OGGI E' L'OCCIDENTE A OPPORSI AL CRISTIANESIMO

 

Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2003
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Vengono presentati in questo fascicolo alcuni contributi: di un cristiano (card. J. Ratzinger), di un ebreo (J.H. Weiler, costituzionalista) e di un musulmano (Khaled Fouad Allam), tutti concordi su di un punto. Per un proficuo dialogo fra culture e religioni diverse è necessario evitare ogni forma di irenismo, ogni appiattimento verso il minimo comune denominatore, ogni forma di inibizione della propria identità per una malsana concezione di accoglienza dell'altro. Il rispetto delle proprie radici è condizione indispensabile per l'incontro con altre radici, affinché tale incontro produca fecondità. Il discorso si fa concreto, e anche provocatorio, se calato nella nostra Europa, la quale fa sempre più fatica a riconoscere la propria storia, ammalata come è, o come sembra, di afasia, di perdita di memoria, di vuoto culturale, perché tale è l'agnosticismo e l'indifferentismo religioso che sono i nuovi dogmi del laicismo europeo, propugnati come la forma più nobile, anzi come la condizione sine qua non, di un vero pluralismo culturale e di un autentica democrazia. In questo gioco al ribasso "c'è il rischio di diventare polvere", afferma Khaled Fouad Allam; "come posso essere sicuro che gli europei rispetteranno la mia identità di ebreo, se non riescono nemmeno a rispettare la propria?", rincalza J.H. Weiler. Sì, "l'occidente europeo sembra sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo", denuncia il card. Ratzinger. Ma se l'Europa rifiutasse il cristianesimo, che cosa mai sarebbe?, si domanda ancora Weiler. E avanti di questo passo. Le argomentazioni dei nostri tre personaggi sono davvero incalzanti e affascinanti.
Una riflessione si impone per noi cristiani, che abbiamo nel sangue la volontà di dialogo con tutti, perché Gesù Cristo a tutti ci manda: soprattutto nei confronti dei musulmani che vivono e lavorano da noi. Se dialogo è incontro di vite umane nella loro integrità e profondità, per esempio di Antonio, cattolico, e di Mohammed, musulmano, il dialogo è possibile se si è in due a desiderarlo. Altrimenti l'incontro è solo funzionale: diventa un incontro commerciale, turistico, occasionale, come sono gli incontri che attengono a bisogni immediati. Ma il tipo di dialogo che qui ci interessa investe la sfera religiosa, ossia la sfera dei significati supremi del vivere. Il dialogo interreligioso è possibile se è desiderato. Non lo si può imporre. Le modalità di tale dialogo, dagli incontri personali a quelli comunitari, possono essere tante e sempre all'insegna della reciprocità e dell'autenticità. Né invasioni di campo in nessuna circostanza, né esondazioni che possono sembrare all'altro una abdicazione alla propria identità, o una svalutazione del proprio patrimonio di fede. Una modalità del dialogo con i musulmani può essere anche l'invito a partecipare - nelle modalità possibili - alle grandi feste del nostro calendario liturgico cristiano (Natale, Quaresima, Pasqua…) che scandisce anche la vita civile italiana e rende ragione di usi e costumi del nostro popolo; fino ad offrire loro l'opportunità di una conoscenza meno superficiale di Gesù e del cristianesimo, anche nella sua dimensione storica. Non per proselitismo, ma per aiutarli davvero a capire in che parte di mondo stanno vivendo. O abbiamo il timore, in nome della laicità dello Stato e del pluralismo culturale, di apparire integralisti? E non è forse questo nostro timore che è di scandalo a tanti musulmani, che ci vedono troppo poco convinti e troppo poco appassionati della nostra professione cristiana? E forse rende possibile o più facile la diffusione di disegni terroristici destinati non solo a sconvolgere le nostre fragili democrazie, ma a turbare anche il processo di integrazione degli emigrati musulmani nel nostro Paese? Sì, perché il nichilismo terroristico alligna di più laddove trova il nichilismo culturale, la noia esistenziale, l'indifferentismo religioso, che sono le grandi malattie dell'Europa di oggi, di quell'Europa che si vergogna di essere - e perfino di essere stata - fecondata dalla predicazione cristiana.

