Parrocchia di S. Stefano
Casalmaggiore 2004
44
Il relativismo, il Cristianesimo e l'Occidente
Parrocchia di S. Stefano
Casalmaggiore 2004
44
Presentiamo in questo Fascicolo
l'intervento su "Il relativismo, il Cristianesimo e l'Occidente" che
Marcello Pera, presidente del Senato, ha svolto presso la Pontificia Università
Lateranense di Roma il 12 maggio scorso in occasione dei 150 anni di fondazione
della Facoltà di diritto civile.
La "straordinaria attualità
della tematica" è stata sottolineata dal card. Szoka, presidente del
Governatorato della Città del Vaticano e della Associazione internazionale
lateranense nel suo indirizzo di saluto. Il rettore dell'Università, mons.
Rino Fisichella, richiamandosi ai "valori duraturi" radicati nella cultura
greco-romana, "arricchiti e elevati dalla tradizione giudaico-cristiana",
prospetta la necessità di "produrre un pensiero capace di imprimere
nel diritto interno di ogni Paese e in quello internazionale le forme giuridiche
che sappiano riconoscere il rispetto delle verità etiche, indispensabili
per promuovere la dignità di ogni persona. Il diritto alla verità
e, come sua conseguenza, l'esercizio della libertà piena".
La
lectio di Pera è una serrata analisi degli effetti del relativismo sul
Cristianesimo e sull'Occidente. Il presidente del Senato teme che questa crisi
possa toccare, "se non la dottrina, la predicazione della Chiesa cattolica",
che pure può "contribuire in maniera decisiva a curare la sofferenza
dell'Occidente". "Da tempo il relativismo è penetrato anche nella
teologia cristiana - lamenta - ne ha conquistato una parte e da lì, lentamente,
sotterraneamente, si è diffuso fra i credenti, in particolare nel clero,
dove, se non vedo male, ha agito forse non tanto sulla fede, quanto sulla difesa
della fede".
Oggi è diventato "politicamente scorretto"
sostenere ciò che era evidente per Max Weber, e cioè che la civiltà
occidentale ha dato luogo a espressioni e istituzioni di valore universale, e
in questo è migliore di altre culture dove ciò non è avvenuto.
Un'affermazione che non implica che si debba dichiarare guerra ai musulmani.
Anche sul dialogo, Pera non vuole essere frainteso: non si chiede certo il rifiuto
del dialogo, ma il dialogo non serve a nulla se si parte dal relativismo. "Sostengo
con convinzione i principi del dialogo, della tolleranza, del rispetto - puntualizza
- ma sostengo anche che se qualcuno rifiuta la reciprocità di questi principi
e ci dichiara l'ostilità o la jihad, allora dobbiamo prendere atto che
è un nostro avversario e dobbiamo difenderci".
Una relazione,
quella di Pera, molto densa, non sempre di facile lettura, a tratti anche provocatoria,
che nulla concede al politicamente corretto. Proprio per questo è una riflessione
da non trascurare, se non vogliamo cadere nelle fauci di sbadigli e di sonnolenze,
oggi presenti in tante società democratiche occidentali, che alla presa
di coscienza e allo studio critico dei problemi nuovi che si affacciano preferiscono
spesso una facile quanto ingenua acquiescenza al relativismo, diventato oggi la
bandiera delle democrazie occidentali. Se ciò accadesse, conclude Pera,
"allora, io credo, dobbiamo cominciare a stropicciarci gli occhi e a svegliarci".
Come dargli torto? Anche perché, esattamente il giorno dopo, 13 maggio,
il card. Ratzinger, invitato da Marcella Pera al Senato a parlare dell'Europa
e dei suoi fondamenti spirituali, ha sviluppato qualche pensiero che agli osservatori
è parso quanto mai in assonanza con quello del presidente del Senato. Due
voci autorevoli: per quel che dicono, prima ancora che per il ruolo che sono chiamati
ad esercitare.
Don Alberto Franzini
Casalmaggiore, 29 giugno
2004
Solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo
1.
Il tema
Vi ringrazio cordialmente per l'onore che mi avete fatto con
l'invito per questa ricorrenza del 150° anniversario della fondazione della
Facoltà di diritto civile di questa prestigiosa Pontificia Università.
Vi
ringrazio anche per il piacere che mi procurate di parlare a colleghi che stimo
e - se mi permettete, perché non vorrei esordire con un peccato - anche
"invidio" per la felice professione di insegnamento e ricerca che svolgono.
