Parrocchia di S. Stefano
Casalmaggiore
43
L'educazione
una
sfida urgente
Parrocchia di S. Stefano
Casalmaggiore
43
Don Alberto Franzini
Casalmaggiore,
23 maggio 2004
Domenica dell'Ascensione del Signore
L'educazione
è una sfida in un duplice significato. La cultura oggi dominante (sarò
più preciso dopo), rendendo impossibile l'educazione perché prima
l'ha resa impensabile, "sfida" i grandi soggetti educativi (le fondamentali
"agenzie educative") a dimostrare, per così dire, se possono
ancora educare. Ma sono anche i grandi soggetti educativi, le fondamentali "agenzie
educative", che "sfidano" quella cultura, proponendosi come ancora
capaci di educare la persona umana.
Questo approccio al problema dell'educazione
indica già chiaramente i passi che faremo nel nostro cammino riflessivo.
Dapprima cercheremo di capire perché la cultura oggi dominante ha reso
impossibile perché impensabile l'attività educativa: e sarà
questo il primo punto della mia riflessione. Potremmo chiamarla la diagnosi della
situazione. Poi cercheremo di capire perché oggi è possibile, cioè
ragionevole e praticabile, una vera proposta educativa. Potremmo chiamarla la
terapia della situazione. Infine, nel terzo punto, farò alcune semplici
riflessioni sul tema del nostro convegno regionale.
1. Diagnosi della situazione
Vorrei partire da una constatazione sulla quale credo che
tutti consentiamo. "Mai come oggi l'ambiente, inteso come clima mentale e
modo di vita, ha avuto a disposizione strumenti di così dispotica invasione
delle coscienze. Oggi più che mai l'educatore, o il diseducatore sovrano
è l'ambiente con tutte le sue forme espressive" (L. Giussani, Porta
la speranza. Primi scritti, ed Marietti 1820, Genova 1998, p. 16). Penso che l'ambiente,
così inteso, oggi stia rendendo impraticabile l'atto educativo poiché
lo ha reso impensabile.
Prima di procedere alla dimostrazione di questa affermazione,
mi vedo costretto a premettere una, per così dire, definizione di "atto
educativo". Brevemente, poiché il secondo e terzo punto verteranno
precisamente su questo. Educare significa "introdurre una persona nella realtà"
( cf. L.A. Jungmann, Christus als Mittelpunkt der religioser Erziehung, ed. Herder,
Freiburg i.B. 1939, p. 20).
Non si introduce una persona nella realtà
se non la si introduce nel significato della realtà. Significato qui denota
la risposta alle due domande fondamentali che nascono nella persona dal semplice
"contatto" con la realtà (apprehensio entis: S. Tommaso): che
cosa è ciò che è (domanda sulla verità della realtà)?
che valore ha ciò che è (domanda sulla bontà della realtà)?
Una persona è introdotta nella realtà quando conosce la verità
e il valore della realtà medesima: quando ne sa dare perciò un'interpretazione
sensata. Quando ha trovato la propria "casa nel mondo interpretato"
(R.M. Rilke).
Se questo è l'atto educativo, a quali condizioni esso
è pensabile? Quando cioè è ragionevole l'educazione come
introduzione della persona nella realtà?
Solo se si pensa che possa
esistere un rapporto dell'uomo con la realtà: un rapporto istituito dalla
nostra intelligenza e dal nostro desiderio ragionevole. Un rapporto reso possibile
e dalla costitutiva apertura della persona alla realtà e dalla originaria
intelligibilità e bontà della realtà. Solo se questo è
il rapporto originario fra persona e realtà, è pensabile, e quindi
praticabile, un agire educativo inteso come "introduzione nella realtà".
Ora la cultura attuale (la cosiddetta post-modernità) è dominata
dalla negazione di quel rapporto originario: non esiste una realtà da interpretare.
Esistono solo delle interpretazioni della realtà, sulle quali è
impossibile pronunciare un giudizio veritativo, dal momento che esse non si riferiscono
a nessun significato obiettivo. Siamo chiusi dentro al reticolato delle nostre
interpretazioni del reale, senza nessuna via di uscita verso il reale medesimo.
E' esattamente su questo punto che ci viene lanciata la vera sfida educativa.
E quindi nessuna vera opera educativa è oggi possibile se non affronta
questa sfida, e non si pone come radicale e totale alternativa a quella posizione.
