Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2005
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BENEDETTO XVI
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2005
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Il nuovo Papa Benedetto XVI sta muovendo i suoi primi passi come successore
dell'apostolo Pietro nella sede della Chiesa di Roma, "che presiede nella
carità". Ma i suoi passi vengono da lontano. Chi è il nuovo
Papa, al secolo Joseph Ratzinger?
I parrocchiani della parrocchia di Santo Stefano già in parte lo conoscono:
chi scrive non ha mai fatto mistero della propria stima - nata e alimentata
da una lunga frequentazione dei suoi principali scritti, a partire da una
delle sue opere più fortunate e famose, "Introduzione al Cristianesimo"
, apparsa in Germania nel 1968 e tradotta in italiano l'anno successivo -
verso una persona ricca di umanità, di profondità teologica
e culturale, di esperienza spirituale. Ne sono un segno anche alcuni Fascicoli
- pubblicati in questa collana popolare lungo il corso di questi anni - riportanti
alcuni interventi significativi del card. Ratzinger.
Il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, già noto
negli ambienti accademici della Chiesa, si è fatto notare anche nel
dibattito culturale odierno circa le radici dell'Europa e le derive del pensiero
contemporaneo, svolgendo un compito illuminativo del tutto simile al magistero
culturale di quel grande personaggio del Novecento che fu Romano Guardini,
prete cattolico e grande pensatore, il quale tra gli anni '20 e gli anni '60
del secolo scorso è intervenuto in quasi tutti i nodi culturali e spirituali
che hanno caratterizzato il suo tempo, ispirandosi e rilanciando la Katholische
Weltschauung, la visione cattolica del mondo, dentro all'agone culturale del
suo tempo, senza complessi di inferiorità.
Il card. Ratzinger è anche un grande pastore di Chiesa. Si è
fatto conoscere come tale soprattutto negli ultimi mesi, anche e soprattutto
grazie ai momenti che lo hanno visto protagonista, suo malgrado, e che lo
hanno "costretto" ad una esposizione mediatica, grazie alla quale
ha potuto raggiungere il cuore di tante persone.
Pubblichiamo in questo Fascicolo, oltre ad una sua essenziale biografia,,
le sue ultime omelie: da quella pronunciata nel Duomo di Milano ai funerali
di don Giussani a quella della messa esequiale di papa Giovanni Paolo II,
all'omelia della Messa "pro eligendo Pontifice" appena prima del
conclave, al discorso rivolto ai Cardinali il giorno dopo la sua elezione,
all'omelia della Messa di inizio del suo ministero petrino.
Sono testi carichi di fede, di franchezza apostolica, di sapienza cristiana,
che segnano l'inizio di un pontificato che ha già incontrato l'accoglienza
fervorosa di tanti figli della Chiesa, giovani e meno giovani.
Ha chiesto preghiere per il suo nuovo e impegnativo ministero, fin dal giorno
della sua elezione, il 19 aprile 2005. Non lasciamolo solo. Perché
il ministero di Pietro è per la Chiesa e nella Chiesa: cioè
per tutti noi e con noi. E non solo la Chiesa, ma anche una buona parte del
mondo pare si stia sempre più accorgendo che la presenza e il ministero
del Papa della Chiesa cattolica, anche quando non fosse del tutto capito,
del tutto apprezzato e amato e addirittura fosse oggetto di contestazione,
è comunque un punto di riferimento serio e ineludibile per le grandi
questioni dell'esistenza, per i grandi problemi dell'umanità, per il
futuro stesso di questo nostro mondo, sempre più dominato dalle ideologie
politiche, dai monopoli finanziari, dai poteri mediatici, dalle cupole scientiste
e tecnologiche. Il mondo, oggi più che mai, si sta accorgendo di perdere,
insieme alla verità, anche la libertà: perché solo la
verità - la "follia della verità" disse un giorno
il card. Ratzinger - tornerà a renderci davvero liberi dalle tante,
troppe schiavitù che sono all'origine degli "ampi deserti interiori"
dell'uomo di oggi.
Don Alberto Franzini
Casalmaggiore, 29 aprile 2005
Festa di Santa Caterina da Siena, Patrona d'Italia
BIOGRAFIA
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Joseph Ratzinger - Cardinale dal 1977, Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede dal 1981, Decano del Collegio Cardinalizio dal 2002 -
è nato in Marktl am Inn, nel territorio della Diocesi di Passau (Germania),
il 16 aprile dell'anno 1927.
Suo padre era un commissario di gendarmeria e proveniva da una famiglia di
agricoltori della bassa Baviera, le cui condizioni economiche erano piuttosto
modeste. La madre era figlia di artigiani di Rimsting, sul lago di Chiem,
e prima di sposarsi aveva fatto la cuoca in diversi alberghi.
Egli ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza a Traunstein, una piccola
città vicino alla frontiera con l'Austria, a circa trenta chilometri
da Salisburgo. Ha ricevuto in questo contesto, che egli stesso ha definito
"mozartiano", la sua formazione cristiana, umana e culturale.
Il tempo della sua giovinezza non è stato facile. La fede e l'educazione
della sua famiglia lo ha preparato alla dura esperienza dei problemi connessi
al regime nazista: egli ha ricordato di aver visto il suo parroco bastonato
dai nazisti prima della celebrazione della Santa Messa e di aver conosciuto
il clima di forte ostilità nei confronti della Chiesa cattolica in
Germania.
Ma proprio in questa complessa situazione, egli ha scoperto la bellezza e
la verità della fede in Cristo e fondamentale è stato il ruolo
della sua famiglia che ha sempre continuato a vivere una cristallina testimonianza
di bontà e di speranza radicata nell'appartenenza consapevole alla
Chiesa.
Verso la conclusione di quella tragedia che è stata la Seconda Guerra
Mondiale egli venne anche arruolato nei servizi ausiliari antiaerei.
Dal 1946 al 1951 ha studiato filosofia e teologia presso la Scuola superiore
di filosofia e teologia di Frisinga e presso l'Università di Monaco.
Il 29 giugno dell'anno 1951 è stato ordinato sacerdote.
Appena un anno dopo, don Joseh ha iniziato la sua attività didattica
nella medesima Scuola di Frisinga dove era stato studente. Nel 1953 si è
laureato in teologia con una dissertazione sul tema: "Popolo e Casa di
Dio nella Dottrina della Chiesa di sant'Agostino". Nel 1957 ha fatto
la libera docenza col noto professore di teologia fondamentale di Monaco,
Gottlieb Söhngen, con un lavoro su: "La teologia della storia di
san Bonaventura".
Dopo un incarico di dogmatica e di teologia fondamentale presso la Scuola
superiore di Frisinga, egli ha continuato la sua attività di insegnamento
a Bonn (1959-1969), a Münster (1963-1966) e a Tubinga (1966-1969). Dal
1969 è professore di dogmatica e di storia dei dogmi presso l'Università
di Ratisbona dove ha ricoperto anche l'incarico di Vice Preside dell'Università.