Quando
Monsignor Fisichella mi invitò e mi lasciò libero di svolgere un
tema di mio gradimento, presi al volo l'occasione per scegliere un argomento che
da tempo mi preme, mi induce a riflettere, spesso a scrivere: lo stato dell'Occidente.
Ho allora ripescato le mie riflessioni, ho deciso di abbreviarle, aggiornarle
e sottoporle a voi. Perché proprio queste riflessioni e non altre, lo dichiaro
in anticipo per presentarvi la cornice entro cui intendo muovermi e consentire
a voi una migliore valutazione critica delle mie opinioni.
I "perché"
sono tre. Perché ritengo che l'Occidente soffra di un grave stato di crisi
culturale. Perché ritengo che questa crisi rischi di toccare, se non la
dottrina, la predicazione della Chiesa cattolica. E perché - siccome, né
per laici né per credenti, c'è Occidente senza cristianesimo - io
ritengo che il cristianesimo possa contribuire in maniera decisiva a curare la
sofferenza dell'Occidente.
Questa sofferenza di cui parlo ha un nome noto,
relativismo, e da qui comincerò.
2. Un sintomo: l'autocensura
dell'Occidente
All'inizio del suo celebre saggio L'etica protestante
e lo spirito del capitalismo, Max Weber si pose la seguente questione: "per
quale concatenamento di circostanze è avvenuto che proprio sul suolo occidentale,
e qui soltanto, la civiltà si è espressa con manifestazioni, le
quali - almeno secondo quanto noi amiamo immaginarci - si sono inserite in uno
svolgimento, che ha valore e significato universale?" (M. Weber, L'etica
protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. Leonardo, Roma 1945, p. 1).
Weber
parlava in particolare "della più grande forza della nostra vita moderna:
del capitalismo", ma sono parecchie le creazioni e le istituzioni dell'Occidente
alle quali può essere applicato il medesimo quesito. Qui non mi occuperò
dell'aspetto storico del quesito. Ciò su cui invece desidero richiamare
l'attenzione è un problema filosofico, culturale, di tipo nuovo e paradossale.
Si
tratta di questo. Mentre tutte le spiegazioni che si sono succedute hanno mantenuto
la genuinità del quesito di Weber, oggi - esattamente cento anni dopo la
sua opera - è lo stesso quesito ad essere posto in questione. Il pensiero
attualmente prevalente in Occidente a proposito delle creature universali dell'Occidente
medesimo è che nessuna di esse ha valore universale. Sì che raccomandare
le nostre istituzioni al mondo sarebbe un gesto di arroganza intellettuale. E
sì che cercare di esportare queste istituzioni presso culture e tradizioni
diverse dalla nostra sarebbe un atto di imperialismo.
Ognuno può facilmente
convincersi di quanto questa convinzione sia diffusa riflettendo su un sintomo:
quell'autocensura e autorepressione che si nasconde sotto le vesti di ciò
che si chiama solitamente "linguaggio politicamente corretto", una sorta
di "neo-lingua" che l'Occidente oggi usa per ammiccare, alludere, insinuare,
ma non per dire o affermare o sostenere.
Si consideri un fenomeno. Tutto si
può confrontare e valutare dentro la cultura dell'Occidente - persino la
Coca Cola col Chianti -, e molto è concesso di confrontare fra particolarità
della cultura occidentale e particolarità di altre culture. Ma quando si
arriva alle culture medesime o a raggruppamenti di identità superiore -
come le civiltà di cui parlava Max Weber ieri e Samuel Huntington oggi
- e queste culture o civiltà si vogliano mettere in gerarchia o anche solo
ordinare sulla scala delle preferenze "migliore-peggiore", ecco che
scattano l'autocensura, la proibizione e le manette linguistiche. Con la conseguenza
che, ove si trovi una cultura che non abbia o decisamente respinga le nostre istituzioni,
non ci è consentito di dire che la nostra cultura è migliore di
quella o anche solo preferibile a quella.
Questa forma di "rieducazione
linguistica" a me suona inaccettabile. La respingo per ragioni intellettuali
e la respingo per ragioni morali (ciò che, alla fin fine, è la ragione
vera per cui si respingono le posizioni intellettuali). Comincio dalle prime,
ma prima di dirne i motivi filosofici generali, considero un caso concreto.
3. Due paralisi dell'Occidente
Dodici anni fa, nel 1992, uno studioso francese
di questioni islamiche, Olivier Roy, scrisse un libro intitolato L'échec
de l'Islam politique (Editions du Seuil, Paris 1992). La sua tesi, detta con le
sue parole, era che "l'Islam politico non resiste alla prova del potere
L'islamismo si è trasformato in un neofondamentalismo che si cura soltanto
di ristabilire il diritto islamico, la sharia, senza inventare nuove forme politiche"
(p. 9).