Alla posizione intendo dire che nega che esista un originario rapporto della persona
con la realtà.
Per liberarvi da qualsiasi impressione di un discorso
che poco avrebbe a che fare con chi svolge concretamente l'opera educativa, vorrei
ora mostrarvi le implicazioni di quella posizione. Sarà più facile
vedere immediatamente descritto il ritratto spirituale di tanti ragazzi e giovani
che noi incontriamo.
Prima implicazione. Poiché "non ci sono
fatti, ma solo interpretazioni" (F. Nietzsche) diventa impossibile dare un
giudizio di verità sopra di esse. Ogni interpretazione ed il suo contrario
è ugualmente valido. La realtà è semplicemente questo insieme,
questo gioco di interpretazioni. Cioè: è semplicemente privo di
senso porsi la domanda della verità.
Si pensi a che cosa sta significando
tutto questo in ordine alla definizione stessa dell'istituzione matrimoniale,
per fare solo un esempio. Se l'essere-uomo / l'essere-donna non possiede un senso
obiettivo, ma ha quel senso che ciascuno gli attribuisce, non si vede perché
debba chiamarsi matrimonio solo l'unione fra l'uomo e la donna. In sostanza, la
sessualità ha il significato che tu decidi di attribuirle.
Questa
dissoluzione del reale nel gioco senza fine delle interpretazioni ha avuto un
effetto devastante nello spirito: ha estenuato la passione per l'uso della ragione.
Essere persone ragionevoli, fare uso della propria ragione che cosa significa
se non cercare il vero? Se non discernere il vero dal falso? Se non desiderare
di sapere "come stanno le cose"? La lettura del cap. XL dell'autobiografia
di Teresa d'Avila è al riguardo assai illuminante. Ha ancora senso, vale
ancora la pena sobbarcarsi alla fatica del ragionare, se qualsiasi conclusione
ha lo stesso valore del suo contrario? La difficoltà che ogni educatore
oggi incontra nel "far ragionare" i ragazzi ha radici assai profonde:
è una malattia mortale dello spirito.
Seconda implicazione: lo smarrimento
del senso della libertà. Ci si priva della sua drammatica e grandiosa consistenza,
poiché la si vive riducendola a mero arbitrio (non intendo dare a questo
termine un significato etico). Arbitrio significa: libertà che si esaurisce
interamente nella scelta fra infinite possibilità aventi tutte lo stesso
valore, dal momento che sono prive di una qualsiasi radicazione in senso obiettivo.
Poiché l'essere è neutrale di fronte ad ogni impatto che la libertà
ha con esso, una scelta vale l'altra.
Questa è certo una libertà
"libera dagli affanni della realtà, ma libera anche dalle sue gioie,
libera dalla sua benedizione" (S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, Milano
1989, p. 217).
Questa dissoluzione della libertà nella pura scelta,
genera nei nostri ragazzi e giovani un senso di "stanchezza" spirituale:
la tristezza del cuore, la chiamano i Padri del deserto. Ed ogni educatore la
vede oggi stampata nel volto di tanti nostri ragazzi e giovani.
Terza implicazione.
Viene meno il senso della propria vita come una storia: il senso del tempo si
corrompe. Il tempo che passa non è più vissuto come occasione (kairòs,
lo chiama il Nuovo Testamento) perché tu maturi, cresca nell'essere verso
la tua beatificante pienezza, nella fedeltà ad una scelta che per il suo
valore è stata definitiva. Ha de-finito il tuo volto, la tua esistenza.
"Ora - per sempre": i due poli della nostra vicenda storica. Il secondo
è tolto e così anche il primo ha perduto ogni serietà. Le
convivenze spesso preferite senza serie ragioni al matrimonio sono un segno di
questa condizione spirituale.
E' possibile educare in questo contesto? E'
questa la sfida che ci viene oggi lanciata. E' possibile ridare la passione per
la verità, il gusto per la libertà, la gioia della definitività
del dono?
In realtà è stato proposto un progetto educativo alternativo
alla definizione di educazione data sopra. Esso è riassunto nella affermazione
di G. Vattimo: "vedere se riusciamo a vivere senza nevrosi in un mondo in
cui 'Dio è morto'" (in Al di là del soggetto. Nietzsche Heidegger
e l'ermeneutica, ed. Rizzoli, Milano 1981, p. 18).
