Benedetto XVI
FEDE, RAGIONE
E UNIVERSITA
La lezione magistrale del Papa
a Regensburg
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2006
56
Benedetto XVI
FEDE, RAGIONE
E UNIVERSITA
La lezione magistrale del Papa
a Regensburg
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2006
56
Questo Fascicolo contiene: la lezione magistrale di Benedetto
XVI nellAula Magna dellUniversità di Ratisbona (martedì
12 settembre 2006), che tanta reazione (e tanto assordante silenzio) ha provocato
in mezzo mondo; lomelia che il Papa ha tenuto a Monaco di Baviera (domenica
10 settembre), anchessa indispensabile per comprendere il pensiero di
Benedetto XVI sui rapporti tra fede, ragione, cultura e occidente; il discorso
del Papa agli ambasciatori dei Paesi a maggioranza musulmana accreditati presso
la Santa Sede e ad alcuni esponenti delle comunità musulmane in Italia
(Castelgandolfo, 25 settembre 2006)
A mo di introduzione, pubblichiamo la riflessione che il nostro Vescovo
di Cremona, mons. Dante Lafranconi, ha offerto ai fedeli della Diocesi, pubblicata
sul settimanale diocesano La Vita Cattolica(21 settembre 2006).
Le parole profetiche del Papa
Le dimostrazioni che hanno agitato il mondo musulmano in seguito alla lezione
del Papa allUniversità di Ratisbona si prestano a molte letture
interpretative e hanno innescato le più varie considerazioni, di cui
i mezzi di comunicazione sociale si sono fatti portavoce.
Come Vescovo della Chiesa che è in Cremona sento il bisogno di esprimere
anzitutto la solidarietà mia e della Diocesi al Papa
e insieme la gratitudine per quanto ha detto.
Benedetto XVI ha focalizzato e non è la prima volta il
corretto rapporto tra la fede e la ragione, mettendo in guardia nei confronti
di due diffuse deviazioni, che, pur procedendo dalla stessa radice
la separazione tra ragione e fede conducono a esiti opposti: da una
parte a unadesione alla fede che ignora la ragione; dallaltra
parte a unaffermazione della ragione che esclude o rifiuta ogni rapporto
con la fede.
Nel primo caso si apre la strada al fondamentalismo fanatico e violento che
rinnega Dio e mortifica luomo, perché non agire secondo
ragione è contrario alla natura di Dio e alla natura dellanima
(queste parole ritornano come leit-motif nel discorso del Papa).
Nel secondo caso si apre la strada alla irrilevanza di Dio e, alla fine, alla
sua esclusione dalla vita delluomo, perché si nega la possibilità
di conoscere Dio dal momento che è ritenuta valida la sola conoscenza
attinta col metodo scientifico-empirico. E quello che in maniera spicciola
si riscontra spesso nel modo di pensare di tanta gente: Dio non lo vedo,
non lo tocco, quindi non mi interessa. Di conseguenza la religione è
un optional, o al massimo la si ritiene utile per garantire un certo indirizzo
morale.
In questo modo, però, osserva il Papa, ci troviamo di fronte
ad una riduzione del raggio di scienza a ragione che è doveroso mettere
in questione
poiché allora gli interrogativi propriamente umani,
cioè quelli del da dove e del verso dove non possono trovare nello
spazio della comune ragione descritta dalla scienza e devono essere
spostati nellambito del soggettivo. Si approda, così, alla
religione e alla morale del fai da te.
Cè di che riflettere seriamente sia per chi giustifica la violenza
in nome di Dio, sia per chi elimina Dio in nome della ragione (scientifica).
Cè di che riflettere seriamente perché queste due culture
si trovano oggi faccia a faccia. E il rischio dello scontro è più
che reale. Anzi, per certi aspetti, è già in atto. E forse,
come tanti secoli fa nellimpatto violento tra limpero romano e
il mondo germanico, toccherà proprio alla religione cristiana, che
mantiene la capacità di esprimersi nella sintesi di fede e ragione,
promuovere e accompagnare il processo di integrazione di queste due culture.