La prova di questa tesi Roy la trovava in una lunga serie di assenze
o mancate risposte: l'Islam, a suo dire, non ha prodotto nessun modello politico
proprio; nessun sistema economico particolare diverso da quelli noti; nessuna
istituzione pubblica che funzioni in modo autonomo; nessuno spazio libero fra
la famiglia e lo stato; nessun riconoscimento paritario della donna; nessuna comunità
sovranazionale diversa da quella religiosa; eccetera. Insomma, uno scacco. Scriveva
Roy: anziché aprirsi a sbocchi nuovi, "la parentesi islamista ha chiuso
una porta, quella della rivoluzione e dello stato islamico" (ivi, p.11).
È
vera o falsa questa tesi di Olivier Roy, e di molti altri che in Occidente pensano
alla stessa maniera? E, se è vera, si può allora dire oggi che il
modello occidentale è migliore di quello islamico, come ieri si diceva
che la democrazia occidentale è migliore del comunismo?
La risposta
alla prima domanda dipende soltanto da ricerche e analisi empiriche. La risposta
alla seconda domanda non dipende invece unicamente da analisi, perché manifestamente
esprime una valutazione ("migliore"). In proposito, una distinzione
preliminare è fondamentale.
Si tratta della distinzione tra giudizio
e decisione, cioè della distinzione tra affermare una tesi e assumere un
atteggiamento. Le due questioni sono relate, ma, da sé sole, non sono relate
dalla logica deduttiva. In particolare, affermare la tesi che il modello delle
istituzioni democratiche e dei diritti dell'Occidente è migliore del modello
dell'Islam non implica assumere alcun corso di azione particolare. Si può
dire che l'Occidente è migliore dell'Islam e tollerare l'Islam, rispettare
l'Islam, dialogare con l'Islam, disinteressarsi dell'Islam, oppure ostacolare
l'Islam, confliggere con l'Islam, e così via, secondo la gamma degli atteggiamenti
possibili.
Con un errore madornale, che però rivela il suo stato d'animo,
la cultura dominante in Occidente invece pensa il contrario. Pensa che un "deve"
discenda da un "è", per cui, se si sostiene che l'Occidente è
migliore dell'Islam - oppure, per scendere nel concreto, che la democrazia è
migliore della teocrazia, una costituzione liberale migliore della sharia, una
decisione parlamentare migliore di una sura, una organizzazione internazionale
migliore della humma, una sentenza di un tribunale indipendente migliore di una
fatwa, eccetera -, allora ci si deve scontrare con l'Islam. Un errore logico,
appunto, che si aggiunge all'altro, quello di ritenere che le nostre istituzioni
non abbiano diritto a essere considerate migliori di altre.
La conseguenza
di questi due errori è che oggi l'Occidente è paralizzato due volte.
È paralizzato perché non ritiene che ci siano buone ragioni per
dire che esso è migliore dell'Islam. Ed è paralizzato perché
ritiene che, se queste ragioni ci fossero, allora dovrebbe combattere l'Islam.
Personalmente,
nego queste posizioni. Nego che non vi siano ragioni valide per giudicare se certe
istituzioni siano migliori di altre. E nego che da un tale giudizio nasca necessariamente
uno scontro. Non nego però che se, ad una profferta di confronto si risponde
con uno scontro, lo scontro non debba essere accettato. Affermo piuttosto il contrario.
Sostengo con convinzione i principi del dialogo, della tolleranza, del rispetto,
ma sostengo anche che, se qualcuno rifiuta la reciprocità di questi principi
e ci dichiara una ostilità o la jihad, allora dobbiamo prendere atto che
è un nostro avversario e difenderci. In sostanza, rifiuto l'autocensura
dell'Occidente. Spiego perché.
4. Il relativismo dei contestualisti
L'idea
secondo cui non vi sarebbero buone ragioni per giudicare culture o civiltà
è notoriamente l'idea del relativismo. Essa oggi prende vari nomi: "pensiero
post-illuministico", "pensiero post-moderno", "pensiero debole",
"pensiero senza fondamenti", "pensiero senza verità",
"decostruttivismo", eccetera. Il marketing è vario, ma il target
è sempre lo stesso: si tratta di far proseliti all'idea che non esistono
prove o argomenti solidi per stabilire che qualcosa è migliore, o vale,
più di qualcos'altro.