Don Alberto Franzini

Casalmaggiore, 8 dicembre 2003
Solennità dell'Immacolata Concezione di Maria



"OGGI E' L'OCCIDENTE A OPPORSI AL CRISTIANESIMO"


Il custode dell'ortodossia cattolica parla del suo ultimo libro "Fede, Verità, tolleranza": un confronto tra la Chiesa di Roma e le altre religioni


In tempi di islamismo e "scontro di civiltà" le religioni giocano un ruolo cruciale. Dunque l'autorevole voce del cardinale Joseph Ratzinger, da decenni custode dell'ortodossia nella Chiesa per volontà del Papa, è preziosa: non solo per un miliardo e mezzo di cattolici, ma per tutti. Nel bellissimo libro, appena uscito da Cantagalli, Fede, Verità tolleranza, ha affrontato - con la sua abituale profondità - tutti i temi che oggi infiammano il mondo. Grazie a Davide Cantagalli, l'editore che ha propiziato l'incontro, abbiamo avuto la possibilità di parlarne con lo stesso prelato. Excalibur giovedì [22 novembre] ha mandato in onda alcuni flash dell'intervista. Considerata la sia importanza, qui la riportiamo per intero.
Eminenza, c'è un'idea che si è affermata nella cultura alta e nel pensiero comune secondo cui le religioni sono tutte vie che portano verso lo stesso Dio, quindi l'una vale l'altra. Cosa ne pensa dal punto di vista teologico?
"Direi che anche sul piano empirico, storico, non è vera questa concezione molto comoda per il pensiero di oggi. E' un riflesso del relativismo diffuso , ma la realtà non è questa perché le religioni non stanno in un modo statico una accanto all'altra, ma si trovano in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l'una per l'altra. Alla fine la Verità è una, Dio è uno, perciò tutte queste espressioni, così diverse, nate in vari momenti storici, non sono un cammino nel quale si pone la domanda: dove andare? Non si può dire che sono vie equivalenti perché sono in un dialogo interiore e naturalmente mi sembra evidente che non possono essere mezzi della salvezza cose contraddittorie: la verità e la menzogna non possono essere allo stesso modo vie della salvezza. Perciò questa idea semplicemente non risponde alla realtà delle religioni e non risponde alla necessità dell'uomo di trovare una risposta coerente alle sue grandi domande".
In diverse religioni si riconosce la straordinarietà della figura di Gesù. Sembra non sia necessario essere cristiani per venerarlo. Dunque non c'è bisogno della Chiesa?
"Già nel Vangelo troviamo due posizioni possibili in riferimento a Cristo. Il Signore stesso distingue: che cosa dice la gente e che cosa dite voi. Chiede cosa dicono quelli che lo conoscono di seconda mano, o in modo storico, letterario, e poi cosa dicono quelli che lo conoscono da vicino e sono entrati realmente in un incontro vero, hanno esperienza della Sua vera identità. Questa distinzione rimane presente in tutta la storia: c'è un'impressione da fuori che ha elementi di verità. Nel Vangelo si vede che alcuni dicono: "E' un profeta". Così come oggi si dice che Gesù è una grossa personalità religiosa o che va annoverato fra gli avataras (le molteplici manifestazioni del divino). Ma quelli che sono entrati in comunione con Gesù riconoscono che è un'altra realtà, è Dio presente in un uomo".
Non è confrontabile con le altri grandi personalità delle religioni?
"Sono molto diverse l'una dall'altra. Buddha in sostanza dice: 'Dimenticatemi, andate solo sulla strada che vi ho mostrato'. Maometto afferma: 'Il signore Dio mi ha dato queste parole che verbalmente vi trasmetto nel Corano'. E così via. Ma Gesù non rientra in questa categoria di personalità già visibilmente e storicamente diverse. Ancora meno è uno degli avataras, nel senso dei miti della religione induista".
Perché?
"E' una realtà del tutto diversa. Appartiene a una storia, che comincia da Abramo, nella quale Dio mostra il suo volto, Dio si rivela come una persona che sa parlare e rispondere, entra nella storia. E' questo volto di Dio, di un Dio che è persona e agisce nella storia, trova il suo compimento in quell'istante nel quale Dio stesso, facendosi uomo Lui stesso, entra nel tempo. Quindi, anche storicamente, non si può assimilare Gesù Cristo alle varie personalità religiose o alle visioni mitologiche orientali".
Per la mentalità comune questa "pretesa" della Chiesa - che proclama "Cristo, unica salvezza" - è arroganza dottrinale.
"Posso capire i motivi di questa moderna visione la quale si oppone all'unicità e comprendo anche una certa modestia di alcuni cattolici per i quali "noi non possiamo dire che noi abbiamo una cosa migliore che gli altri". Inoltre c'è anche la ferita del colonialismo, periodo durante il quale alcuni poteri europei hanno strumentalizzato il cristianesimo in funzione del loro potere mondiale. Queste ferite sono rimaste nella coscienza cristiana, ma non devono impedirci di vedere l'essenziale. Perché l'abuso del passato non deve impedire la comprensione retta. Il colonialismo - e il cristianesimo come strumento del potere - è un abuso. Ma il fatto che se ne sia abusato non deve rendere i nostri occhi chiusi di fronte alla realtà dell'unicità ci Cristo. Soprattutto dobbiamo riconoscere che il Cristianesimo non è un'invenzione europea, non è un prodotto nostro. E' sempre una sfida che viene da fuori dall'Europa: all'origine venne dall'Asia, come sappiamo bene. E si trovò subito in contrasto con la sensibilità dominante. Anche se poi l'Europa è stata cristianizzata è rimasta sempre questa lotta tra le proprie pretese particolari, fra le tendenze europee, e la novità sempre nuova della parola di Dio che si oppone a questi esclusivismi e apre alla vera universalità. In questo senso, mi sembra, dobbiamo riscoprire che il cristianesimo non è una proprietà europea".