Allora sarà pienamente riconosciuta la lungimiranza profetica di Benedetto
XVI.
Di fronte a questa prospettiva, che non ritengo fantasiosa perché la
storia è magistra vitae, mi appare ancor più incomprensibile
la strumentale e pretestuosa ondata di reazioni contro il Papa. Il quale non
solo non intendeva offendere la sensibilità religiosa dei musulmani,
ma voleva riproporre alluomo, ad ogni uomo, una corretta visione della
fede e della religione e segnalarne limportanza per lintera umanità.
Per quella umanità che, appena entrata nel Terzo Millennio, sta vivendo
un passaggio epocale della storia. E il desiderio e la speranza di tutti è
che il passaggio conduca a un vero progresso di tutto luomo e di tutti
gli uomini.
E qui affiora nel mio animo unaltra considerazione o, forse, una preoccupazione.
Giusta e lodevole lindignata reazione del mondo europeo alle provocatorie
manifestazioni dei Paesi islamici. Ma non vorrei che questa reazione acquietasse
la nostra coscienza facendoci dimenticare che la lezione del Papa ha qualcosa
da dire anche a noi e al nostro modo di pensare e di vivere come se
Dio non ci fosse.
Allora le nostre legittime e plausibili reazioni contro le minacce del fondamentalismo
islamico sarebbero ipocrite: si grida al ladro, al ladro! contro
gli altri per nascondere i propri furti. Perché alla fine tanto il
fondamentalismo religioso quanto il secolarismo agnostico rubano Dio al cuore
delluomo e al progetto dellumanità, la quale aspira ad
una convivenza giusta e pacifica nella verità.
+ Dante, Vescovo
La lezione di Benedetto XVI presso lAula Magna dellUniversità di Regensburg
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università
e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente,
ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore
di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università
di Bonn. Era nel 1959 ancora il tempo della vecchia università
dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né
assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto
diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava
prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici,
i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche
erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus,
in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli
studenti dell'intera università, rendendo così possibile unesperienza
di universitas una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato
poco fa lesperienza, cioè del fatto che noi, nonostante
tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra
di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le
sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità
per il retto uso della ragione questo fatto diventava esperienza viva.
L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà
teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza
della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto"
dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede,
per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa
coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando
una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella
nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano
di una cosa che non esisteva di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo
così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per
mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione
della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una
convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte
edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto
imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno
del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam
e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso
ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo
dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati
in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore
persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede
contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine
di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione
tra le come si diceva tre "Leggi" o tre "ordini
di vita": Antico Testamento Nuovo Testamento Corano.
Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo
un argomento piuttosto marginale nella struttura dellintero dialogo
che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato
e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo
tema.
Nel settimo colloquio (???????? controversia) edito dal prof.
Khoury, l'imperatore tocca il tema della jih?d, della guerra santa. Sicuramente
l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione
nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale, dicono
gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato.
Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate
successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi
sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono
il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente
brusco, brusco al punto di stupirci, si rivolge al suo interlocutore semplicemente
con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere
per mezzo della spada la fede che egli predicava". L'imperatore, dopo
essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente
le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è
cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio
e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -,
non agire secondo ragione, ???? ????,è contrario alla natura
di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole
condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene
e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia
Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né
del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque
altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte
"
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante
la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura
di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino
cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per
la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La
sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse
anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera
del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge
fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola
e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse
sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione
concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto.
La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura
di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso?
Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò
che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio
sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della
Genesi, il primo versetto dellintera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato
il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il ?????".