Il relativismo parte da un dato incontestabile:
la pluralità dei valori, e da una posizione anch'essa difficilmente contestabile:
la non compossibilità di tutti i valori, nel senso che esiste sempre una
circostanza in cui perseguire un valore (poniamo l'amicizia) è incompatibile
con il perseguirne un altro (poniamo la giustizia. Si pensi al caso, da seminario
di filosofia morale, in cui un amico abbia commesso un reato sotto i nostri occhi:
si deve violare l'amicizia e denunciarlo o mantenere l'amicizia ed essere complici?).
Ma da queste premesse il relativismo fa discendere la conseguenza disastrosa che
gli insiemi di valori, come le culture e le civiltà, non possono essere
giudicati l'uno a fronte dell'altro.
Le strade percorse per arrivare a questa
conseguenza sono soprattutto due.
La prima strada è quella imboccata
dalla filosofia del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche con la sua tesi che
ogni "universo linguistico," quale è quello delle culture o delle
civiltà, ha le proprie regole di costruzione, significazione e decisione.
L'argomento a favore di questa tesi è che i contenuti non possono essere
separati dai criteri con cui li si giudica. Il vero, il bello, il buono in una
cultura sono tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella cultura.
I criteri sono sempre infra-, mai inter-culturali; essi sono contestuali.
Per
criticare questa tesi, mi limito ad osservare che per giudicare se una cultura
A sia migliore di una cultura B non occorre un meta-criterio comune ad A e B;
è sufficiente che i membri di A e di B desiderino impegnarsi in un dialogo
e sottoporsi alle critiche reciproche. Durante o alla fine del dialogo, un interlocutore
si troverà in difficoltà con l'altro e a quel punto la tesi dell'altro
sarà la posizione migliore. E migliore nell'unico significato che è
concesso ai mortali di conoscere: migliore perché resiste alle critiche.
All'obiezione:
"ciò che tu ci stai proponendo è la vecchia tecnica dell'elenchos,
o della confutazione, di Gorgia, Socrate, Platone e Aristotele, e dunque un criterio
buono solo dentro una cultura, quella occidentale", si può replicare
in tanti modi. Alla fine, con la "prova del nove". Se i membri della
cultura B mostrano liberamente di preferire la cultura A e non viceversa - se,
ad esempio, i flussi migratori vanno dai paesi dell'Islam all'Occidente e non
viceversa -, allora c'è ragione di credere che A sia migliore di B. E all'ulteriore
obiezione: "ma questo è falso, perché la conversione di B ad
A può essere frutto di indottrinamento, di propaganda, di un abbaglio",
si può rispondere: "se tu, che sei un relativista contestualista appartenente
alla cultura A, parli di abbaglio, ti contraddici, perché, per riconoscere
un abbaglio operante nella cultura B, dovresti avere un criterio di abbaglio comune
ad A e B che consentisse di distinguere il reale dall'apparente in entrambe".
Ma se c'è un criterio comune a due culture, allora il relativismo cade.
Volendo relativizzare tutto, il relativismo ha così tanto appetito che
è autofagico.
5. Il relativismo dei decostruttivisti
La
stessa autofagia mina l'altra strada percorsa dal relativismo, quella della decostruzione,
il cui capostipite riconosciuto è Nietzsche.
Il filosofo Jacques Derrida,
una delle voci più ascoltate dell'Occidente, ne è oggi un maestro
riconosciuto. Con molta maestria, egli ha applicato la decostruzione ad una serie
di concetti portanti dell'Occidente per mostrare che essi non resistono alla prova
della loro pretesa universalità. Ad esempio, Derrida ha decostruito l'ospitalità,
per mostrare che essa è una forma di imposizione; ha decostruito la democrazia,
per concludere che essa è un esercizio di forza; ha decostruito lo Stato,
per mostrare che esso in quanto tale è una canaglia (cfr. Stati canaglia,
trad. it. Cortina, Milano 2003). Alla fine, Derrida si è cimentato nell'esercizio
rischioso di decostruire anche il concetto di terrorismo.
Ma anche qui il risultato
è contraddittorio, e lo stesso Derrida ne ha fatto le spese.
Messo di
fronte al terrorismo dell'11 settembre, prima comincia a decostruirlo ("le
11 septembre, September eleventh, 11 settembre: alla fine, non si sa esattamente
cosa diciamo o cosa chiamiamo"), poi, come tanti oggi fanno, si appella all'ONU,
chiedendo che esso "disponga di una forza d'intervento sufficiente e non
dipenda più, per mettere in opera le sue decisioni, da Stati-nazione ricchi
e potenti, realmente o virtualmente egemonici, in grado di piegare il diritto
a loro vantaggio o ai loro interessi" (Filosofia del terrore, a cura di G.