Il cristianesimo contrasta anche oggi la tendenza alla chiusura che c'è in Europa?
"Il cristianesimo è sempre qualcosa che viene realmente da fuori, da un avvenimento divino che ci trasforma e contesta anche le nostre pretese e i nostri valori. Il Signore cambia sempre le nostre pretese e apre i nostri cuori per la sua universalità. Mi sembra molto significativo che al momento l'Occidente europeo sia la parte del mondo più opposta al cristianesimo, proprio perché lo spirito europeo si è autonomizzato e non vuole accettare che ci sia una parola divina che gli mostra una strada che non è sempre comoda".
Riecheggiando Dostoevskij mi chiedo se un uomo moderno può credere, credere veramente che Gesù di Nazaret è Dio fatto uomo. E' percepito come assurdo.
"Certo, per un uomo moderno è una cosa quasi impensabile, un po' assurda e facilmente si attribuisce a un pensiero mitologico di un tempo passato che non è più accettabile. La distanza storica rende tanto più difficile pensare che un individuo vissuto in un tempo lontano possa essere adesso presente, per me, e sia la risposta alle mie domande. Mi sembra importante allora osservare che Cristo non è un individuo del passato lontano da me, ma ha creato una strada di luce che pervade la storia cominciando con i primi martiri, con questi testimoni che trasformano il pensiero umano, vedono la dignità umana dello schiavo, si occupano dei poveri, dei sofferenti e portano così una novità nel mondo anche con la propria sofferenza. Con quei grandi dottori che trasformano la saggezza dei greci, dei latini, in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova la luce in Cristo per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d'Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. O figure anche del nostro tempo: pensiamo a Madre Teresa, Massimiliano Kolbe… E' un'ininterrotta strada di luce che si fa cammino della storia e una ininterrotta presenza di Cristo e mi sembra che questo fatto - che Cristo non è rimasto nel passato, ma è stato sempre contemporaneo con tutte le generazioni ed ha creato una nuova storia, una nuova luce nella storia, nella quale è presente e sempre contemporaneo - fa capire che non si tratta di un qualunque grande della storia, ma di una realtà davvero Altra, che porta sempre luce. Così, associandosi a questa storia, uno entra in un contesto di luce, non si mette in rapporto con una persona lontana, ma con una realtà presente".
Perché, secondo lei, un uomo del 2003 ha bisogno di Cristo?
"E' facile accorgersi che le cose rese disponibili solo da un mondo materiale o anche intellettuale, non rispondono al bisogno più profondo, più radicale che esiste in ogni uomo: perché l'uomo ha il desiderio - come dicono già i Padri - dell'infinito. Mi sembra che proprio il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie come la droga, manifesti visibilmente questa sete dell'infinito e solo un amore infinito che tuttavia entra nella finitudine, e diventa addirittura un uomo come me, è la risposta. E' certo un paradosso che Dio, l'immenso, sia entrato nel mondo finito come una persona umana. Ma è proprio la risposta della quale abbiamo bisogno: una risposta infinita che tuttavia si rende accettabile e accessibile, per me, 'finendosi' in una persona umana che tuttavia è l'infinito. E' la risposta della quale si ha bisogno: si dovrebbe quasi inventare se non esistesse…".
C'è una novità nel suo libro a proposito del tema del relativismo. Lei sostiene che nella pratica politica, il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina, diciamo, dalla tentazione utopica. E' il giudizio che la Chiesa ha sempre dato sulla politica?
"Direi proprio di sì. E' questa una delle novità essenziali del cristianesimo per la storia. Perché fino a Cristo l'identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria, per dare stabilità allo Stato. Poi l'islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l'umanità. In realtà, da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice che non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l'umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell'amore che attrae. Egli dice: 'Attirerò tutti a me'. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell'imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato".