L'alternativa non poteva
essere espressa meglio. Cerchiamo di coglierne brevemente i contenuti.
E'
un'educazione che non introduce nella realtà, ma dentro al gioco senza
fine delle contraddittorie interpretazioni della realtà: dei vari significati
decisi liberamente da ciascuno.
E' un'educazione che deve introdurre la persona
ad un'esistenza umana vissuta come risposta a due esigenze di fatto inconciliabili.
Da una parte un'esistenza umana vissuta da una persona che, sganciata da
ogni appoggio al reale, vuole essere libera nel senso "astratto" del
termine. Si preferisce rimandare il più possibile le decisioni più
serie; si ridicolizza ogni definitività nelle decisioni. Si vanifica il
reale dell'esistenza e quindi della libertà. Essere liberi è ormai
sinonimo di assenza di impegno: "sono libero" vuol dire anche ormai
nel linguaggio comune, "non ho impegni". E' significativo al riguardo
il modo con cui è stato trattato il problema dell'educazione sessuale:
informare in modo tale che uno possa fare della propria sessualità ciò
che vuole, senza averne danni fisici (Aids, per esempio).
Dall'altra parte,
una soggettività come questa, affermata cioè attraverso la delegittimazione
di ogni significato normativo fondato nella realtà, deve però porsi
il problema del raccordo con gli altri. E' possibile educare ad una vera comunità
umana partendo da quella esperienza di libertà? Ancora una volta, solo
ad una comunità "leggera", non dotata di una reale consistenza.
Mi spiego.
Nell'ipotesi educativa di cui stiamo parlano, è impensabile
una comunità umana consistente o nella partecipazione agli stessi valori
o perfino nella "comunione di persone" (= comunità coniugale).
E' impensabile l'esistenza di un universo reale di valori; è impensabile
il dono definitivo di se stesso all'altro. Ed allora educare alla vita in società
che cosa significa? Educare alla tolleranza. Riflettiamo attentamente su questo
codice sociale fondamentale. Che cosa significa? Quale tipo di rapporto esso connota?
Che l'alterità, la diversità è qualcosa di neutrale: il fatto
che esistono gli altri non ha in se stesso e per se stesso nessun significato.
Il nichilismo tragico (Sartre) riteneva che fosse un fatto assolutamente negativo:
"gli altri sono l'inferno" (Sartre). La Sacra Scrittura ritiene che
il fatto è eminentemente positivo, poiché "non è bene
che l'uomo sia solo". Il gaio nichilismo contemporaneo giudica questo fatto
semplicemente privo di ogni significato. L'altro è, e quindi deve essere
accettato nella sua fattività: ciascuno tollera ciascuno. Non ha senso
che io mi chieda e ti chieda se ciò che pensi sia vero o falso: ogni opinione
ed il contrario di ogni opinione ha lo stesso valore. Non siamo abitati da una
struggente passione per la verità. Ogni opinione deve essere rispettata!
Semplicemente è più utile che ciascuno tolleri ciascuno, sulla base
del principio che la mia libertà non si scontri con la tua.
L'incontro
con l'altro non è un'alleanza originaria, ma è di volta in volta
liberamente contrattato. Non è pensabile un rapporto diverso da quello
istituito contrattualmente. Ho parlato di "società-comunità
leggera". Ora, spero, il senso è chiaro: "leggera" significa
esclusivamente e totalmente fatta e disfatta dal libero gioco delle libertà.
Un rimando ad un'alleanza originaria è escluso.
2. Risposta
alla sfida
La necessaria schematicità dell'esposizione non avrà
certa fatto piena giustizia ad un fenomeno culturale assai complesso. Ma penso
però di averne delineato l'essenza in modo corretto.
Stando così
le cose, oggi l'educatore è posto dentro l'alternativa di due proposte
educative contrarie: appunto è una sfida che gli viene fatta, dalla quale
non può esimersi. In sostanza è inevitabile che l'educatore si chieda:
è possibile educare non introducendo alla realtà? o meglio: è
ragionevole educare non introducendo alla realtà? In questo secondo punto
cercherò di rispondere a questa domanda. L'idea centrale della mia risposta
è la seguente: l'unica proposta educativa ragionevole è quella che
consiste nell'introdurre la persona umana nella realtà.