Barradori, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 94 e p. 123). Un'opinione politica forse
corretta, ma - mi chiedo - come è possibile appellarsi all'ONU, dunque
un'istituzione democratica, dopo che si è decostruito il diritto, la giustizia,
la democrazia?
Derrida si rende conto di questa contraddizione e risponde:
"continuo a credere che è la fede nella possibilità di questa
cosa impossibile ... a dover determinare tutte le nostre decisioni" (ivi,
pp. 123-124). Dice proprio così: la fede. Né più né
meno la risposta che un povero e tanto bistrattato e decostruito filosofo illuminista,
messo alle strette, avrebbe dato.
Concludo sul punto. Il relativismo, anche
se si può concedere molto alle sue premesse, non è sostenibile.
Ha di contro i fatti. Contro il contestualismo, non nego la relazione (un tipico
rinforzo reciproco) criteri-contenuti. Nego le celebri tesi di P. Feyerabend:
"ogni teoria possiede la sua esperienza", o di T. Kuhn: "i sostenitori
di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti". Contro
il decostruttivismo, non nego che i fatti non esistano senza interpretazioni.
Nego la tesi di Nietzsche: "i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni"
(F. Nietzsche, Frammenti postumi, in Opere, Adelphi, Milano 1964, p. 299); o la
tesi di Derrida: "non c'è fuori-testo" (J. Derrida, Della grammatologia,
Jaca Book, Milano 1969, p. 182).
Li si tiri e titilli come ci pare, ma i fatti
restano un banco di prova ineludibile. Contro il relativismo nella scienza si
possono far valere i fatti degli esperimenti: alla fine, neppure il tolemaico
più ostinato poteva negare che Venere ha le fasi. Contro il relativismo
delle culture, si possono opporre i fatti delle aspettative: alla fine, neanche
Derrida nega che, per far fronte al terrorismo, sia auspicabile una decisione
di organismi internazionali. E contro il relativismo delle civiltà, si
possono opporre i fatti delle preferenze: alla fine, neanche il relativista multiculturalista
più spinto nega che tutti gli uomini, se lasciati liberi, preferiscono
vivere in condizioni di sicurezza, tolleranza, rispetto, salute, benessere, pace.
Resta
la fede, alla quale infine si appella anche Derrida. E se anche la fede fosse
relativa? Questo è l'altro tema del mio discorso a cui ora mi rivolgo.
6.
Il relativismo della fede cristiana
Ha scritto di recente il Cardinale
Joseph Ratzinger che "il relativismo in certo qual modo è diventato
la vera e propria religione dell'uomo moderno" (Fede, verità, tolleranza,
trad. it. Cantagalli, Siena 2003, p. 87), e che esso è "il problema
più grande della nostra epoca" (ivi, p. 75). Poi si è posto
una serie di domande: "la forza che ha trasformato il cristianesimo in una
religione mondiale è consistita nella sua sintesi fra ragione, fede e vita
... perché questa sintesi non convince più oggi? Perché la
razionalità e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come
contraddittori e addirittura reciprocamente escludentesi? Che cosa è cambiato
nella prima e che cosa nel secondo?" (ivi, p.184).
Nella prima, la razionalità,
- credo di poter rispondere - è cambiata la fede nei fondamenti, nelle
prove, nelle buone ragioni. Nel secondo, il cristianesimo, - mi azzardo a dire
- è cambiata la fede nella Rivelazione.
Da tempo il relativismo è
penetrato anche nella teologia cristiana, ne ha conquistato una parte, e da lì,
lentamente, sotterraneamente, si è diffusa fra i credenti, in particolare
nel clero, dove, se non vedo male, ha agito, forse non tanto sulla fede, quanto
sulla difesa della fede.
All'inizio, sta il pluralismo. Il teologo Paul Knitter
ha posto la questione in questi termini: "Il presupposto fondamentale del
pluralismo unitivo è che tutte le religioni sono o possono essere ugualmente
valide. Ciò significa che i loro fondatori, i personaggi religiosi che
stanno dietro ad esse, sono o possono essere ugualmente validi. Ma ciò
potrebbe dischiudere la possibilità che Gesù Cristo sia 'uno tra
i tanti' nel mondo dei salvatori e dei liberatori. E il cristiano non può
semplicemente riconoscere una cosa del genere, o lo può?" (P. Knitter,
Nessun altro nome?, trad. it. Queriniana, Brescia 1991, p. 44).