È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce
???? ????, con logos. Logos significa insieme ragione e parola
una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto,
come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose
della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio
era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra
il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione
di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in
sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia
e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) questa visione può essere
interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca
di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già
il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme
delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io
sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione
con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare
il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno
dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il
Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio
del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga
la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di
Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico
nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani
dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo
con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento
allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante
l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del
pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato
specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la
traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria
la "Settanta" , è più di una semplice (da valutare
forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è
infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante
passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo
incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione
ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro
tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente
dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero
greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con
il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra
spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo
agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica,
la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione
che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là
di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale
Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che
effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro,
possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine
di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al
bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo
così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero
e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità
abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le
sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa
si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo
eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia,
in cui come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 certo le
dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non
tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non
diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in
un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è
quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce
pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa"
la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice
pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui
il ??????? un culto checulto cristiano è, come dice ancora
Paolo ?????? concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr
Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco,
è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della
storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale
un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è
sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo
sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente
decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro,
al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato
l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una
parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione
del cristianesimo una richiesta che dall'inizio dell'età moderna
domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino,
si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate
tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono
chiaramente distinte l'una dall'altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma
del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori
si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente
dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno
in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede
non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito
nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la
pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente
nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da
altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente
se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per
far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità
imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente
alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda
nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è
Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della
mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche
nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione
di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento
e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare
di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa
seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale
appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio
semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche
prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe
il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù
avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli
viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo
di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con
la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici
e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella
trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo
Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università:
teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi
di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante
la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica
e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel
sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in
modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però
ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto
moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo
(cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una
parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così
dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla
nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così
dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte,
si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri
scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità
mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli
può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più
dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J.
Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione.
Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di
essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche
le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la
sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della
scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è
ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo
apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però,
ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è
doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente
che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia
il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe
solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel
suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con
ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente
umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove",
gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto
nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa
in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto
decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile,
e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza
etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro
forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità
personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità:
lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione
patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta
a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano
più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo
dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è
semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento,
devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che
si diffonde attualmente. In considerazione dellincontro con la molteplicità
delle culture si ama dire oggi che la sintesi con lellenismo, compiutasi
nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe
vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare
indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il
semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro
rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è
tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto
in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco
un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dellAntico Testamento.
Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che
non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo
che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione
umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli
sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi
linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente
lopinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dellilluminismo,
rigettando le convinzioni delletà moderna. Quello che nello sviluppo
moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti
siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto alluomo
e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. Lethos della
scientificità, del resto, è Lei lha accennato,
Magnifico Rettore volontà di obbedienza alla verità e
quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali
dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque
lintenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto
di ragione e delluso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte
alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da
queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci
riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo
la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile
nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza.
In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica,
ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione
della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo
delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture
e delle religioni un dialogo di cui abbiamo un così urgente
bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto
la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali.
Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione
del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni
più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge
la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi
nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze
naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come
ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le
sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare
la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito
e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul
quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di
questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali
ad altri livelli e modi del pensare alla filosofia e alla teologia.
Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi
esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente
quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi
ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e
rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui
precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora
Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione
per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni
discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità
dell'essere e subirebbe un grande danno". L'occidente, da molto tempo,
è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali
della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il
coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza
è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione
sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire
secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di
Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio,
all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità
della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori.
Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
OMELIA DEL SANTO PADRE
Spianata della Neue Messe, München
Cari fratelli e sorelle!
Innanzitutto vorrei ancora una volta salutarvi tutti con affetto: sono lieto,
e già l'ho detto, di potermi trovare di nuovo tra voi e celebrare insieme
con voi la Santa Messa. Sono lieto di poter ancora una volta visitare i luoghi
a me familiari, che hanno avuto un influsso determinante sulla mia vita, formando
il mio pensiero e i miei sentimenti: i luoghi nei quali ho imparato a credere
ed a vivere. È un'occasione per ringraziare tutti coloro viventi
e morti che mi hanno guidato e mi hanno accompagnato. Ringrazio Dio
per questa bella Patria e per le persone che me l'hanno resa Patria.