Prima di dimostrare
la verità di questa tesi, devo spiegare che cosa intendo per "ragionevole".
Molto semplicemente intendo corrispondente, conveniente all'intera esperienza
umana, senza escludere nulla. Quindi, per dire la stessa cosa in forma negativa,
una proposta educativa diversa non corrisponde, non conviene all'esperienza vissuta
dalla persona. La persona educata secondo essa viene smisuratamente impoverita.
E' ciò che ora brevemente cercherò di farvi vedere.
Già
Aristotele notava che ogni vita umana spirituale nasce dallo stupore, dalla meraviglia.
Ed uno dei più grandi Padri della Chiesa, S. Gregorio di Nissa, scrive:
"I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce" (La vita di Mosè,
PG 44,377B). Stupore di che cosa? meraviglia per che cosa? Della realtà:
che ci sia "qualcosa" e non "niente". Del fatto che io ci
sia.
Perché il reale di cui ho esperienza suscita stupore, meraviglia?
Perché il mio stesso esserci suscita stupore, meraviglia? Perché
non c'è nessuna ragione in me stesso per cui io debba esserci: nessuno
è necessario. Una pagina di Pascal esprime stupendamente questo stupore
e meraviglia, che diventano quasi paura:
"Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono destinati questo luogo e questo tempo? Memoria hospitis unius diei praetereuntis" (Pensieri, 205).
E' possibile
spegnere questa domanda radicale che dimora nel cuore dell'uomo? E' giusti nei
confronti dell'uomo estenuarla, censurarla? O non dobbiamo piuttosto assumerla
e iniziare un cammino di risposta? Essa nutre quello che potremmo chiamare il
desiderio fondamentale della nostra vita: quel desiderio che ci definisce (gli
uomini sono desiderio: Agostino). Lo potremmo chiamare desiderio della realtà,
desiderio di essere. La grande tradizione classica e cristiana lo indicavano con
una parola pressoché scomparsa dal nostro vocabolario: desiderio di beatitudine
(termine ora quasi completamente svuotato nel suo equivoco "felicità").
Beatitudine è pienezza di essere.
Ma perché quella domanda
nutre il desiderio di essere? Perché nello stesso tempo afferma e la limitatezza
del mio esserci e l'illimitatezza dell'Essere. Ciascuno di noi esiste come un
essere limitato in un mondo limitato, ma la sua ragione è aperta all'illimitato,
a tutto l'essere. Ne è prova la conoscenza della sua finitezza e limitatezza:
io sono, ma potrei anche non essere (cf. H.U.von Balthasar, La mia opera ed epilogo,
ed. Jaca Book, Milano 1993,, pp.87-97).
Ciascuno di noi gode di beni limitati,
ma la sua volontà è diretta verso il bene illimitato; a tutto il
bene. Ne è prova quel senso di insoddisfazione che proviamo continuamente.
Pertanto, la "posizione" della persona umana è paradossale: posta
in una condizione ontologica "fragile" (contingente), essa gusta per
così dire quanto è bene l'essere, quell'essere di cui non è
in possesso. Di qui il suo desiderio di realtà, di beatitudine. Introdurre
una persona nella realtà (educarla) significa guidarla verso la beatitudine.
La contro-proposta educativa di cui ho parlato nel punto precedente giudica
precisamente insensato questo desiderio (di realtà), bloccando la ricerca
di una realtà adeguata e corrispondente ad esso. Essa estingue ogni desiderio
verso un "oltre", ogni ricerca che nasca dalla nostalgia di pienezza.
Ciò che in questa sfida è in questione, è alla fine ciò
che pensiamo dell'uomo: la misura della stima con cui lo valutiamo.
* Alcune riflessioni sullo sport
Vorrei partire dalla riflessione di un filosofo
pagano: "che giova guidare il cavallo e regolarne la corsa con le briglie,
se poi ci lasciamo trascinare dalle passioni più sfrenate? Che giova vincere
molti nella lotta o nel cesto, se poi ci lasciamo vincere dall'ira? (Seneca, Lettere
a Lucilio, 99, 19).
Esiste un'abilità fisica; esiste un'"abilità"
spirituale. Ciò che pone la persona nella pienezza della sua dignità
non è la prima, ma la seconda. La prima è al servizio della seconda.