Incredibile
a dirsi, per Knitter, lo può. È così per lui, come per John
Hick e altri teologi, occorre ripensare la cristologia tradizionale. "Ego
sum via, veritas et vita"; "extra Verbum nulla salus", "Gesù
è l'unigenito Figlio di Dio": "queste e altre affermazioni del
Vangelo, secondo questi teologi relativisti, dovrebbero essere rivedute o intese
diversamente.
Come? Ecco un esempio tratto dal medesimo Knitter. Quando il
cristiano dice "Gesù è l'unico amore", ciò va inteso
- egli scrive - nel senso "che un marito usa nei confronti di sua moglie
(o viceversa): "sei la donna più bella del mondo, sei l'unica donna
per me"" (op. cit. pp.155-56). Insomma, dire: "Gesù, ti
amo" sarebbe né più né meno come dire: "Cara, ti
voglio bene".
Ma perché il povero cristiano dovrebbe convertirsi
a questa "neo-lingua" politicamente, o teologicamente, corretta? La
ragione - come ha scritto ancora il cardinale Ratzinger - sta nel fatto che "il
ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante
e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede
della Chiesa, viene qualificato come fondamentalismo" (op. cit., p. 124).
E poiché il fondamentalismo è oggi un nuovo peccato capitale, meglio
votarsi al relativismo, tanto più che - ha scritto ancora il Cardinale
Ratzinger - "il relativismo appare come il fondamento della democrazia"
(p. 121).
Il Cardinale Ratzinger nega valore a questa tesi e anch'io trovo
che sia contraddittoria, falsa, e controproducente per il cristiano. Contraddittoria:
se, con il relativismo, si sostiene che non esistono fondamenti, allora neppure
il relativismo può essere il fondamento della democrazia. Falsa: la democrazia
si basa sui valori della persona, della dignità, dell'uguaglianza, del
rispetto; togliete valore a questi valori e avrete tolto la democrazia. E controproducente:
se, relativisticamente, una verità vale l'altra, a che scopo il dialogo?
E se, nella fede, non esiste la verità, come ci si può salvare?
La
mia risposta è: se non esiste la verità, allora il credente non
si può salvare. Per il credente, Cristo è Rivelazione, è
il Verbo che si è fatto persona. E questo Dio-persona è un fatto
(il "fatto cristiano", come lo ha chiamato monsignor Angelo Scola; cfr.
"Cristianesimo e religioni nel futuro dell'Europa", in L'identità
dell'Europa e le sue radici, Edizioni del Senato, Rubbettino, Soveria Mannelli
2002, p.39). O lo neghi, questo fatto cristiano, e allora affermi il relativismo
religioso, oppure lo ammetti e allora ti prepari alle conseguenze.
7.
Il cristianesimo, il dialogo e l'Islam
Ma a quali conseguenze porta
il fatto cristiano? Qui passo dalla critica teorica al relativismo alla critica
morale.
È noto che, in teologia, l'esclusivismo oggi è caduto
in disuso, e all'inclusivismo che gli è succeduto si è associato
il dialogo su cui un'enfasi particolare pose il Concilio Vaticano II. Ma sul dialogo
occorre porsi qualche domanda. Due, in particolare: dialogo per che cosa? dialogo
su che cosa?
Cominciamo dalla prima domanda. Una prima risposta è: dialogo
per la comprensione reciproca dei credenti nelle varie fedi. Questa risposta,
che mostra il desiderio della Chiesa di parlare ai moderni, non solleva particolari
problemi, ma non basta. Se non si vuole rinunciare alla missione della Chiesa,
occorre aggiungere: dialogo per l'evangelizzazione. Ma che rapporto c'è
fra l'una e l'altra finalità, fra la comprensione e l'evangelizzazione?
Francamente,
nelle risposte a queste domane avverto il disagio di un'ambiguità. Nella
Redemptoris missio (n. 55) si dice che "il dialogo interreligioso fa parte
della missione evangelizzatrice della Chiesa", ma "non dispensa dall'evangelizzazione".
Ma se "fa parte" e "non dispensa", cioè se fa parte
indispensabile, allora il dialogo non è un elemento, ma uno strumento dell'evangelizzazione.
Perché allora tanta reticenza ad usare la parola "strumento"?
Inclino
a pensare che la risposta risieda in un timore: il timore - alimentato dal relativismo
- che anche per la Chiesa il dialogo come strumento di evangelizzazione sia percepito
come una forma di imperialismo.
Avverto la stessa ambiguità anche nella
risposta alla seconda domanda: dialogo interreligioso su che cosa? Certo, non
sulla Rivelazione, perché è la Rivelazione è Verità.