Abbiamo appena ascoltato le tre letture bibliche che la liturgia della Chiesa
ha scelto per questa domenica. Tutte e tre sviluppano un duplice tema, che
in fondo rimane un unico tema, accentuandone a seconda delle circostanze
l'uno o l'altro aspetto. Tutte e tre le letture parlano di Dio come
centro della realtà e come centro della nostra vita personale. "Ecco
il vostro Dio!" grida il profeta Isaia nella prima lettura (35,4). La
Lettera di Giacomo e il brano evangelico dicono a loro modo la stessa cosa.
Vogliono guidarci verso Dio, portandoci così sulla retta via della
vita. Con il tema "Dio", però, è connesso il tema
sociale: la nostra responsabilità reciproca, la nostra responsabilità
per la supremazia della giustizia e dell'amore nel mondo. Questo viene espresso
in modo drammatico nella seconda lettura, in cui Giacomo, un parente stretto
di Gesù, ci parla. Egli si rivolge ad una comunità, nella quale
si comincia ad essere superbi, perché in essa si trovano anche persone
benestanti e distinte, mentre c'è il pericolo che la preoccupazione
per il diritto dei poveri venga meno. Giacomo, nelle sue parole, lascia intuire
l'immagine di Gesù, di quel Dio che si fece uomo e, pur essendo di
origine davidica, cioè regale, diventò un uomo semplice tra
uomini semplici, non si sedette su un trono, ma alla fine morì nella
povertà estrema della Croce. L'amore del prossimo, che in primo luogo
è sollecitudine per la giustizia, è la pietra di paragone per
la fede e per l'amore di Dio. Giacomo lo chiama "legge regale" (cfr
2,8) lasciando intravedere la parola preferita di Gesù: la regalità
di Dio, il dominio di Dio. Questo non indica un regno qualsiasi che arriverà
una volta o l'altra, ma significa che Dio deve adesso diventare la forza determinante
per la nostra vita e il nostro agire. È questo che domandiamo, quando
preghiamo: "Venga il tuo Regno". Non chiediamo una qualche cosa
lontana, che noi stessi in fondo non desideriamo neanche di sperimentare.
Preghiamo invece perché la volontà di Dio determini ora la nostra
volontà e così Dio regni nel mondo; preghiamo dunque perché
la giustizia e l'amore diventino forze decisive nell'ordine del mondo. Una
tale preghiera si rivolge naturalmente in primo luogo a Dio, ma scuote anche
il nostro stesso cuore. In fondo, lo vogliamo davvero? Stiamo orientando la
nostra vita in quella direzione? Giacomo chiama la "legge regale",
la legge della regalità di Dio, anche "legge della libertà":
se tutti pensano e vivono secondo Dio, allora diventiamo tutti uguali, diventiamo
liberi e così nasce la vera fraternità. Isaia, nella prima lettura,
parlando di Dio "Ecco il vostro Dio!" parla al tempo
stesso della salvezza per i sofferenti, e Giacomo, parlando dell'ordine sociale
come espressione irrinunciabile della nostra fede, parla logicamente anche
di Dio, di cui siamo figli.
Ma ora dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al Vangelo che racconta la
guarigione di un sordo-muto da parte di Gesù. Anche lì incontriamo
di nuovo i due aspetti dell'unico tema. Gesù si dedica ai sofferenti,
a coloro che sono spinti ai margini della società. Li guarisce e, aprendo
loro così la possibilità di vivere e di decidere insieme, li
introduce nell'uguaglianza e nella fraternità. Questo riguarda ovviamente
tutti noi: Gesù indica a tutti noi la direzione del nostro agire, il
come dobbiamo agire. Tutta la vicenda presenta, però, ancora unaltra
dimensione, che i Padri della Chiesa hanno messo in luce con insistenza e
che concerne in modo speciale anche noi oggi. I Padri parlano degli uomini
e per gli uomini del loro tempo. Ma quello che dicono riguarda in modo nuovo
anche noi uomini moderni. Non esiste soltanto la sordità fisica, che
taglia l'uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una debolezza
d'udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro
tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo sono
troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice
di Lui ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo. Con
la debolezza d'udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio
si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o
a Lui. In questo modo, però, viene a mancarci una percezione decisiva.