La sua intensa attività scientifica lo ha portato a svolgere importanti
incarichi in seno alla Conferenza Episcopale Tedesca, nella Commissione Teologica
Internazionale.
Tra le sue pubblicazioni, numerose e qualificate, particolare eco ha avuto
"Introduzione al cristianesimo" (1968), una raccolta di lezioni
universitarie sulla "professione di fede apostolica".
Nel 1973, poi, è stato pubblicato il volume: "Dogma e Rivelazione"
che raccoglie i saggi, le meditazioni e le omelie dedicate alla pastorale.
Una vastissima risonanza ha poi avuto la sua arringa pronunciata dinanzi all'Accademia
cattolica bavarese sul tema: "Perché io sono ancora nella Chiesa?".
Ebbe a dichiarare con la sua consueta chiarezza: "Solo nella Chiesa è
possibile essere cristiani e non accanto alla Chiesa". La serie delle
sue incalzanti pubblicazioni è proseguita copiosa e puntuale nel corso
degli anni, costituendo un punto di riferimento per tante persone e certamente
per quanti sono impegnati nello studio approfondito della teologia. Si pensi,
ad esempio, al volume "Rapporto sulla fede" del 1985 e a "Il
sale della terra" del 1996. Va ricordato anche il libro "Alla scuola
della Verità" dato alle stampe in occasione del suo settantesimo
compleanno.
Di grande valore, centrale nella vita del Pastore Ratzinger, è stata
l'alta e proficua esperienza della sua partecipazione al Concilio Vaticano
II con la qualifica di "esperto" che egli ha vissuto anche come
conferma della propria vocazione da lui definita "teologica".
Il 24 marzo 1977 Papa Paolo VI lo ha nominato Arcivescovo di München
und Freising. Ha ricevuto l'ordinazione episcopale il 28 maggio dello stesso
anno: primo sacerdote diocesano ad assumere, dopo ottant'anni, il governo
pastorale della grande Diocesi bavarese. Egli ha scelto come motto episcopale:
"Collaboratori della Verità".
Sempre Papa Montini lo ha creato e pubblicato Cardinale, del Titolo di Santa
Maria Consolatrice al Tiburtino, nel Concistoro del 27 giugno 1977.
È stato Relatore alla Quinta Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi
(1980) sul tema della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo. In quell'occasione,
nella sua prima Relazione, ha svolto un'ampia e puntuale analisi sulla situazione
della famiglia nel mondo, sottolineando in proposito la crisi della cultura
tradizionale di fronte alla mentalità tecnicistica e meramente razionale.
Accanto agli aspetti negativi, non ha mancato di evidenziare la riscoperta
del vero personalismo cristiano come lievito che feconda l'esperienza coniugale
di molte coppie di sposi, ed ha rivolto anche un invito ad una retta valutazione
del ruolo della donna, che va annoverata tra le questioni fondamentali nella
riflessione sul matrimonio e sulla famiglia. Nella seconda parte della relazione,
dedicata al disegno di Dio sulle famiglie di oggi, ha ricordato soprattutto
che la mascolinità e la femminilità sono espressione della comunione
delle persone come segno originale del dono d'amore del Creatore.
La sua parola ha offerto un contributo fondamentale di riflessione e di confronto
nello svolgimento di tutti i Sinodi dei Vescovi.
Il 25 novembre 1981 Giovanni Paolo II lo ha nominato Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede. È divenuto anche Presidente della Pontificia
Commissione Biblica e della Commissione Teologica Internazionale. Il 15 febbraio
1982 ha quindi rinunciato al governo pastorale dell'Arcidiocesi di München
und Freising.
Il suo servizio come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
è stato instancabile ed è impresa impossibile elencare questo
lavoro nello spazio di una biografia. La sua opera, come Collaboratore di
Giovanni Paolo II, è stata continua e preziosa.
Tra i tantissimi punti-fermi della sua opera, va segnalato il suo ruolo di
Presidente della Commissione per la Preparazione del Catechismo della Chiesa
Cattolica.
Il 5 aprile 1993 è stato chiamato a far parte dell'Ordine dei Vescovi
e ha preso possesso del Titolo della Chiesa Suburbicaria di Velletri-Segni.
Il 6 novembre 1998 è stato nominato Vice-Decano del Collegio Cardinalizio
e il 30 novembre 2002 è divenuto Decano: ha preso possesso del Titolo
della Chiesa
Suburbicaria di Ostia.
Sino all'elezione alla Cattedra di Pietro egli è stato Membro del Consiglio
della II Sezione della Segreteria di Stato; delle Congregazioni per le Chiese
Orientali, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, per i Vescovi,
per l'Evangelizzazione dei Popoli, per l'Educazione Cattolica; del Pontificio
Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani; della Pontificia
Commissione per l'America Latina e della Pontificia Commissione "Ecclesia
Dei".
In occasione del suo cinquantesimo di ordinazione sacerdotale, Giovanni Paolo
II gli ha inviato un messaggio nel quale, riferendosi alla coincidenza del
suo giubileo con la solennità liturgica dei Santi Pietro e Paolo, con
parole in qualche modo "profetiche" gli ha ricordato che "in
Pietro risalta il principio di unità, fondato sulla fede salda come
roccia del Principe degli Apostoli; in Paolo l'esigenza intrinseca del Vangelo
di chiamare ogni uomo ed ogni popolo all'obbedienza della fede.
Queste due dimensioni si congiungono alla comune testimonianza di santità,
che ha cementato la generosa dedizione dei due apostoli al servizio della
immacolata Sposa di Dio. Come non scorgere in queste due componenti - si è
chiesto Giovanni Paolo II - anche le coordinate fondamentali del cammino che
la Provvidenza ha disposto per Lei, Signor Cardinale, chiamandola al Sacerdozio?".
Al Cardinale Ratzinger sono state affidate le meditazioni della Via Crucis
2005 celebrata al Colosseo. In quell'indimenticabile Venerdì Santo,
Giovanni Paolo II, stretto, quasi aggrappato al Crocifisso, in una struggente
"icona" di sofferenza, ha ascoltato in silenzioso raccoglimento
le parole di colui che sarebbe divenuto il suo Successore sulla Cattedra di
Pietro. Significativamente, il leitmotiv della Via Crucis è stata la
parola pronunciata da Gesù la Domenica delle Palme, con la quale -
immediatamente dopo il suo ingresso a Gerusalemme - risponde alla domanda
di alcuni greci che lo volevano vedere: "Se il chicco di grano caduto
in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto"
(Gv 12, 24). Con queste parole il Signore ha offerto una interpretazione "eucaristica"
e "sacramentale" della sua Passione. Ci mostra - è stata
la riflessione del Porporato - che la Via Crucis non è semplicemente
una catena di dolore, di cose nefaste, ma è un mistero: è proprio
questo processo nel quale il chicco di grano cade in terra e porta frutto.
Con altre parole, ci mostra che la Passione è un'offerta di se stesso
e questo sacrificio porta frutto e diventa quindi un dono per tutti.
Le sue riflessioni risuonate la sera del Venerdì Santo nel suggestivo
scenario del Colosseo sono rimaste impresse nelle coscienze degli uomini.