Si potrebbe dire: su valori come la comunità, la fratellanza, la tolleranza,
oppure la pace, la dignità, la promozione della persona, che sono comuni
a molte religioni. Ma questi sono valori secolari; l'evangelizzazione cristiana
non predica la secolarità, predica la trascendenza, la sua unica trascendenza.
Ma se questa trascendenza è unica, come parlare allora di "elementi
di verità e di grazia" (Ad gentes, n. 9) anche nelle altre religioni?
Di
recente, padre Piero Gheddo ha risposto ad una provocazione di un sociologo americano
(R. Scott Appleby, "Il Papa fra tre fuochi", in Global Foreign Policy,
marzo-aprile 2004, pp. 28-34), il quale ha addirittura proposto una alleanza tra
cristianesimo e Islam contro l'Occidente. Ha ricordato padre Gheddo: "in
nessun paese islamico i cristiani sono totalmente liberi, come i musulmani lo
sono in Occidente
I musulmani dovrebbero fare un bell'esame di coscienza
sui loro comportamenti collettivi: la violazione sistematica dei diritti dell'uomo,
il terrorismo, le pratiche oppressive contro le donne e i bambini, la mancanza
di democrazia, il formalismo religioso e sociale che schiaccia la persona"
(ivi, pp. 38 e 40).
È così, se si vuole dire ciò che si
vede. Mentre noi consentiamo che accanto alle chiese delle nostre parrocchie fioriscano
moschee, nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani non è concesso
costruire una chiesa. Peggio, mentre i musulmani non consentono la reciprocità
dei nostri princìpi e valori, noi ci concediamo la decostruzione relativistica
di quegli stessi principi e valori e teorizziamo il dialogo, anche quando - come
scrive ancora padre Gheddo - "occorre riconoscere che il dialogo come lo
concepivano i padri del Concilio ha portato scarsi frutti".
Forse mi sbaglio
o mi preoccupo inutilmente. Ma vedo un rischio: che il timore delle scelte induca
i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora
è meglio affievolire la fede, indulgere al dialogo a qualunque costo o
abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto. Ma il cristiano debole,
come il pensatore debole, alla fine diventa un cristiano arrendevole.
Un esempio
di questa debolezza mi sembra di poterlo scorgere nel modo in cui è stata
affrontata e si è negativamente risolta la questione del richiamo alle
radici cristiane nel preambolo della Costituzione dell'Europa unita. Perché
è andata così?
Non perché non sia vero che l'Europa non
abbia radici cristiane. Tutto il contrario. È vero che la maggior parte
delle nostre conquiste derivano, positivamente o criticamente, da lì, dal
messaggio del Dio che si è fatto uomo. È vero che, senza questo
messaggio, che ha trasformato gli individui in persone, essi non avrebbero dignità.
È vero che i nostri valori, diritti e doveri di uguaglianza, tolleranza,
rispetto, solidarietà, compassione, nascono da quel sacrificio di Dio.
È vero che il nostro atteggiamento verso gli altri - di qualunque condizione
o ceto o aspetto o cultura essi siano - dipende dalla rivoluzione cristiana. È
vero che le nostre stesse democrazie ne sono informate, compreso quella preziosa
laicità delle istituzioni che distingue ciò che è di Dio
da ciò che è di Cesare, ciò che è dello Stato da ciò
che è dell'individuo. E così via.
E allora, perché è
andata così? Perché lo stesso appello insistente del Papa non è
stato accolto? Perché i popoli cristiani dell'Europa non si sono mobilitati
per innalzare la loro bandiera, mentre a milioni si sono messi in marcia per la
pace e il dialogo anche con coloro che attaccano espressamente i valori fondanti
dell'Occidente?
La mia risposta è: perché - nell'era del relativismo
trionfante - il vero non esiste più, la missione del vero è considerata
fondamentalismo, e la stessa affermazione del vero fa paura o solleva timori.
Forse si sta avverando la profezia negativa della Veritatis splendor (n.101),
l'"alleanza fra democrazia e relativismo etico".
Il relativismo -
e questa è la vera ragione morale della mia critica ad esso - affievolisce
le nostre difese culturali e ci prepara o rende inclini alla resa. Perché
ci fa credere che non c'è niente per cui valga combattere e rischiare.
Perché non ci dà più argomenti o ce ne dà di sbagliati
persino quando altri volesse toglierci il Crocifisso dalle scuole. O perché,
mentre vuol farci credere di essere alla base dello stato laico, liberale e democratico,
alla fine, messo alle strette, si converte in quel dogmatismo laicista di Stato
che vieta alle ragazze di fede islamica di indossare lo hijab a scuola.