I nostri sensi interiori corrono il pericolo di spegnersi. Con il venir meno
di questa percezione viene circoscritto poi in modo drastico e pericoloso
il raggio del nostro rapporto con la realtà in genere. L'orizzonte
della nostra vita si riduce in modo preoccupante.
Il Vangelo ci racconta che Gesù pose le dita negli orecchi del sordomuto,
mise un po' della sua saliva sulla lingua del malato e disse: "Effatà"
"Apriti!" L'evangelista ha conservato per noi l'originale
parola aramaica che Gesù allora pronunciò, trasferendoci così
direttamente in quel momento. Quello che lì viene raccontato è
una cosa unica, e tuttavia non appartiene ad un passato lontano: la stessa
cosa Gesù la realizza in modo nuovo e ripetutamente anche oggi. Nel
nostro Battesimo Egli ha compiuto su di noi questo gesto del toccare e (.)
ha detto: "Effatà" Apriti!", per renderci capaci
di sentire Dio e per ridonarci così anche la possibilità di
parlare a Lui. Ma questo evento, il Sacramento del Battesimo, non possiede
niente di magico. Il Battesimo dischiude un cammino. Ci introduce nella comunità
di coloro che sono capaci di ascoltare e di parlare; ci introduce nella comunione
con Gesù stesso che, unico, ha visto Dio e quindi ha potuto parlare
di Lui (cfr Gv 1,18): mediante la fede, Gesù vuole condividere con
noi il suo vedere Dio, il suo ascoltare il Padre e parlare con Lui. Il cammino
dell'essere battezzati deve diventare un processo di sviluppo progressivo,
nel quale noi cresciamo nella vita di comunione con Dio, raggiungendo così
anche uno sguardo diverso sull'uomo e sulla creazione.
Il Vangelo ci invita a renderci conto che in noi esiste un deficit riguardo
alla nostra capacità di percezione una carenza che inizialmente
non avvertiamo come tale, perché appunto tutto il resto si raccomanda
per la sua urgenza e ragionevolezza; perché apparentemente tutto procede
in modo normale, anche se non abbiamo più orecchi ed occhi per Dio
e viviamo senza di Lui. Ma è vero che tutto procede semplicemente,
quando Dio viene a mancare nella nostra vita e nel nostro mondo? Prima di
porre ulteriori domande vorrei raccontare un po' delle mie esperienze negli
incontri con i Vescovi di tutto il mondo. La Chiesa cattolica in Germania
è grandiosa nelle sue attività sociali, nella disponibilità
ad aiutare ovunque ciò si riveli necessario. Sempre di nuovo, durante
le loro visite "ad limina", i Vescovi, ultimamente quelli dell'Africa,
mi raccontano con gratitudine della generosità dei cattolici tedeschi
e mi incaricano di rendermi interprete di questa loro gratitudine è
quanto ora vorrei fare una volta pubblicamente. Anche i Vescovi dei Paesi
Baltici, venuti prima delle vacanze, mi hanno parlato di come i cattolici
tedeschi li hanno aiutati in modo grandioso nella ricostruzione delle loro
chiese gravemente fatiscenti a causa dei decenni di dominio comunista. Ogni
tanto, però, qualche Vescovo africano mi dice: "Se presento in
Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte. Ma se vengo con un
progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve. Ovviamente
esiste in alcuni l'idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima
urgenza, mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica
siano cose piuttosto particolari e meno prioritarie. Tuttavia l'esperienza
di quei Vescovi è proprio che l'evangelizzazione deve avere la precedenza,
che il Dio di Gesù Cristo deve essere conosciuto, creduto ed amato,
deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali possano progredire,
affinché s'avvii la riconciliazione, affinché per esempio
l'AIDS possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde
e curando i malati con la dovuta attenzione e con amore. Il fatto sociale
e il Vangelo sono semplicemente inscindibili tra loro. Dove portiamo agli
uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti,
là portiamo troppo poco. Allora sopravvengono ben presto i meccanismi
della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa
prevalente, diventa la capacità per raggiungere il potere un
potere che una volta o l'altra dovrebbe portare il diritto, ma che non ne
sarà mai capace. In questo modo ci si allontana sempre di più
dalla riconciliazione, dall'impegno comune per la giustizia e l'amore. I criteri,
secondo i quali la tecnica entra a servizio del diritto e dell'amore, allora
si smarriscono; ma è proprio da questi criteri, che tutto dipende:
criteri che non sono soltanto teorie, ma che illuminano il cuore portando
così la ragione e l'agire sulla retta via.
Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano, sì, le prestazioni
tecniche dellOccidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte
ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell'uomo,
ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche
alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono
nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera
il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità
a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo
cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli
aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente
bisogno comprende il timor di Dio il rispetto di ciò che per
laltro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli
altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor
di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale
soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente
per noi ed in noi.
La nostra fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo
è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto
nella libertà. Ma è la libertà degli uomini alla quale
facciamo appello di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto. Noi
qui riuniti chiediamo al Signore con tutto il cuore di pronunciare nuovamente
il suo "Effatà!", di guarire la nostra debolezza d'udito
per Dio, per il suo operare e per la sua parola, e di renderci capaci di vedere
e di ascoltare. Gli chiediamo di aiutarci a ritrovare la parola della preghiera,
alla quale ci invita nella liturgia e la cui formula essenziale ci ha insegnato
nel Padre nostro.
Il mondo ha bisogno di Dio. Noi abbiamo bisogno di Dio. Di quale Dio abbiamo
bisogno? Nella prima lettura, il profeta si rivolge a un popolo oppresso dicendo:
La vendetta di Dio verrà (vgl 35,4). Noi possiamo facilmente
intuire come la gente si immaginava tale vendetta. Ma il profeta stesso rivela
poi in che cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. E la
spiegazione definitiva della parola del profeta, la troviamo in Colui che
è morto per noi sulla Croce: in Gesù, il Figlio di Dio incarnato
che qui ci guarda così insistentemente. La sua vendetta
è la Croce: il No alla violenza, lamore fino
alla fine. È questo il Dio di cui abbiamo bisogno. Non veniamo
meno al rispetto di altre religioni e culture, non veniamo meno al profondo
rispetto per la loro fede, se confessiamo ad alta voce e senza mezzi termini
quel Dio che alla violenza ha opposto la sua sofferenza; che di fronte al
male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia.
A Lui rivolgiamo la nostra supplica, perché Egli sia in mezzo a noi
e ci aiuti ad essergli testimoni credibili. Amen!
Il Discorso di Benedetto XVI agli ambasciatori
dei Paesi musulmani accreditati presso la Santa Sede
e ad alcuni esponenti delle comunità musulmane in Italia
Signor Cardinale,
Signore e Signori Ambasciatori,
cari amici musulmani,
sono lieto di accogliervi in questincontro da me auspicato per consolidare
i legami di amicizia e di solidarietà tra la Santa Sede e le Comunità
musulmane del mondo. Ringrazio il Signor Cardinale Paul Poupard, Presidente
del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, per le parole che
mi ha rivolto, come pure tutti voi per aver risposto al mio invito.
Ben note sono le circostanze che hanno motivato questo nostro appuntamento,
e su di esse ho già avuto occasione di intrattenermi durante la passata
settimana. In questo particolare contesto, vorrei oggi ribadire tutta la stima
e il profondo rispetto che nutro verso i credenti musulmani, ricordando quanto
afferma in proposito il Concilio Vaticano II e che per la Chiesa Cattolica
costituisce la Magna Charta del dialogo islamo - cristiano: " La Chiesa
guarda con stima anche i musulmani che adorano lunico Dio, vivente e
sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra,
che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore
ai decreti anche nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale
la fede islamica volentieri si riferisce" (Dichiarazione Nostra aetate,
n. 3). Ponendomi decisamente in questa prospettiva, fin dallinizio del
mio pontificato ho auspicato che si continuino a consolidare ponti di amicizia
con i fedeli di tutte le religioni, con un particolare apprezzamento per la
crescita del dialogo tra musulmani e cristiani (cfr Discorso ai Delegati delle
altre Chiese e Comunità ecclesiali e di altre Tradizioni religiose,
Oss. Rom. 26 aprile 2005, pag. 4). Come ebbi a sottolineare a Colonia lo scorso
anno, "il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani
non può ridursi a una scelta del momento Si tratta effettivamente di
una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro"
(Discorso ai Rappresentanti di alcune comunità musulmane, Oss. Rom.