Detto in altri termini. L'attività sportiva non si propone lo scopo ultimo
della vita, e pertanto ha un valore relativo perché è mezzo ad uno
scopo più alto: assicurare il dominio della nostra libertà sul corpo.
Ma esso non è un mezzo infallibile: può essere distorto dal suo
scopo ultimo, la formazione della persona. Il motto [di Giovenale] che viene solitamente
citato, è citato in modo tale da cambiarne il senso. Il testo intero del
poeta dice: "orandum est ut sit mens sana in corpore sano".
Se
lo sport viene distaccato da una visione adeguata della persona umana, dominio
dello spirito sulle membra, è esposto ad ogni degradazione.
E' questa
la ragione vera di una presenza di cristiani nel mondo dello sport: prendersi
cura della persona umana, così che essa non venga strumentalizzata allo
sport.
Ma su tutto questo ora ascolteremo chi ha più competenza ed
esperienza.
La ragione e i suoi nemici
Intervista
a mons. Caffarra, apparsa su Avvenire del 19 maggio scorso.
"L'Università
è il luogo in cui il giovane viene educato a estinguere il debito della
verità che l'uomo ha verso la realtà. La sua incomparabile missione
è allora quella di educare il giovane a pensare non soltanto con un frammento
di verità, ma con tutta la verità". Lo afferma l'arcivescovo
di Bologna monsignor Carlo Caffarra che abbiamo intervistato in occasione del
suo primo incontro ufficiale con l'Alma Mater avvenuto alla presenza del Magnifico
Rettore Pier Ugo Calzolai, del corpo docente e degli studenti nel corso del quale
ha affrontato il tema: "L'Università: servire la verità e la
libertà dell'uomo".
Nella cultura di oggi trova ancora spazio la
ricerca della verità?
"Indubbiamente. Senza questa ricerca infatti
non ci può essere neanche la cultura. Un'idea espressa molto bene in un
testo del grande filosofo Michele Federico Sciacca, il quale dice che 'vi è
per l'uomo un problema massimo che tutti gli altri condiziona, orienta e unifica:
quello che è l'uomo a se stesso. Il problema di sé che l'uomo pone
a se stesso, della sua destinazione, del senso totale, integrale e assoluto della
sua esistenza. Questo problema - continua il professor Sciacca - sottostante,
anche se implicitamente e inconsapevolmente, ad ogni ricerca, costituisce l'umanità
profonda di tutto ciò che è umano, dunque anche della cultura'.
La misura, il criterio per giudicare una cultura è proprio la forza con
cui pone la domanda antropologica e la risposta che dà a questa domanda.
Una cultura senza la ricerca della verità mi sembra una contraddizione
in termini".
Qualcuno, anche tra gli accademici, sostiene che la verità
non esiste e che è inutile perdere tempo a cercarla. Chi avanza questa
posizione ha rinunciato - secondo lei - a utilizzare lo strumento della ragione?
"Non
mi voglio addentrare qui nella problematica filosoficamente assai complessa riguardante
lo scetticismo e il relativismo. Alla sua domanda mi limito a rispondere che non
è che chi sostiene questo, rinunci allo strumento della ragione. Oggi normalmente
si limita l'uso della ragione all'interno di un ambito del reale, affermando che
la ragione non può andare oltre questo ambito stesso. La Fides et ratio
parla, al contrario, di una audacia che la ragione deve avere, affermando che
deve passare dai fenomeni al fondamento. Ora è proprio questo ciò
che da non poche persone oggi viene negato alla ragione, ritenendola incapace
di questo passaggio".
L'educazione, in particolare quella accademica,
sembra avere ridimensionato il proprio obiettivo. Per costruire buoni uomini,
si dice, bisogna trasmettere loro semplicemente delle regole
"Credo
che la riduzione del rapporto educativo a trasmissione di regole di comportamento
equivalga a snaturare il rapporto educativo stesso. Perché esso non è
prima di tutto trasmissione di regole di comportamento, ma è la testimonianza
di un senso della realtà che viene testimoniato appunto dall'adulto, dall'educatore,
perché chi è educato lo verifichi e liberamente poi faccia la sua
scelta. Dunque si tratta di un rapporto che è molto più profondo
che la trasmissione di regole di comportamento: il rapporto educativo è
un rapporto interpersonale. Come conferma una delle icone più chiare del
rapporto educativo: l'incontro della Madonna con la cugina Elisabetta, che in
realtà è l'incontro di Gesù con Giovanni il Battista. C'era
una nuova persona umana, il Battista, che è entrato nel mondo e come ogni
persona umana è un mendicante di beatitudine. Quand'è che sussulta
di gioia nel seno di sua madre? Quando avverte una presenza che in quel caso le
è testimoniata e portata da Maria stessa. Perché in quel momento
il bambino comprende che è entrato dentro una realtà nella quale
abita un Mistero, nella quale c'è una Presenza che dà un senso alla
nostra ricerca di beatitudine in quanto è la risposta a questa stessa ricerca.