"Non dobbiamo pensare anche - è stato il suo vibrante invito nella
meditazione della nona stazione - a quanto Cristo debba soffrire per la sua
stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza,
in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo
soltanto noi stessi senza renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola
viene distorta e abusata! Quanta poca fede c'è in tante teorie, quante
parole vuote! Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra
coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta
superbia, quanta autosufficienza!". "Signore - è stata la
preghiera scaturita dal suo cuore -, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca
che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel
tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto
così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a
sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi
parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa... Ti sei
rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua
Chiesa. Salva e santifica tutti noi".
Appena ventiquattr'ore prima della morte di Giovanni Paolo II, ricevendo a
Subiaco il "Premio San Benedetto" promosso dalla Fondazione sublacense
"Vita e famiglia", aveva ribadito con parole oggi particolarmente
eloquenti: "Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia, che in
un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine
più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire,
a risalire alla luce. Ritornò e fondò Montecassino, la città
sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò
un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di
molti popoli".
Venerdì 8 aprile egli - come Decano del Collegio Cardinalizio - ha
presieduto la Santa Messa esequiale di Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro.
La sua omelia, si può dire, ha espresso la grande fedeltà al
Papa e la sua stessa missione.
"Seguimi!" è stata la parola-chiave, il filo-conduttore dell'omelia
che il Cardinale Ratzinger ha rivolto al mondo intero durante le esequie del
Santo Padre. Una parola che racconta la missione di Giovanni Paolo II ed è
allo stesso tempo una esortazione che raggiunge ogni persona.
OMELIA ALLE ESEQUIE DI MONS. LUIGI GIUSSANI
(Duomo di Milano, 24.02.05)
Cari fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, "I discepoli al vedere
Gesù gioirono". Queste parole del Vangelo ora letto ci indicano
il centro della personalità e della vita del nostro caro don Giussani.
Don Giussani era cresciuto in una casa - come dice - povera di pane, ma ricca
di musica, e così dall'inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio
della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza
banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha
trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera
gioia.
Già da ragazzo ha creato con altri giovani una comunità che
si chiamava Studium Christi: il loro programma fu di parlare di nient'altro
se non di Cristo, perché tutto il resto appariva come perdita di tempo.
Naturalmente ha saputo poi superare l'unilateralità, ma la sostanza
gli è sempre rimasta, che solo Cristo dà senso a tutto nella
nostra vita, sempre ha tenuto fisso lo sguardo della sua vita e del suo cuore
verso Cristo. Ha capito in questo modo che il cristianesimo non è un
sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo
è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento.
Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta
la sua vita era tuttavia lontana da ogni entusiasmo leggero, da ogni romanticismo
vago; realmente, vedendo Cristo, ha saputo che incontrare Cristo vuol dire
seguire Cristo, che questo incontro è una strada, un cammino, un cammino
che attraversa - come abbiamo sentito nel salmo - anche la "valle oscura".
E nel Vangelo, nel secondo Vangelo, abbiamo sentito proprio l'ultimo buio
della sofferenza di Cristo, della apparente assenza di Dio, dell'eclisse del
Sole del mondo. Sapeva che seguire è attraversare una "valle oscura",
vuol dire andare sulla via della croce, e tuttavia vivere nella vera gioia.
Perché è così? Il Signore stesso ha tradotto questo mistero
della croce, che in realtà è il mistero dell'amore, con una
formula nella quale si esprime tutta la realtà della nostra vita. Il
Signore dice: "Chi cerca la sua vita, vuol avere per sé la vita,
la perde e chi perde la sua vita, la trova".
Don Giussani realmente voleva non avere per sé la vita, ma ha dato
la vita, e proprio così ha trovato la vita non solo per sé,
ma per tanti altri. Ha realizzato quanto abbiamo sentito nel primo Vangelo:
non voleva essere un padrone, voleva servire, era un fedele servitore del
Vangelo, ha distribuito tutta la ricchezza del suo cuore, ha distribuito la
ricchezza divina del Vangelo, della quale era penetrato e, servendo così,
dando la vita, questa sua vita ha portato un frutto: ricco, come vediamo in
questo momento; è divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato
le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha
aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo.
Questa centralità di Cristo nella sua vita gli ha dato anche il dono
del discernimento, di decifrare in modo giusto i segni dei tempi in un tempo
difficile, pieno di tentazioni e di errori, come sappiamo. Pensiamo agli anni
1968 e seguenti, un primo gruppo dei suoi era andato in Brasile e qui si trovò
a confronto con questa povertà estrema, con questa miseria. Che cosa
fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo,
per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci
sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le
strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo
anche ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di
trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica,
di sostituire il credere con il fare. Perché, che cosa comporta il
credere? Si può dire: in questo momento si può fare qualcosa.
E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere
con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri
e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide.
Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile ha saputo che
anche in questa situazione, Cristo, l'incontro con Cristo rimane centrale,
perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà
Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge,
perché fa perdere l'azione umana in dogmatismi ideologici e falsi,
come abbiamo visto molto bene.
Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così
ha aiutato con le opere sociali, con il servizio necessario, l'umanità
in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per
i poveri nel mondo è grandissima e urgente.
Chi crede deve attraversare - abbiamo detto - anche la "valle oscura",
le valli oscure del discernimento, e così anche delle avversità,
delle opposizioni, delle contrarietà ideologiche, che arrivavano fino
alle minacce di eliminare i suoi fisicamente per liberarsi da questa altra
voce che non si accontenta del fare, ma porta un messaggio più grande.
Monsignor Giussani, nella forza della fede ha attraversato imperterrito queste
valli oscure e naturalmente, con la novità che portava con sé,
aveva anche difficoltà di collocazione all'interno della Chiesa. Sempre
se lo Spirito Santo, secondo i bisogni dei tempi, crea il nuovo, che in realtà
è il ritorno alle origini, è difficile orientarsi e trovare
l'insieme pacifico della grande comunione della Chiesa universale. L'amore
di don Giussani per Cristo era anche amore per la Chiesa, e così sempre
è rimasto fedele servitore, fedele al Santo Padre, fedele ai suoi Vescovi.
Con le sue fondazioni ha anche interpretato di nuovo il mistero della Chiesa.
Comunione e liberazione ci fa subito pensare a questa scoperta propria dell'epoca
moderna, la libertà, e ci fa pensare anche alla parola di sant'Ambrogio:
"Ubi fides est libertas". Il cardinal Biffi ha attirato la nostra
attenzione sulla quasi coincidenza di questa parola di sant'Ambrogio con la
fondazione di Comunione e liberazione. Mettendo in rilievo così la
libertà come dono proprio della fede, ci ha anche detto che la libertà,
per essere una vera libertà umana, una libertà nella verità,
ha bisogno della comunione. Una libertà isolata, una libertà
solo per l'io, sarebbe una menzogna e dovrebbe distruggere la comunione umana.