Quindi non c'è potere o politica o ideologia che possa rivendicare per sé l'assoluto, la definitività, la perfezione…
"Questo è molto importante. Perciò sono stato contrario alla teologia della liberazione, che di nuovo ha trasformato il Vangelo in ricetta politica con l'assolutizzazione di una posizione, per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso… In realtà, il mondo politico è il mondo della nostra ragione pratica dove, con i mezzi della nostra ragione, dobbiamo trovare le strade. Bisogna lasciare proprio alla ragione umana di trovare i mezzi più adatti e non assolutizzare lo Stato. I Padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, il suo valore, ma non hanno adorato lo Stato: mi sembra proprio questa la distinzione decisiva. Ma questo è uno straordinario punto di incontro tra pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. Io penso che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando pure una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l'ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l'origine è proprio questa".
I sistemi comunisti europei sono crollati. Ma lei, nel suo libro, non esclude che il pensiero marxista possa comunque ripresentarsi in altre forme nei prossimi tempi.
"E' una mia ipotesi, ma mi sembra cominci già a verificarsi perché il puro relativismo che non conosce valori etici fondanti e quindi non conosce realmente neanche un perché della vita umana, anche della vita politica, non è sufficiente. Perciò per un non credente che non riconosce la trascendenza, resta questo grande desiderio di trovare qualcosa di assoluto e un senso morale del suo agire".
I sommovimenti no global di questi anni sono di nuovo una trasposizione della sete d'assoluto in un obiettivo politico?
"Direi di sì. E' sempre questa sete, perché l'uomo ha bisogno dell'assoluto e se non lo trova in Dio lo crea nella storia".
Sempre a proposito del tema del relativismo. Tutti gli usi e i costumi e le civiltà debbono comunque sempre essere rispettate a priori oppure c'è un canone minimo di diritti e doveri che deve valere per tutti?
"Ecco, questo è l'altro aspetto della medaglia. Prima abbiamo constatato che la politica è il mondo dell'opinabile, del perfettibile, dove si devono cercare con le forze della ragione le strade migliori, senza assolutizzare un partito o una ricetta. Tuttavia è anche un campo etico, la politica, perciò non può alla fine comportare un relativismo totale dove, per esempio, uccidere e creare pace hanno la stessa legittimità. Abbiamo in diversi documenti della nostra Congregazione sottolineato questo fatto, pur riconoscendo totalmente l'autonomia politica".
Dunque non tutto è permesso…
"Abbiamo sempre detto che neanche la maggioranza è l'ultima istanza, la legittimazione assoluta di tutto, in quanto la dittatura della maggioranza sarebbe ugualmente pericolosa come le altre dittature. Perché potrebbe un giorni decidere, per esempio, che vi sia una 'razza' da escludere per il progresso della storia, aberrazione purtroppo già vista. Quindi, ci sono limiti anche al relativismo politico. Il limite è delineato da alcuni etici fondamentali che sono proprio la condizione di questo pluralismo. E sono quindi obbligatori anche per le maggioranze".
Qualche esempio?
"Il Decalogo offre in sintesi queste grandi costanti".
Torno a un altro aspetto del "relativismo culturale". Anche fra i cattolici c'è chi considera la missione quasi una violenza psicologica nei confronti di popoli che hanno un'altra civiltà.
"Se uno pensa che il cristianesimo sia solo il proprio mondo tradizionale evidentemente sente così la missione. Ma si vede che non ha capito la grandezza di questa perla, come dice il Signore, che gli si dona nella fede. Naturalmente, se fossero solo tradizioni nostre, non si potrebbero portare ad altri. Se invece abbiamo scoperto, come dice San Giovanni, l'Amore, se abbiamo scoperto il volto di Dio, abbiamo il dovere di raccontare agli altri. Non posso mantenere solo per me una cosa grande, un amore grande, devo comunicare la Verità. Naturalmente nel pieno rispetto della loro libertà, perché la verità non si impone con altri mezzi che con la propria evidenza e solo offrendo questa scoperta agli altri - mostrando cosa abbiamo trovato, che dono abbiamo in mano, che è destinato a tutti - possiamo annunciare bene il cristianesimo, sapendo che suppone l'altissimo rispetto della libertà dell'altro, perché una conversione che non fosse basata sulla convinzione interiore - 'ho trovato quanto desideravo' - non sarebbe una vera conversione".
Di recente è venuto alla luce sulla stampa un fenomeno doloroso: la conversione di tanti immigrati che provengono dall'Islam, e che - oltre a trovarsi in pericolo - si ritrovano soli, non accompagnati dalla comunità cristiana.
"Sì, ho letto e mi addolora molto. E' sempre lo stesso sintomo, il dramma della nostra coscienza cristiana che è ferita, che è insicura di sé. Naturalmente dobbiamo rispettare gli Stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana".