8. Lo sbadiglio dell'Occidente
Sono alla conclusione. Mi si potrà
chiedere: ma perché combattere e rischiare? C'è forse una guerra?
La
mia risposta è: dall'Afganistan al Kashmir alla Cecenia alle Filippine
all'Arabia Saudita al Sudan alla Bosnia al Kosovo alla Palestina alla Turchia
all'Egitto all'Algeria al Marocco, e altrove, in gran parte del mondo islamico
e arabo gruppi consistenti di fondamentalisti, radicali, estremisti - Talebani,
al Qaeda, Hezbollah, Hamas, Fratelli musulmani, Jihad islamica, Gruppo armato
islamico, e molti altri ancora - hanno dichiarato guerra all'Occidente, la jihad.
Lo hanno detto, scritto, diffuso a chiare lettere. Perché non prenderne
atto?
Si dirà: sono atti di terrorismo da parte di gruppi di fanatici.
Rispondo: temo di no, il terrorismo è lo strumento di una guerra culturale
e armata. Si dirà ancora: non si può a nostra volta combattere con
le armi. Rispondo: spero sinceramente che non si debba, ma se, come già
accade, l'Occidente fosse costretto ad usare la forza, perché escluderla?
Se la forza giusta e di difesa, lo stesso cristianesimo non ammette forse una
forza giusta e per difesa?
Non mi si fraintenda, per disattenzione o magari
deliberatamente. Non si speculi sotto o dietro le mie parole. Non sto perorando
una dichiarazione di guerra dell'Occidente. Sto perorando un'altra cosa, che a
me sembra anche più importante: sto perorando la consapevolezza che esiste
un conflitto di cultura e in armi che alcuni - molti, troppi - hanno dichiarato
all'Occidente. Non sto chiedendo il rifiuto del dialogo. Sto chiedendo un'altra
cosa, che è più fondamentale: sto chiedendo la consapevolezza che
il dialogo non serve a niente se, in anticipo, uno dei dialoganti dichiara che
una tesi vale l'altra.
Questa duplice consapevolezza la vedo poco presente
in Occidente, soprattutto in Europa. E non la trovo diffusa nello stesso cristianesimo
europeo, che a me oggi appare timido, sconcertato, angosciato.
C'è una
ragione profonda di questa scarsa consapevolezza, che capisco e rispetto. L'idea
stessa di una guerra di civiltà o di religione fa paura. Accanto a questa
che capisco, c'è una ragione che invece non capisco: si tratta dell'idea
della "colpa dell'Occidente".
Ora, l'Occidente è costato al
mondo colonialismo, imperialismo, nazionalismo, antisemitismo, nazismo, fascismo,
comunismo. Avendo mangiato i frutti avvelenati dell'albero della conoscenza, non
è un paradiso terrestre. E però non possiamo fermarci agli errori
e anche orrori dell'Occidente. Se si deve fare un bilancio corretto, occorre mettere
i meriti accanto ai torti, e se si vuole celebrare un processo equo, occorre contrapporre
la difesa all'accusa.
"La civiltà occidentale - ha affermato un
penetrante scrittore, Pietro Citati - ha grandissime colpe, come qualsiasi civiltà
umana. Ha violato e distrutto continenti e religioni. Ma possiede un dono che
nessuna altra civiltà conosce: quello di accogliere ... tutte le tradizioni,
tutti i miti, tutte le religioni, tutti o quasi tutti gli esseri umani" (P.
Citati, "L'Occidente senza forza e l'esercito del terrore", Repubblica,
31 marzo 2004). E un altro grande scrittore, Mario Vargas Llosa, ha detto della
civiltà occidentale: "il suo merito più significativo, quello
che, forse, costituisce un "unicum" nell'ampio ventaglio delle culture
mondiali ... è stata la capacità di fare autocritica" (M. Vargas
Llosa, "Occidente. L'agonia del paradiso", La Stampa, 18 aprile 2004).
Fare
autocritica, ammettere gli errori, correggerli, punire chi ha sbagliato, è
linguaggio e dovere laico. Riconoscere le colpe ed espiarle è espressione
ed esperienza cristiana. Si può seguire l'una o l'altra strada, ma non
possiamo dimenticarci chi siamo, chi vogliamo essere, chi dobbiamo essere.
"La
democrazia - ha scritto ancora Vargas Llosa - è un evento che provoca sbadigli
nei paesi in cui esiste uno stato di diritto". Spero che non sia così.
Ma se lo è, allora, io credo, dobbiamo cominciare a stropicciarsi gli occhi
e a svegliarci.
- Fine.