22 23 agosto 2005, pag. 5). In un mondo segnato dal relativismo, e
che troppo spesso esclude la trascendenza dalluniversalità della
ragione, abbiamo assolutamente bisogno dun dialogo autentico tra le
religioni e tra le culture, un dialogo in grado di aiutarci a superare insieme
tutte le tensioni in uno spirito di proficua intesa. In continuità
con lopera intrapresa dal mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II,
auspico dunque vivamente che i rapporti ispirati a fiducia, che si sono instaurati
da diversi anni fra cristiani e musulmani, non solo proseguano, ma si sviluppino
in uno spirito di dialogo sincero e rispettoso, un dialogo fondato su una
conoscenza reciproca sempre più autentica che, con gioia, riconosce
i valori religiosi comuni e, con lealtà, prende atto e rispetta le
differenze.
Il dialogo interreligioso e interculturale costituisce una necessità
per costruire insieme il mondo di pace e di fraternità ardentemente
auspicato da tutti gli uomini di buona volontà. In questo ambito, i
nostri contemporanei attendono da noi un eloquente testimonianza in
grado di indicare a tutti il valore della dimensione religiosa dellesistenza.
E pertanto necessario che, fedeli agli insegnamenti delle loro rispettive
tradizioni religiose, cristiani e musulmani imparino a lavorare insieme, come
già avviene in diverse comuni esperienze, per evitare ogni forma di
intolleranza ed opporsi ad ogni manifestazione di violenza; è altresì
doveroso che noi, Autorità religiose e Responsabili politici, li guidiamo
ed incoraggiamo ad agire così. In effetti, ricorda ancora il Concilio,
"sebbene, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono
sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto sinodo esorta tutti a dimenticare
il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché
a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale,
i valori morali, la pace e la libertà" (Dichiarazione Nostra aetate,
n.3). Gli insegnamenti del passato non possono dunque non aiutarci a ricercare
vie di riconciliazione perché, nel rispetto dellidentità
e della libertà di ciascuno, diamo vita a una collaborazione ricca
di frutti al servizio dellintera umanità. Come il Papa Giovanni
Paolo II affermava nel suo memorabile discorso ai giovani a Casablanca, in
Marocco, " il rispetto e il dialogo richiedono la reciprocità
in tutti i campi, soprattutto per quanto concerne le libertà fondamentali
e più particolarmente la libertà religiosa. Essi favoriscono
la pace e lintesa tra i popoli" (Insegnamenti di Giovanni Paolo
II, VIII, 2, 1985, pag. 501)
Cari amici, sono profondamente convinto che, nella situazione in cui si trova
il mondo oggi, è un imperativo per i cristiani e i musulmani impegnarsi
nellaffrontare insieme le numerose sfide con le quali si confronta lumanità,
specialmente per quanto riguarda la difesa e la promozione della dignità
dellessere umano e i diritti che ne derivano. Mentre crescono le minacce
contro luomo e contro la pace, riaffermando la centralità della
persona e lavorando senza stancarsi perché la vita umana sia sempre
rispettata, cristiani e musulmani rendono manifesta la loro obbedienza al
Creatore, la cui volontà è che tutti gli esseri umani vivano
con quella dignità che Egli ha loro dato.
Cari amici, auspico di vero cuore che Dio misericordioso guidi i nostri passi
sui sentieri duna reciproca e sempre più vera comprensione. Nel
momento in cui i musulmani iniziano litinerario spirituale del mese
di Ramadam, rivolgo a tutti i miei cordiali voti augurali, auspicando che
lOnnipotente accordi loro unesistenza serena e tranquilla. Che
il Dio della pace colmi con labbondanza delle sue benedizioni voi e
le comunità che rappresentate!