intervista a cura di: ANTONIO SOCCI
(Il Giornale - mercoledì 26 novembre 2003)



"QUESTA E' UNA COSTITUZIONE GIACOBINA"


Metà dei Paesi UE si appellano a Dio e al cristianesimo nelle loro costituzioni, ma in quella europea trionfa il laicismo francese. Un costituzionalista ebreo svela l'inganno.

"Sono un ebreo praticante, ma sono anche un costituzionalista praticante": Così Joseph H. Weiler al Meeting di Rimini ha fulminato i giornalisti che gli domandavano come potesse conciliare la sua pratica religiosa con la convinta perorazione a favore del riconoscimento delle radici cristiane dell'Europa nel trattato costituzionale dell'Unione Europea (Ue). Ed effettivamente la logica costituzionalista basta e avanza per bollare come faziosa la bozza di trattato attuale, nella quale, nonostante le richieste di alcuni Paesi fra cui l'Italia, Dio e il cristianesimo non trovano posto. Ma questa non è l'unica motivazione che ha spinto l'illustre costituzionalista ad esporsi, come dimostra l'intervista che ci ha rilasciato.
Professor Weiler, perché il costituzionalista che è in lei insorge contro l'esclusione del cristianesimo dal trattato costituzionale europeo?
"Perché questa scelta non è rispettosa del pluralismo costituzionale degli Stati membri. Opta per un impianto simbolico di tipo giacobino, che è quello della costituzione francese, ed esclude le scelte diverse fatte da molte altre costituzioni di Paesi che sono o che presto saranno parte della Ue. Se noi analizziamo le costituzioni dei Paesi europei, scopriamo una costante: nei loro articolati, che sono la parte che crea il diritto positivo, il diritto alla libertà religiosa viene affermato come libertà dei singoli di praticare oppure di non praticare la religione. In pratica, per quel che riguarda la religione, lo Stato si dichiara agnostico, e su questa base si impegna a garantire ai credenti di tutte le religioni la libertà di praticare ed ai non credenti la libertà da qualunque coercizione religiosa. Ma le costituzioni non hanno solo la funzione di stabilire le basi del diritto positivo nelle varie materie. Hanno anche quella di custodire e riflettere valori, ideali e simboli condivisi in una determinata società. E questa funzione normalmente viene assolta dal Preambolo. Ora, mentre gli articolati costituzionali europei sono omogenei nel presentare lo Stato agnostico come fonte del diritto positivo, i vari Preamboli non lo sono affatto: ci sono Paesi a simbologia laicista e ci sono Paesi a simbologia religiosa".
Sono molte le costituzioni di Paesi Eu e aspiranti tali che presentano riferimenti religiosi nei rispettivi Preamboli?
"Sì, circa la metà. La costituzione tedesca parla di "responsabilità davanti a Dio e agli uomini"; quella irlandese è stata adottata "nel nome della Santissima Trinità, da cui proviene ogni autorità"; le costituzioni di Paesi diversi come Malta, Grecia e Danimarca riconoscono chiese e culti religiosi di Stato, che sono rispettivamente la religione cattolica, la Chiesa ortodossa, la Chiesa evangelica luterana; la costituzione scritta danese e quella non scritta britannica individuano nel monarca il capo della Chiesa nazionale. Di fronte a questa pluralità. recepire nel Preambolo della costituzione europea solo la simbologia laicista francese sarebbe un atto di imperialismo culturale, o di giacobinismo culturale, se vuole".
Si obietta che privilegiare il Cristianesimo nella costituzione europea sarebbe anche questo un atto di imperialismo culturale, sarebbe l'imposizione di un'egemonia.
"La soluzione a questo problema c'è. Si potrebbe adottare una soluzione simile a quella del Preambolo della nuova costituzione polacca, che concilia simbologia religiosa e a-religiosa: 'Avendo riguardo per l'esistenza e per il futuro della nostra patria… tutti i cittadini della Repubblica, sia quelli che credono in Dio come fonte di verità, giustizia, bene e bellezza, sia quelli che non condividono questa fede ma rispettano quei valori universali come derivanti da altre fonti…'.E comunque un riferimento diretto ed esplicito all'identità cristiana dell'Europa non mi farebbe nessun problema".
Come ebreo praticante no si sentirebbe minacciato, o messo ai margini. Da un'Europa che si autodefinisse cristiana nella sua identità?
"Assolutamente no. In primo luogo perché le norme di diritto positivo in tutte le costituzioni europee e in tutti i trattati internazionali sottoscritti dai Paesi europei garantiscono la libertà di culto a tutte le religioni. In secondo luogo perché considero indispensabile per qualunque tipo di rapporto che gli interlocutori, che siano persone o soggetti politici, dichiarino esplicitamente la loro identità. L'identità cristiana dell'Europa è un fatto, nel bene e nel male. Affermandola, l'Europa si assume sia gli splendori che le ombre che storicamente corrispondono a questa identità. Io, ebreo, per essere ebreo ho bisogno anche che chi è diverso da me affermi la sua diversità, e non la nasconda. L'Altro non è semplicemente una realtà sociale; ontologicamente, è necessario perché possa esserci l'Io. Se non c'è l'Altro, non c'è un Io distinto. L'orientamento degli europei a negare le loro radici cristiane può anche generare in ebrei, musulmani e credenti di altre religioni sospetto o disprezzo. Sospetto circa una mancanza di buona fede. E disprezzo perché potrei domandarmi: come possono costoro rispettare la mia identità, se non rispettano la loro stessa?".