La libertà per essere vera, e quindi per essere anche efficiente, ha
bisogno della comunione, e non di qualunque comunione, ma ultimamente della
comunione con la vertità stessa, con l'amore stesso, con Cristo, col
Dio trinitario. Così si costruisce una comunità che crea libertà
e dona gioia.
L'altra fondazione, i Memores Domini, ci fa pensare di nuovo al secondo Vangelo
di oggi: la memoria che il Signore ci ha dato nella santa eucaristia, memoria
che non è solo ricordo del passato, ma memoria crea presente, memoria
nella quale Egli stesso si dà nelle nostre mani e nei nostri cuori,
e così ci fa vivere.
Attraversare valli oscure. Nella ultima tappa della sua vita don Giussani
ha dovuto attraversare la valle oscura della malattia, dell'infermità,
del dolore, della sofferenza, ma anche qui il suo sguardo era fissato su Gesù,
e così rimase vero in tutta la sofferenza; vedendo Gesù, poteva
gioire, era presente la gioia del Risorto, che anche nella passione è
il Risorto e ci dà la vera luce e la gioia e sapeva che - come dice
il salmo - anche attraversando questa valle, "non temo alcun male, perché
so che Tu sei con me e abiterò nella casa del Padre". Questa era
la sua grande forza: sapeva che "Tu sei con me".
Miei cari fedeli, cari giovani soprattutto, prendiamo a cuore questo messaggio,
non perdiamo di vista Cristo e non dimentichiamo che senza Dio non si costruisce
niente di bene e che Dio rimane enigmatico se non riconosciuto nel volto di
Cristo.
Adesso il vostro caro amico don Giussani è arrivato nell'altro mondo
e siamo convinti che si è aperta la porta della casa del padre, siamo
convinti che adesso pienamente si realizza questa parola: vedendo Gesù
gioirono, gioisce con una gioia che nessuno gli toglie. In questo monento
vogliamo ringraziare il Signore per il grande dono di questo sacerdote, di
questo fedel servitore del Vangelo, di questo padre. Affidiamo la sua anima
alla bontà del suo e del nostro Signore.
Vogliamo in quest'ora pregare anche particolarmente per la salute del nostro
Santo Padre, ricoverato di nuovo, con tanta fiducia che il Signore lo accompagni
e gli dia forza e salute. E preghiamo perché il Signore ci illumini,
ci doni la fede che costruisce il mondo, la fede che ci fa trovare la strada
della vita, la vera gioia.
OMELIA ALLA MESSA ESEQUIALE
DI PAPA GIOVANNI PAOLO II
(Piazza San Pietro, Venerdì 8 aprile 2005)
"Seguimi" dice il Signore risorto a Pietro, come sua ultima parola
a questo discepolo, scelto per pascere le sue pecore. "Seguimi"
- questa parola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave
per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto ed
amato Papa Giovanni Paolo II, le cui spoglie deponiamo oggi nella terra come
seme di immortalità - il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa
speranza e di profonda gratitudine.
Questi sono i sentimenti del nostro animo, Fratelli e Sorelle in Cristo, presenti
in Piazza S. Pietro, nelle strade adiacenti e in diversi altri luoghi della
città di Roma, popolata in questi giorni da un'immensa folla silenziosa
ed orante. Tutti saluto cordialmente. A nome anche del Collegio dei Cardinali
desidero rivolgere il mio deferente pensiero ai Capi di Stato, di Governo
e alle delegazioni dei vari Paesi. Saluto le Autorità e i Rappresentanti
delle Chiese e Comunità cristiane, come pure delle diverse religioni.
Saluto poi gli Arcivescovi, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose
e i fedeli tutti giunti da ogni Continente; in modo speciale i giovani, che
Giovanni Paolo II amava definire futuro e speranza della Chiesa. Il mio saluto
raggiunge, inoltre, quanti in ogni parte del mondo sono a noi uniti attraverso
la radio e la televisione in questa corale partecipazione al solenne rito
di commiato dall'amato Pontefice.
Seguimi - da giovane studente Karol Wojty?a era entusiasta della letteratura,
del teatro, della poesia. Lavorando in una fabbrica chimica, circondato e
minacciato dal terrore nazista, ha sentito la voce del Signore: Seguimi! In
questo contesto molto particolare cominciò a leggere libri di filosofia
e di teologia, entrò poi nel seminario clandestino creato dal Cardinale
Sapieha e dopo la guerra poté completare i suoi studi nella facoltà
teologica dell'Università Jaghellonica di Cracovia. Tante volte nelle
sue lettere ai sacerdoti e nei suoi libri autobiografici ci ha parlato del
suo sacerdozio, al quale fu ordinato il 1° novembre 1946. In questi testi
interpreta il suo sacerdozio in particolare a partire da tre parole del Signore.
Innanzitutto questa: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e
vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto
rimanga" (Gv 15, 16). La seconda parola è: "Il buon pastore
offre la vita per le pecore" (Gv 10, 11). E finalmente: "Come il
Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore"
(Gv 15, 9). In queste tre parole vediamo tutta l'anima del nostro Santo Padre.
E' realmente andato ovunque ed instancabilmente per portare frutto, un frutto
che rimane. "Alzatevi, andiamo!", è il titolo del suo penultimo
libro. "Alzatevi, andiamo!" - con queste parole ci ha risvegliato
da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. "Alzatevi,
andiamo!" dice anche oggi a noi. Il Santo Padre è stato poi sacerdote
fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore
e per l'intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della
Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi. Così
è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue
pecore. E infine "rimanete nel mio amore": Il Papa che ha cercato
l'incontro con tutti, che ha avuto una capacità di perdono e di apertura
del cuore per tutti, ci dice, anche oggi, con queste parole del Signore: Dimorando
nell'amore di Cristo impariamo, alla scuola di Cristo, l'arte del vero amore.
Seguimi! Nel luglio 1958 comincia per il giovane sacerdote Karol Wojty?a una
nuova tappa nel cammino con il Signore e dietro il Signore. Karol si era recato
come di solito con un gruppo di giovani appassionati di canoa ai laghi Masuri
per una vacanza da vivere insieme. Ma portava con sé una lettera che
lo invitava a presentarsi al Primate di Polonia, Cardinale Wyszy?ski e poteva
indovinare lo scopo dell'incontro: la sua nomina a Vescovo ausiliare di Cracovia.
Lasciare l'insegnamento accademico, lasciare questa stimolante comunione con
i giovani, lasciare il grande agone intellettuale per conoscere ed interpretare
il mistero della creatura uomo, per rendere presente nel mondo di oggi l'interpretazione
cristiana del nostro essere - tutto ciò doveva apparirgli come un perdere
se stesso, perdere proprio quanto era divenuto l'identità umana di
questo giovane sacerdote. Seguimi - Karol Wojty?a accettò, sentendo
nella chiamata della Chiesa la voce di Cristo. E si è poi reso conto
di come è vera la parola del Signore: "Chi cercherà di
salvare la propria vita la perderà, chi invece l'avrà perduta
la salverà" (Lc 17, 33). Il nostro Papa - lo sappiamo tutti -
non ha mai voluto salvare la propria vita, tenerla per sé; ha voluto
dare se stesso senza riserve, fino all'ultimo momento, per Cristo e così
anche per noi. Proprio in tal modo ha potuto sperimentare come tutto quanto
aveva consegnato nelle mani del Signore è ritornato in modo nuovo:
l'amore alla parola, alla poesia, alle lettere fu una parte essenziale della
sua missione pastorale e ha dato nuova freschezza, nuova attualità,
nuova attrazione all'annuncio del Vangelo, proprio anche quando esso è
segno di contraddizione.
