di Dio” (Mt 22,21), Giovanni Paolo II afferma “non è più possibile idolatrare la società come grandezza collettiva divoratrice della persona umana”. Affermando che in ogni anima c’è un santuario della coscienza in cui il potere politico non può entrare, il cristianesimo aveva liberato la politica dalla sua pretesa assolutista e totalitaria e costituisce un potente baluardo contro “i messianismi politici che sfociano spesso nelle peggiori tirannidi”. E continuava il Papa: “Tutte le correnti di pensiero del nostro vecchio continente dovrebbero riflettere su quali oscure prospettive potrebbe condurre l’esclusione di Dio dalla vita pubblica, di Dio come ultima istanza dell’etica e garanzia suprema contro tutti gli abusi del potere dell’uomo sull’uomo”. Certo, il Papa riconosce anche che la storia europea ha vissuto il pericolo opposto, quello dell’integralismo religioso, “praticato oggi in un’altra realtà”, che esclude dalla comunità politica coloro che praticano altre fedi. “Ma è da un’altra parte – dice il Papa – che, nei nostri tempi, sono venute le più gravi minacce, quando delle ideologia hanno assolutizzato la stessa società o un gruppo dominante, a detrimento della persona umana e della sua libertà”. E concluse: “Laddove l’uomo non si appoggia più su una grandezza che lo trascende, rischia di abbandonarsi al potere senza freno dell’arbitrio e degli pseudo-assolutismi che lo annientano”.
Ricordando, durante il 1989, il 50.mo anniversario dello scoppio della II guerra mondiale, Giovanni Paolo II ritorna sugli stessi temi, allorchè vede in certi settori della cultura europea, ben prima del 1939, la volontà di cancellare Dio dall’orizzonte dell’uomo. Il risultato di quella cancellazione fu la sostituzione con false religioni nella forma del paganesimo nazista e del dogma marxista, due “ideologie totalitarie, con una tendenza a divenire delle religioni sostitutive” (Lettera in occasione del 50.mo anniversario dell’inizio della II guerra mondiale, agosto 1989, n. 7).
Non va dimenticatala storica visita di Gorbaciov in Vaticano il 1 dicembre 1989, una visita che, con le successive riletture, fu interpretata come una vera capitolazione dell’umanesimo ateo.

Il Discorso al Corpo Diplomatico (13 gennaio 1990)

Il 13 gennaio 1990, durante il tradizionale incontro con il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II offrì una lettura “a caldo” degli eventi storici di quelle settimane. “La sete irreprimibile di libertà” aveva “fatto crollare i muri e aprire le porte”. Spesso, disse il Papa, il punto di partenza della rivoluzione del 1989 era stata una chiesa. Un po’ alla volta, “si sono accese candele per formare un vero cammino di luce, come per dire a coloro che per anni hanno preteso limitare gli orizzonti dell’uomo a questa terra, che egli non può rimanere indefinitamente incatenato”. Le grandi capitali di quelle nazioni, continuava il Papa, erano diventate “le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà”: una libertà resa possibile in ultima analisi dal fatto che “giovani, donne e uomini hanno vinto la paura”. Soprattutto, e qui torna il Wojtyla filosofo, “la persona umana ha manifestato le risorse inesauribili di dignità, di coraggio e di libertà che custodisce in sé”. Nei Paesi nei quali un partito unico ha dettato la verità in cui credere, “questi fratelli hanno dimostrato che non è possibile soffocare le libertà fondamentali che danno un senso alla vita dell’uomo: la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di espressione, di pluralismo politico e culturale”. E il Papa ribadisce che “quando l’uomo fa di sé la misura esclusiva di tutto, senza riferirsi a Colui dal quale tutto viene ad al quale questo mondo ritorna, egli diventa presto schiavo della propria finitudine”.
Diventa anche interessante notare come in quello stesso discorso al Corpo Diplomatico, il Papa, certamente felice del ritorno alla libertà di numerosi popoli dell’Europa dell’Est, ne vede già con lungimiranza i rischi. Il rischio maggiore è rappresentato proprio da quell’Occidente che, pur “veterano” in fatto di una conquistata libertà, non ha “saputo fare uso della libertà conquistata in passato al prezzo di duri sacrifici”. Giovanni Paolo II mette subito il dito nella piaga delle democrazie occidentali, quando si rammarica della “deliberata assenza di ogni riferimento morale trascendente” che le caratterizza oggi, nella costatazione della “diffusione di controvalori quali l’egoismo, l’edonismo, il razzismo e il materialismo pratico”. Da qui la necessità che tutti gli europei ritrovino le “radici spirituali che hanno fatto l’Europa”.


Un nuovo totalitarismo: l’agnosticismo e il relativismo

Sarà ancora nella Centesimus Annus che Giovanni Paolo II scrisse di scorgere all’orizzonte una nuova ideologia, quella laicista, che rappresentava una seria minaccia per il futuro della libertà e su cui sarebbe tornato più volte negli anni futuri. Ma nella Centesimus Annus il Papa pone il problema di fondo, quando evoca la possibilità che proprio quelle democrazie che avevano esultato per il crollo dei totalitarismi rischiassero di cadere, a loro volta e per un’altra strada, dentro a una nuova forma di tirannide, molto più insidiosa perché più difficile da riconoscere come tale. La minaccia alle democrazie occidentali – sembrava spiegare il Papa – proveniva non tanto da un nemico esterno, ma interno. Lo scrive con sintetica lucidità al n. 46: “Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche”. Si arriva al punto da ritenere inaffidabili, dal punto di vista democratico, coloro che “sono convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza ad essa”, in quanto costoro “non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici”. E allora? Giovanni Paolo II arriva all’espressione più forte: “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”. L’espressione è quasi provocatoria, ma la realtà è che in una democrazia priva di norme morali oggettive, l’unico modo per risolvere i conflitti interni rimane l’uso della forza: non necessariamente la forza delle armi, ma ogni forma di pressione, compresa quella legislativa o giudiziaria, per imporre la propria volontà da parte di chi è al potere.