intervista a cura di: RODOLFO CASADEI
(Tempi, n. 40/2003)

"IO, MUSULMANO NELL'EUROPA CRISTIANA"

Editoriale di KHALED FOUAD ALLAM pubblicato il 23 settembre 2003 su Repubblica


Mentre le preoccupazioni sul declino dell'Europa si fanno sentire sempre più chiaramente - drastico calo demografico e dunque forte invecchiamento della popolazione, stagnazione economica, paralisi politica, divisione fra i popoli europei, scetticismo intellettuale - forse non ci si è chiesti che cosa pensino dell'Europa i nuovi europei, quelli che come me vivono qui anche da oltre vent'anni, e che vi sono approdati per ricostruire la propria esistenza, per sperare in una vita migliore. Educato nell'Islam, musulmano, ho lasciato una terra che ha generato Sant'Agostino, Camus e uno dei più grandi mistici dell'Islam, Sidi Abu Meddin. Ho imparato a vivere in un islam di testimonianza, capace di confrontarsi e di rimettersi in causa nei confronti dell'altro: ed è perciò che la questione delle radici d'Europa interroga il mio essere europeo e musulmano. Le questioni in gioco sono molteplici, complesse, difficili, ma una è essenziale: quella dei fondamenti dell'identità europea.
Nell'odierno momento storico esistono gli europei, ma non esiste l'Europa: e il richiamo di Giovanni Paolo II alla questione delle radici cristiane del continente assume un'importanza centrale, e richiede molto più di una semplice lettura storica e culturale. Certo, più d'uno ha contestato un tale approccio: alcuni temono che quel richiamo possa trasformarsi in uno strumento per infrangere i principi della laicità, altri appellandosi alla sfera giuridico-costituzionale affermano che il compito di una costituzione è quello di organizzare i rapporti fra i diversi poteri.
Tutti questi argomenti mi sono sempre apparsi deboli: quella in discussione non è infatti una costituzione, ma una convenzione europea, vale a dire un patto che richiede di riconsiderare le ragioni del nostro stare insieme, della nostra condivisione di valori e, infine, di chiederci come uno spazio politico in itinere possa essere considerato anche uno spazio di speranze. La questione posta dal Santo Padre ci porta a riconoscere che il pensiero politico non si riduce a un'expertise contabile, e che è sempre necessario interrogare la politica, purché non la si riduca a strumento di manipolazioni o a cinica espressione del potere; con la domanda sulle radici cristiane, è la politica che ci invita a interpretare, a interrogare dei saperi per capire e costruire, a formulare delle ipotesi. Mi sono chiesto più volte perché il tema delle radici cristiane susciti ancora tante polemiche, mentre la parola "mercato" suona come leitmotiv in tutto il testo della convenzione, e come mai ciò non abbia suscitato alcuna riflessione sul rapporto fra mercato e costruzione europea. Certo, a prima vista è possibile dare un'interpretazione esclusivista delle parole "radici cristiane", ma si tratta di una lettura errata perché non tiene conto del contesto in cui la questione si colloca: quella domanda si situa come prolungamento di venticinque anni di attività del papa sulle vie del pianeta. In realtà, l'insistere di Giovanni Paolo II sulla questione delle radici cristiane d'Europa non deve essere separato dalle sue molteplici iniziative di dialogo: dalla preghiera di Assisi del 1986 al suo incontro con il rabbino Toaff nella sinagoga di