Seguimi! Nell'ottobre 1978 il Cardinale Wojty?a ode di nuovo la voce del Signore.
Si rinnova il dialogo con Pietro riportato nel Vangelo di questa celebrazione:
"Simone di Giovanni, mi ami? Pasci le mie pecorelle!" Alla domanda
del Signore: Karol mi ami?, l'Arcivescovo di Cracovia rispose dal profondo
del suo cuore: "Signore, tu sai tutto: Tu sai che ti amo". L'amore
di Cristo fu la forza dominante nel nostro amato Santo Padre; chi lo ha visto
pregare, chi lo ha sentito predicare, lo sa. E così, grazie a questo
profondo radicamento in Cristo ha potuto portare un peso, che va oltre le
forze puramente umane: Essere pastore del gregge di Cristo, della sua Chiesa
universale. Non è qui il momento di parlare dei singoli contenuti di
questo Pontificato così ricco. Vorrei solo leggere due passi della
liturgia di oggi, nei quali appaiono elementi centrali del suo annuncio. Nella
prima lettura dice San Pietro - e dice il Papa con San Pietro - a noi: "In
verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma
chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è
a lui accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele,
recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che
è Signore di tutti" (Atti 10, 34-36). E, nella seconda lettura,
San Paolo - e con San Paolo il nostro Papa defunto - ci esorta ad alta voce:
"Fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona,
rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi"
(Fil 4, 1).
Seguimi! Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Cristo annunciò
a Pietro il suo martirio. Con questa parola conclusiva e riassuntiva del dialogo
sull'amore e sul mandato di pastore universale, il Signore richiama un altro
dialogo, tenuto nel contesto dell'ultima cena. Qui Gesù aveva detto:
"Dove vado io voi non potete venire". Disse Pietro: "Signore,
dove vai?". Gli rispose Gesù: "Dove io vado per ora tu non
puoi seguirmi; mi seguirai più tardi" (Gv 13, 33.36). Gesù
dalla cena va alla croce, va alla risurrezione - entra nel mistero pasquale;
Pietro ancora non lo può seguire. Adesso - dopo la risurrezione - è
venuto questo momento, questo "più tardi". Pascendo il gregge
di Cristo, Pietro entra nel mistero pasquale, va verso la croce e la risurrezione.
Il Signore lo dice con queste parole, "
quando eri più giovane...
andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro
ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (Gv
21, 18). Nel primo periodo del suo pontificato il Santo Padre, ancora giovane
e pieno di forze, sotto la guida di Cristo andava fino ai confini del mondo.
Ma poi sempre più è entrato nella comunione delle sofferenze
di Cristo, sempre più ha compreso la verità delle parole: "Un
altro ti cingerà
". E proprio in questa comunione col Signore
sofferente ha instancabilmente e con rinnovata intensità annunciato
il Vangelo, il mistero dell'amore che va fino alla fine (cf Gv 13, 1).
Egli ha interpretato per noi il mistero pasquale come mistero della divina
misericordia. Scrive nel suo ultimo libro: Il limite imposto al male "è
in definitiva la divina misericordia" ("Memoria e identità",
pag. 70). E riflettendo sull'attentato dice: "Cristo, soffrendo per tutti
noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza; l'ha introdotta in una nuova
dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore
E' la sofferenza che
brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore e trae anche dal peccato
una multiforme fioritura di bene" (pag. 199). Animato da questa visione,
il Papa ha sofferto ed amato in comunione con Cristo e perciò il messaggio
della sua sofferenza e del suo silenzio è stato così eloquente
e fecondo.
Divina Misericordia: Il Santo Padre ha trovato il riflesso più puro
della misericordia di Dio nella Madre di Dio. Lui, che aveva perso in tenera
età la mamma, tanto più ha amato la Madre divina. Ha sentito
le parole del Signore crocifisso come dette proprio a lui personalmente: "Ecco
tua madre!". Ed ha fatto come il discepolo prediletto: l'ha accolta nell'intimo
del suo essere (eis ta idia: Gv 19, 27) - Totus tuus. E dalla madre ha imparato
a conformarsi a Cristo.
Per tutti noi rimane indimenticabile come in questa ultima domenica di Pasqua
della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla sofferenza, si è affacciato
ancora una volta alla finestra del Palazzo Apostolico ed un'ultima volta ha
dato la benedizione "Urbi et orbi". Possiamo essere sicuri che il
nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e
ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo la tua cara
anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha guidato ogni giorno e ti guiderà
adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
OMELIA ALLA MESSA PRO ELIGENDO PONTIFICE
(Patriarcale Basilica di San Pietro, Lunedì 18 aprile 2005)
In quest'ora di grande responsabilità, ascoltiamo con particolare attenzione
quanto il Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei
scegliere solo qualche passo, che ci riguarda direttamente in un momento come
questo.
La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia - un
ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù
legge questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice: "Oggi si
è adempiuta questa scrittura" (Lc 4, 21). Al centro del testo
profetico troviamo una parola che - almeno a prima vista - appare contraddittoria.
Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato "a promulgare
l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio."
(Is 61, 2). Ascoltiamo, con gioia, l'annuncio dell'anno di misericordia: la
misericordia divina pone un limite al male - ci ha detto il Santo Padre. Gesù
Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa
incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto
mandato nostro attraverso l'unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare
- non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti,
"l'anno di misericordia del Signore". Ma cosa vuol dire Isaia quando
annuncia il "giorno della vendetta per il nostro Dio"? Gesù,
a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico, non ha pronunciato queste
parole - ha concluso annunciando l'anno della misericordia. É stato
forse questo il motivo dello scandalo realizzatosi dopo la sua predica? Non
lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha offerto il suo commento autentico
a queste parole con la morte di croce. "Egli portò i nostri peccati
nel suo corpo sul legno della croce
", dice San Pietro (1 Pt 2,
24). E San Paolo scrive ai Galati: "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione
della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto:
Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione
di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito
mediante la fede" (Gal 3, 13s).
La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone
la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto
il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma
il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della
vendetta e l'anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel
Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella
persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla
misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà
con la sua sofferenza - diveniamo disponibili a completare nella nostra carne
"quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24).
Passiamo alla seconda lettura, alla lettera agli Efesini. Qui si tratta in
sostanza di tre cose: in primo luogo, dei ministeri e dei carismi nella Chiesa,
come doni del Signore risorto ed asceso al cielo; quindi, della maturazione
della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto
dell'unità nel corpo di Cristo; ed, infine, della comune partecipazione
alla crescita del corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo
nella comunione col Signore.
Soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino verso "la
maturità di Cristo"; così dice, un po' semplificando, il
testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco,
parlare della "misura della pienezza di Cristo", cui siamo chiamati
ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere
fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste
l'essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere "sballottati
dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina
"
(Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale!
Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante
correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero
di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata
da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo;
dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo ad un vago misticismo
religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno
nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull'inganno degli
uomini, sull'astuzia che tende a trarre nell'errore (cf Ef 4, 14). Avere una
fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come
fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua
e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento
all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo
che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo
il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É
lui la misura del vero umanesimo. "Adulta" non è una fede
che segue le onde della moda e l'ultima novità; adulta e matura è
una fede profondamente radicata nell'amicizia con Cristo. É quest'amicizia
che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per
discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta
dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed
è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza
nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito - in contrasto
con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle
onde - una bella parola: fare la verità nella carità, come formula
fondamentale dell'esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità
e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella
nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza
verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe
come "un cembalo che tintinna" (1 Cor 13, 1).
Veniamo ora al Vangelo, dalla cui ricchezza vorrei estrarre solo due piccole
osservazioni. Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole: "Non
vi chiamo più servi
ma vi ho chiamato amici" (Gv 15, 15).
Tante volte sentiamo di essere - come è vero - soltanto servi inutili
(cf Lc 17, 10). E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa
suoi amici, ci dona la sua amicizia. Il Signore definisce l'amicizia in un
duplice modo. Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto ascolta
dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza.
Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la sua tenerezza per noi,
il suo amore appassionato che va fino alla follia della croce. Si affida a
noi, ci dà il potere di parlare con il suo io: "questo è
il mio corpo...", "io ti assolvo...". Affida il suo corpo,
la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani
la sua verità - il mistero del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il
mistero del Dio che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito"
(Gv 3, 16). Ci ha reso suoi amici - e noi come rispondiamo?
Il secondo elemento, con cui Gesù definisce l'amicizia, è la
comunione delle volontà. "Idem velle - idem nolle", era anche
per i Romani la definizione di amicizia. "Voi siete miei amici, se fate
ciò che io vi comando" (Gv 15, 14). L'amicizia con Cristo coincide
con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: "Sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra". Nell'ora del Getsemani
Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà
conforme ed unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma
della nostra autonomia - e proprio portando la nostra volontà nelle
mani di Dio, ci dona la vera libertà: "Non come voglio io, ma
come vuoi tu" (Mt 21, 39). In questa comunione delle volontà si
realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diventare amici
di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo,
tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di
essere redenti. Grazie Gesù, per la tua amicizia!
L'altro elemento del Vangelo - cui volevo accennare - è il discorso
di Gesù sul portare frutto: "Vi ho costituito perché andiate
e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15, 16). Appare qui
il dinamismo dell'esistenza del cristiano, dell'apostolo: vi ho costituito
perché andiate
Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine:
l'inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell'amicizia con Cristo.
In verità, l'amore, l'amicizia di Dio ci è stata data perché
arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri - siamo
sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti
gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane?
Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo
tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L'unica cosa,
che rimane in eterno, è l'anima umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità.
Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle
anime umane - l'amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore;
la parola che apre l'anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo
il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane.
Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di
Dio.
Ritorniamo infine, ancora una volta, alla lettera agli Efesini. La lettera
dice - con le parole del Salmo 68 - che Cristo, ascendendo in cielo, "ha
distribuito doni agli uomini" (Ef 4, 8). Il vincitore distribuisce doni.
E questi doni sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Il nostro
ministero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo
- il mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero così, come dono di Cristo
agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore,
perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo
un pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di
Cristo, al suo amore, alla vera gioia. Amen.
BENEDIZIONE APOSTOLICA "Urbi et Orbi"
DI BENEDETTO XVI
(19 aprile 2005)
Cari fratelli e sorelle,
dopo il grande Papa Giovanni Paolo II,
i signori cardinali hanno eletto me,
un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore.
Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti
insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere.
Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo
avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre starà
dalla nostra parte.
Grazie.
PRIMO MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI CARDINALI ELETTORI IN CAPPELLA SISTINA
(Mercoledì, 20 aprile 2005)
Venerati Fratelli Cardinali,
carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo,
voi tutti, uomini e donne di buona volontà!
1. Grazia e pace in abbondanza a tutti voi (cfr 1 Pt 1,2)! Nel mio animo convivono
in queste ore due sentimenti contrastanti. Da una parte, un senso di inadeguatezza
e di umano turbamento per la responsabilità che ieri mi è stata
affidata, quale Successore dell'apostolo Pietro in questa Sede di Roma, nei
confronti della Chiesa universale. Dall'altra parte, sento viva in me una
profonda gratitudine a Dio, che - come ci fa cantare la liturgia - non abbandona
il suo gregge, ma lo conduce attraverso i tempi, sotto la guida di coloro
che Egli stesso ha eletto vicari del suo Figlio e ha costituito pastori (cfr
Prefazio degli Apostoli I).
Carissimi, questa intima riconoscenza per un dono della divina misericordia
prevale malgrado tutto nel mio cuore. E considero questo fatto una grazia
speciale ottenutami dal mio venerato Predecessore, Giovanni Paolo II. Mi sembra
di sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi
occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento particolarmente
a me: "Non avere paura!".
La morte del Santo Padre Giovanni Paolo II, e i giorni che sono seguiti, sono
stati per la Chiesa e per il mondo intero un tempo straordinario di grazia.
Il grande dolore per la sua scomparsa e il senso di vuoto che ha lasciato
in tutti sono stati temperati dall'azione di Cristo risorto, che si è
manifestata durante lunghi giorni nella corale ondata di fede, d'amore e di
spirituale solidarietà, culminata nelle sue solenni esequie.
Possiamo dirlo: i funerali di Giovanni Paolo II sono stati un'esperienza veramente
straordinaria in cui si è in qualche modo percepita la potenza di Dio
che, attraverso la sua Chiesa, vuole formare di tutti i popoli una grande
famiglia, mediante la forza unificante della Verità e dell'Amore (cfr
Lumen gentium, 1). Nell'ora della morte, conformato al suo Maestro e Signore,
Giovanni Paolo II ha coronato il suo lungo e fecondo Pontificato, confermando
nella fede il popolo cristiano, radunandolo intorno a sé e facendo
sentire più unita l'intera famiglia umana.
Come non sentirsi sostenuti da questa testimonianza? Come non avvertire l'incoraggiamento
che proviene da questo evento di grazia?
2. Sorprendendo ogni mia previsione, la Provvidenza divina, attraverso il
voto dei venerati Padri Cardinali, mi ha chiamato a succedere a questo grande
Papa. Ripenso in queste ore a quanto avvenne nella regione di Cesarea di Filippo,
duemila anni or sono. Mi pare di udire le parole di Pietro: "Tu sei il
Cristo, il Figlio del Dio vivente", e la solenne affermazione del Signore:
"Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa
A te darò le chiavi del regno dei cieli" (Mt 16, 15-19).