A Berlino nel giugno 1996

Un notevole contributo di riflessione sui fatti dell’89 è stato offerto da Giovanni Paolo II nel suo pellegrinaggio in Germania del giugno 1996, che diede un’ulteriore occasione al Papa per ribadire uno dei tratti distintivi del suo pontificato: ossia che la cultura è la forza motrice della storia. A Berlino, durante la messa di beatificazione di due martiri dell’era nazista (Bernhard Lichtenberg e Karl Leisner), celebrata nello stadio olimpico, Giovanni Paolo II sottolineò che quello era il luogo dove “il regime nazionalsocialista volle la celebrazione dei giochi olimpici per far trionfare la sua disumana ideologia”. Attualizzando la loro testimonianza nell’ora presente, rivolgendosi soprattutto ai giovani, che vivono in un ambiente caratterizzato da miscredenza e indifferenza, il Papa disse che “non sono solo i dittatori politici a limitare la libertà; c’è bisogno uguale di forza e di coraggio per contrapporsi al risucchio dello spirito del tempo, che è orientato al consumo e al godimento egoistico della vita o, all’occasione, getta sguardi compiacenti nei confronti dell’ostilità alla Chiesa, o perfino dell’ateismo militante”. E, coerentemente con tutta la sua predicazione, affermò: “Il nostro compito nel mondo postula da noi cristiani non di assimilar visi e di divenire comodi contemporanei rinunciando così alla nostra identità. Essa richiede invece che rimaniamo cristiani, che difendiamo e viviamo la nostra fede, offrendola come contributo essenziale alla società umana. In questo compito non dobbiamo farci ostacolare da nessuno, neanche dallo Stato”. Prima di lasciare Berlino per Roma, Giovanni Paolo II, il 23 giugno 1996 salutò il popolo tedesco proprio alla Porta di Brandeburgo. Questa Porta, disse il Papa, “è stata occupata da due dittature tedesche. Ai dittatori nazionalsocialisti serviva da imponente scenario per le parate e le fiaccolate ed è stata murata dai tiranni comunisti. Poiché avevano paura della libertà, gli ideologi trasformarono una porta in un muro. Proprio in questo punto di Berlino […] si è manifestato a tutto il mondo il volto spietato del comunismo, al quale risultano sospetti i desideri umani di libertà e di pace. Esso teme però soprattutto la libertà dello spirito, che dittatori bruni e rossi volevano murare”. E proprio qui il Papa elevò un inno alla libertà, ben presto dimenticato in Europa: non c’è libertà senza verità, non c’è libertà senza solidarietà, non c’è libertà senza sacrificio.

Conclusione

Giovanni Paolo II è stato un grande testimone degli avvenimenti del XX secolo. Ma, dopo la caduta dei regimi costruiti sopra le ideologie del male, vide e denunciò il sorgere di altre ideologie che si andavano profilando e consolidando. Nelle conversazioni a Castelgandolfo del 1993, che sono all’origine del libro Memoria e identità, il Papa polacco parlò di altri muri e disse: “Permane lo sterminio legale degli esseri umani concepiti e non ancora nati. E questa volta si tratta di uno sterminio deciso addirittura da Parlamenti eletti democraticamente, nei quali ci si appella al progresso civile delle società e dell’intera umanità. Né mancano altre gravi forme di violazione della Legge di Dio. Penso, ad esempio, alle forti pressioni del Parlamento europeo perché le unioni omosessuali siano riconosciute come una forma alternativa di famiglia, a cui competerebbe anche il diritto di adozione. E’ lecito e anzi doveroso porsi la domanda se qui non operi ancora una nuova ideologia del male, forse più subdola e celata, che tenta di sfruttare, contro l’uomo e contro la famiglia, perfino i diritti dell’uomo” (ibid., pp.22-23). Si tratta di una riflessione sull’Europa contemporanea, che sarà oggetto di una approfondita analisi in un altro documento, Ecclesia in Europa, l’esortazione postsinodale del 2003, fondamentale per comprendere il magistero di Giovanni Paolo II sul presente e sul futuro dell’Europa.
A conclusione di queste considerazioni, riporto quanto scrive Giovanni Paolo II in Memoria e identità: “Il male del XX secolo non è stato un male in edizione piccola, per così dire ‘artigianale’. E’ stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema. Nello stesso tempo, però, la grazia divina si è manifestata con ricchezza sovrabbondante. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande. Non c’è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a Lui” (p. 198).
Noi cristiani, noi uomini e donne di oggi, amanti della verità e della libertà, non possiamo rimanere spettatori passivi e inerti di fronte alle sfide dell’ oggi. L’esempio e la testimonianza di Giovanni Paolo II e dei tantissimi martiri che hanno pagato con la vita o con il carcere il prezzo della loro fedeltà a Dio, e quindi alla verità e alla dignità dell’uomo, impongono anche a noi la rinuncia ad ogni viltà e paura, la lotta al conformismo culturale oggi imperante e quell’attrezzatura e formazione spirituale e culturale che ci rende capaci anche di sopportare prove e sofferenze, inevitabili a chiunque voglia essere testimone dei valori grandi del Vangelo in ogni stagione, come la storia abbondantemente insegna.