Roma, dal suo viaggio in Israele al suo incontro nella moschea di Damasco con il muftì di quella moschea e prima ancora all'incontro di Casablanca con la gioventù marocchina nel 1985. Tutto ciò ha definito un nuovo sguardo, una nuova lettura del cristianesimo che la storia dei secoli passati aveva impedito. E la costruzione europea, all'orizzonte del XXI secolo, avviene parallelamente al definirsi di questo nuovo cristianesimo che si è emancipato dalla propria storia e che ha interiorizzato la secolarizzazione. In effetti, che cosa fa il Santo Padre se non rinnovare costantemente il viaggio di san Francesco verso i sultani del mondo, verso le altre culture e religioni?
Le polemiche sulle radici cristiane d'Europa mettono a nudo le nostre contraddizioni: il rifiuto di ammettere quelle radici è sintomo di un timore, di un blocco interiore nei confronti di tutto ciò che i ragazzi europei, oggi quarantenni, hanno imparato sui banchi di scuola (crociate, guerre di religione, la notte di san Bartolomeo, ecc.): ma la storia richiede distanza critica e onestà.
Non si può eludere il fatto che le nostre moderne istanze politiche si radicano proprio nel cristianesimo: il diritto e le istituzioni sono frutto dell'elaborazione complessa che questa civiltà ha prodotto, oltre che delle lotte fratricide che l'hanno segnata nei secoli passati. Ma c'è anche qualcosa di più profondo, che ha segnato in modo indelebile questo continente le cui frontiere culturali sono molteplici ma in cui riconosciamo un'unica essenza, che difficilmente si riesce ad elaborare razionalmente in modo univoco, ma che è presente nel cuore più profondo dell'essere europeo: la passione per la libertà - ovvero le passioni democratiche - e il sentirsi partecipi di una storia comune, che ha fatto del cristianesimo il punto focale intorno a cui l'Europa si è definita. E' così che ci si commuove dinanzi a un Cristo di Ligabue o ci si sente incantati dalle Madonne rinascimentali, che ci si sente travolti dall'ascolto di un mottetto di Bach o del requiem di Mozart. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza quel debito. L'Europa è debitrice verso il cristianesimo: perché, che lo voglia o no, esso le ha dato forma, significato e valori. Rifiutare tutto ciò significa, per l'Europa, negare se stessa.
La questione delle radici cristiane d'Europa, in un momento in cui tutti parlano di eterogeneità delle culture e di multietnicità, suscita altre problematiche: come accogliere l'altro se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità umane se l'Europa rifiuta di riconoscersi? Le radici affondano nella terra, dove incontrano e incontreranno altre radici. Se le radici del cristianesimo affondano nel mondo ebraico e in quello greco, oggi esso incontra l'islam, domani l'Asia e l'Africa. L'incontro è possibile soltanto se si è consapevoli delle proprie radici. Pensare alle radici d'Europa significa pensare ai possibili, a volte inediti, prolungamenti del continente. Oggi l'America, la Cina. L'Africa ci interrogano, ognuna con le proprie radici fatte di dolore e di speranza, mentre in terra d'Europa l'inquietudine ha già preso forma e si sta diffondendo. L'Europa, faccia a faccia con se stessa, è ricca di saperi ma restia ad accettarsi: ma per me essa rappresenta l'albero d'ulivo che nel Corano, al versetto 35 della Sura della Luce, è "né d'oriente né d'occidente".