Si vede bene, quindi, che il rapporto educativo è qualche cosa di straordinariamente
grande che va ben al di là di trasmissione di regole di comportamento".
Secondo
un'opinione alimentata anche all'interno delle Università il dialogo tra
il mondo della ricerca e la Chiesa è difficile perché quest'ultima
sarebbe nemica della scienza e del progresso. Le cose stanno davvero così?
"Voglio
sperare che quanti pongono ancora il problema del rapporto tra ragione e fede
in questi termini appartengano ad una specie ormai in via di estinzione. Il problema
è molto più serio. Da una parte non dimentichiamo che la fede formalmente
è un atto della ragione. Da ciò deriva che la fede cristiana esige
una ragione sana, una ragione forte. Parlare di una fede non ragionevole è
come dire circolo quadrato. Quindi la Chiesa non può non essere la custode
e la difesa della ragione. Dall'altra una ragione che vuole essere fedele a se
stessa fino in fondo giunge a un punto in cui sente il bisogno di una luce e di
una risposta che essa non è più capace di dare. Una ragione fedele
a se stessa, ho detto; non una ragione già illuminata dalla fede. La prova
l'abbiamo dal fatto che il primo ad avvertire la necessità morale di una
rivelazione divina è stato Platone. Il quale, fedele fino in fondo alla
ragione, ha capito che, per attraversare il mare della vita, c'è bisogno
di un naviglio ben più sicuro che la piccola zattera della nostra ragione,
cioè una rivelazione divina. La scienza e la tecnica si trovano ad affrontare
problemi che riguardano l'uomo stesso, la sua dignità. La scienza non è
capace di rispondere alle domande che sorgono in questa situazione spirituale.
Ha bisogno di un uso della ragione metascientifico che a sua volta poi ha bisogno
di una rivelazione divina. Ricordo inoltre che cosa ha significato per la ragione
umana la rivelazione biblica. La ragione alla luce di questa rivelazione ha elaborato
(faccio solo un esempio) il grande concetto di persona che è la colonna
portante di tutta la nostra civiltà occidentale. E' la miglior risposta
a coloro che sostengono che la fede è nemica della ragione".
Il
discorso che ha fatto al recente convegno del Csi ha avuto molta risonanza sui
media e tra gli intellettuali. Ci sono state reazioni che l'hanno particolarmente
colpita?
"Mi hanno colpito soprattutto due tipi di reazioni. In primo
luogo quelle dei non credenti. Ho ricevuto diverse lettere da persone che, pur
dichiarandosi atee, ringraziavano la Chiesa cattolica per aver richiamato l'uomo
alla realtà. E poi le lettere di tanti giovani che mi hanno ringraziato,
dicendomi che sentono profondamente il bisogno di avere vicino delle persone adulte
che li guidino dentro l'enigma della realtà".
C'è stato
chi ha colto una sorta di pessimismo nella sua idea di educazione. Cosa ne pensa?
"A
questo rispondo semplicemente citando ciò che dissi in quell'ormai famoso
intervento sull'educazione: 'Solo se si pensa che possa esistere un rapporto dell'uomo
con la realtà: un rapporto reso possibile e dalla costitutiva apertura
della persona alla realtà e dalla originaria intelligibilità e bontà
della realtà. Solo se questo è il rapporto fra persona e realtà,
è pensabile, e quindi praticabile, un rapporto educativo'. Mi chiedo se
può essere qualificato pessimista uno che dice che la realtà possiede
una originaria intelligibilità e bontà e che la nostra ragione è
originariamente capace di cogliere questa intelligibilità e di amare questa
bontà".