Tu sei il Cristo! Tu sei Pietro! Mi sembra di rivivere la stessa scena evangelica;
io, Successore di Pietro, ripeto con trepidazione le parole trepidanti del
pescatore di Galilea e riascolto con intima emozione la rassicurante promessa
del divino Maestro. Se è enorme il peso della responsabilità
che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza
divina su cui posso contare: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò
la mia Chiesa" (Mt 16,18). Scegliendomi quale Vescovo di Roma, il Signore
mi ha voluto suo Vicario, mi ha voluto "pietra" su cui tutti possano
poggiare con sicurezza. Chiedo a Lui di supplire alla povertà delle
mie forze, perché sia coraggioso e fedele Pastore del suo gregge, sempre
docile alle ispirazioni del suo Spirito.
Mi accingo a intraprendere questo peculiare ministero, il ministero 'petrino'
al servizio della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della
Provvidenza di Dio. E' in primo luogo a Cristo che rinnovo la mia totale e
fiduciosa adesione: "In Te, Domine, speravi; non confundar in aeternum!".
A voi, Signori Cardinali, con animo grato per la fiducia dimostratami, chiedo
di sostenermi con la preghiera e con la costante, attiva e sapiente collaborazione.
Chiedo anche a tutti i Fratelli nell'Episcopato di essermi accanto con la
preghiera e col consiglio, perché possa essere veramente il Servus
servorum Dei. Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono per volere del
Signore un unico Collegio apostolico, allo stesso modo il Successore di Pietro
e i Vescovi, successori degli Apostoli, - il Concilio lo ha con forza ribadito
(cfr Lumen gentium, 22) -, devono essere tra loro strettamente uniti. Questa
comunione collegiale, pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni
del Romano Pontefice e dei Vescovi, è a servizio della Chiesa e dell'unità
nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l'efficacia dell'azione
evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul
quale hanno avanzato i miei venerati Predecessori, intendo proseguire anch'io,
unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo.
3. Mi sta dinanzi, in particolare, la testimonianza del Papa Giovanni Paolo
II. Egli lascia una Chiesa più coraggiosa, più libera, più
giovane. Una Chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con
serenità al passato e non ha paura del futuro. Col Grande Giubileo
essa si è introdotta nel nuovo millennio recando nelle mani il Vangelo,
applicato al mondo attuale attraverso l'autorevole rilettura del Concilio
Vaticano II. Giustamente il Papa Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio
quale "bussola" con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio
(cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, 57-58). Anche nel suo Testamento spirituale
egli annotava: "Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle
nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo
ci ha elargito" (17.III.2000).
Anch'io, pertanto, nell'accingermi al servizio che è proprio del Successore
di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire
nell'impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei Predecessori
e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa.
Ricorrerà proprio quest'anno il 40.mo anniversario della conclusione
dell'Assise conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i Documenti
conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano
anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa
e della presente società globalizzata.
4. In maniera quanto mai significativa, il mio Pontificato inizia mentre la
Chiesa sta vivendo lo speciale Anno dedicato all'Eucaristia. Come non cogliere
in questa provvidenziale coincidenza un elemento che deve caratterizzare il
ministero al quale sono stato chiamato? L'Eucaristia, cuore della vita cristiana
e sorgente della missione evangelizzatrice della Chiesa, non può non
costituire il centro permanente e la fonte del servizio petrino che mi è
stato affidato.
L'Eucaristia rende costantemente presente il Cristo risorto, che a noi continua
a donarsi, chiamandoci a partecipare alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue.
Dalla piena comunione con Lui scaturisce ogni altro elemento della vita della
Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l'impegno di annuncio
e di testimonianza del Vangelo, l'ardore della carità verso tutti,
specialmente verso i poveri e i piccoli.
In questo anno, pertanto, dovrà essere celebrata con particolare rilievo
la Solennità del Corpus Domini. L'Eucaristia sarà poi al centro,
in agosto, della Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia e, in ottobre,
dell'Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà sul
tema: "L'Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della
Chiesa". A tutti chiedo di intensificare nei prossimi mesi l'amore e
la devozione a Gesù Eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e
chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità
e la correttezza delle celebrazioni.
Lo chiedo in modo speciale ai Sacerdoti, ai quali penso in questo momento
con grande affetto. Il Sacerdozio ministeriale è nato nel Cenacolo,
insieme con l'Eucaristia, come tante volte ha sottolineato il mio venerato
Predecessore Giovanni Paolo II. "L'esistenza sacerdotale deve avere a
speciale titolo una "forma eucaristica"", ha scritto nella
sua ultima Lettera per il Giovedì Santo (n. 1). A tale scopo contribuisce
innanzitutto la devota celebrazione quotidiana della santa Messa, centro della
vita e della missione di ogni Sacerdote.
5. Alimentati e sostenuti dall'Eucaristia, i cattolici non possono non sentirsi
stimolati a tendere a quella piena unità che Cristo ha ardentemente
auspicato nel Cenacolo. Di questo supremo anelito del Maestro divino il Successore
di Pietro sa di doversi fare carico in modo del tutto particolare. A lui infatti
è stato affidato il compito di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32).
Con piena consapevolezza, pertanto, all'inizio del suo ministero nella Chiesa
di Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l'attuale suo Successore si
assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie
alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci
di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere.
Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni
sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le
coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è
il presupposto di ogni progresso sulla via dell'ecumenismo.
Il dialogo teologico è necessario, l'approfondimento delle motivazioni
storiche di scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò
che urge maggiormente è quella "purificazione della memoria",
tante volte evocata da Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli
animi ad accogliere la piena verità di Cristo. E' davanti a Lui, supremo
Giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza
di dovere un giorno a Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto
nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti
i suoi discepoli. L'attuale Successore di Pietro si lascia interpellare in
prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è
in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell'ecumenismo. Sulla
scia dei suoi Predecessori, egli è pienamente determinato a coltivare
ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l'intesa
con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Ad
essi, anzi, invia anche in questa occasione il più cordiale saluto
in Cristo, unico Signore di tutti.
6. Torno con la memoria, in questo momento, all'indimenticabile esperienza
vissuta da noi tutti in occasione della morte e dei funerali del compianto
Giovanni Paolo II. Attorno alle sue spoglie mortali, adagiate sulla nuda terra,
si sono raccolti i Capi delle Nazioni, persone d'ogni ceto sociale, e specialmente
giovani, in un indimenticabile abbraccio di affetto e di ammirazione. A lui
ha guardato con fiducia il mondo intero. E' sembrato a molti che quella intensa
partecipazione, amplificata sino ai confini del pianeta dai mezzi di comunicazione
sociale, fosse come una corale richiesta di aiuto rivolta al Papa da parte
dell'odierna umanità che, turbata da incertezze e timori, si interroga
sul suo futuro.
La Chiesa di oggi deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito
di riproporre al mondo la voce di Colui che ha detto: "Io sono la luce
del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà
la luce della vita" (Gv 8,12). Nell'intraprendere il suo ministero il
nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini
e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di
Cristo.
Con questa consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre
religioni o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali
dell'esistenza e ancora non l'hanno trovata. A tutti mi rivolgo con semplicità
ed affetto, per assicurare che la Chiesa vuole continuare a tessere con loro
un dialogo aperto e sincero, alla ricerca del vero bene dell'uomo e della
società.
Invoco da Dio l'unità e la pace per la famiglia umana e dichiaro la
disponibilità di tutti i cattolici a cooperare per un autentico sviluppo
sociale, rispettoso della dignità d'ogni essere umano. Non risparmierò
sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei
venerati Predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca
comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti.
Penso in particolare ai giovani. A loro, interlocutori privilegiati del Papa
Giovanni Paolo II, va il mio affettuoso abbraccio nell'attesa, se piacerà
a Dio, di incontrarli a Colonia in occasione della prossima Giornata Mondiale
della Gioventù. Con voi, cari giovani, futuro e speranza della Chiesa
e dell'umanità, continuerò a dialogare, ascoltando le vostre
attese nell'intento di aiutarvi a incontrare sempre più in profondità
il Cristo vivente, l'eternamente giovane.
7. Mane nobiscum, Domine! Resta con noi Signore! Quest'invocazione, che forma
il tema dominante della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II per l'Anno
dell'Eucaristia, è la preghiera che sgorga spontanea dal mio cuore,
mentre mi accingo ad iniziare il ministero a cui Cristo mi ha chiamato. Come
Pietro, anch'io rinnovo a Lui la mia incondizionata promessa di fedeltà.
Lui solo intendo servire dedicandomi totalmente al servizio della sua Chiesa.
A sostegno di questa promessa invoco la materna intercessione di Maria Santissima,
nelle cui mani pongo il presente e il futuro della mia persona e della Chiesa.
Intervengano con la loro intercessione anche i Santi Apostoli Pietro e Paolo
e tutti i Santi.
Con questi sentimenti imparto a voi, venerati Fratelli Cardinali, a coloro
che partecipano a questo rito e a quanti sono in ascolto mediante la
televisione e la radio una speciale, affettuosa Benedizione.
SANTA MESSA
IMPOSIZIONE DEL PALLIO
E CONSEGNA DELL'ANELLO DEL PESCATORE
PER L'INIZIO DEL MINISTERO PETRINO
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
(Piazza San Pietro, Domenica 24 aprile 2005)
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio,
distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico,
carissimi Fratelli e Sorelle!
Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie
dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni
Paolo II; in occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi,
quando le abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: Tu illum adiuva -
sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto
particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto
ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II! Il Papa
che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso
questo tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero
di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo
- non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo
potuto invocare i santi di tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli
nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato
nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo
era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente
a casa sua. Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso
in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo
riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le
culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire
la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo
che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di
Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo
compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso
fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete
appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi
nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva
questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò
che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi
di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici,
la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza
mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo
le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi. Noi tutti
siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue
di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili
a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa
esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della
morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri
occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta
in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di
noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi
sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è
viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché
egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo
Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione
di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo
anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato
dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di
oscurità, come frutto della sua resurrezione.
La Chiesa è viva - così saluto con grande gioia e gratitudine
voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi,
carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi,
religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto
voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di
Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso
si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati
nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi;
ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio
spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di
Dio. Il mio pensiero, infine - quasi come un'onda che si espande - va a tutti
gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti.
Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di
governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già
potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno
altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello
di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi
in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà
del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a
guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un
programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui
viene rappresentata liturgicamente l'assunzione del Ministero Petrino; entrambi
questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene
proclamato nelle letture di oggi.
Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto
sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin
dal IV secolo, può essere considerato come un'immagine del giogo di
Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio,
prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio,
che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore,
che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio
vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di
Israele, era il suo grande privilegio. Questa è anche la nostra gioia:
la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica - magari in modo anche
doloroso - e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo
soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà
il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d'agnello
intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella
debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita.
La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era
per i Padri della Chiesa un'immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.
L'umanità - noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto,
non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli
non può abbandonare l'umanità in una simile miserevole condizione.
Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella
e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra
umanità, porta noi stessi - Egli è il buon pastore, che offre
la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo
portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l'un l'altro.
Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui
parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo
deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone
vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto
della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto
dell'abbandono, della solitudine, dell'amore distrutto. Vi è il deserto
dell'oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più
coscienza della dignità e del cammino dell'uomo. I deserti esteriori
si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati
così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al
servizio dell'edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere,
ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La
Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi
in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della
vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita,
la vita in pienezza. Il simbolo dell'agnello ha ancora un altro aspetto. Nell'Antico
Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo.
Questa era un'immagine del loro potere, un'immagine cinica: i popoli erano
per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento.
Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui
stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che
sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero
pastore: "Io sono il buon pastore
Io offro la mia vita per le pecore",
dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime,
ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante
volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse
duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie
del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò
che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell'umanità. Noi
soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della
sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo
viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento
dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini.
Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare
gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui
servizio si trova. "Pasci le mie pecore", dice Cristo a Pietro,
ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche
essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene,
il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento
della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici
- in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché
io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché
io impari ad amare sempre più il suo gregge - voi, la Santa Chiesa,
ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché
io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri,
perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.
Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l'insediamento
nel Ministero Petrino, è la consegna dell'anello del pescatore. La
chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito
alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano
gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto.
Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete
diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci:
"E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò"
(Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù
con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell'inizio: anche allora
i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora
Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone,
che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla
tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione:
"Non temere! D'ora in poi sarai pescatore di uomini" (Lc 5, 1-11).
Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere
il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini
al Vangelo - a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento
molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così:
per il pesce, creato per l'acqua, è mortale essere tirato fuori dal
mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento
all'uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario.
Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte;
in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori
dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella
vera vita. E' proprio così - nella missione di pescatore di uomini,
al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di
tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E' proprio
così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si
vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il
Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto
casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto
di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è
amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più
bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è
niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia
con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso
apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva
è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso
nel mondo.
Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell'immagine del pastore che in
quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all'unità.
"Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch'esse io devo
condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo
pastore" (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon
pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione:
"sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò"
(Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata!
vorremmo dire addolorati. Ma no - non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci
per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere
la via verso l'unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa
nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati
di quanto hai promesso. Fa' che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non
permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell'unità!
In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni
Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora,
e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: "Non
abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!" Il Papa parlava
ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar
via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la
libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro
qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio.
Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà
dell'uomo, alla sua dignità, all'edificazione di una società
giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.
Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo
totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui - paura che Egli
possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare
a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo
di trovarci poi nell'angustia e privati della libertà? Ed ancora una
volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla
- assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande.
No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia
si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana.
Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò
che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione,
a partire dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani:
non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona
a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo
- e troverete la vera vita. Amen.