KHALED FOUAD ALLAM
(la Repubblica, martedì 23 settembre 2003)

"SENZA IDENTITA', SIETE POLVERE"
Un musulmano innamorato della cultura europea che ammira il Papa e Madre Teresa lancia l'allarme: se cancella il cristianesimo, l'Europa muore.

Mentre l'Europarlamento respinge l'emendamento del Ppe che propone l'inserimento di un riferimento alle radici "giudaico-cristiane" dell'Europa, c'è chi, musulmano, scrive che "il cristianesimo è il punto focale attorno a cui l'Europa si è definita". Lo ha fatto su "la Repubblica" (29 settembre 2003) Khaled Fouad Allam, sociologo ed editorialista, nato a Tlemcen in Algeria e residente in Italia dal 1982, cittadino italiano dal 1990, autore de L'Islam globale (Rizzoli, 2002)".
Professor Allam, fra le "ragioni" che la spingono a dirsi favorevole ad un riferimento alle radici cristiane, lei cita l'esempio di Giovanni Paolo II. Può spiegarci come vede la figura del Pontefice e qual è, per lei, il valore del suo richiamo alle radici cristiane d'Europa?
"La figura di Giovanni Paolo II simbolizza quello che chiamo il 'cristianesimo dell'anima', senza voler dare una visione limitativa del suo operare: come non considerare il suo instancabile peregrinare sulle vie del mondo, la gioia e la forza che egli cerca sempre di trasmettere, la capacità di interrogare anche chi è indifferente sulle questioni cruciali della nostra epoca? Nella sua figura non vi è soltanto un valore simbolico, ma anche la ferma volontà di incidere sui percorsi della storia, e perciò la sua è una figura atipica ed eccezionale. In lui l'anima cristiana e l'essere cristiano non sono scindibili. Ma c'è anche nel suo discorso la volontà di non cedere a genealogie facili, semplici, che mettono tutti d'accordo sulla identità europea. Perché spesso si utilizza la retorica delle molteplicità delle genealogie fondatrici per occultare il problema, per creare un consenso che, alla fine, si rivela di estrema debolezza e fragilità. Ed è perciò che la questione delle radici cristiane non può essere considerata come una parentesi della storia, come una specie di optional. La questione è grave perché tocca l'ethos fondativo delle nostre società".
Lei scrive che "le polemiche sulle radici cristiane d'Europa mettono a nudo le nostre contraddizioni: il rifiuto di ammettere quelle radici è sintomo di un timore". Il cardinale Joseph Ratzinger ebbe a dire che l'Occidente è "dimentico di sé". Non la stupisce l'incapacità di far memoria delle proprie tradizioni, questo rinnegamento di sé, da parte degli europei? E non le pare ancora più strano che mentre lei, un musulmano, è ancora capace di commuoversi - come da lei scritto - "davanti a un Cristo di Ligabue o a un mottetto di Bach e un requiem di Mozart", gli europei (e tra questi molti cattolici) siano come inconsapevoli della propria storia, della propria cultura, delle propria essenza?
"Una delle cose più inquietanti di questi tempi - per me che ho scelto l'Europa perché rappresentava una certa identità, per la sua capacità di specchiarsi in altre culture - è quello che alcuni hanno chiamato il 'ripiegamento culturale' dell'Europa. Secondo me l'identità europea non può prescindere dalle sue radici giudeo-cristiane: il contrario porterebbe ad un'impasse, non solo intellettuale, ma anche di crescita. Il cristianesimo non è soltanto memoria o storia: sia nei momenti più oscuri della vita europea (l'inquisizione, le guerre fratricide, ecc.) che in quelli più luminosi (San Francesco, San Giovanni della Croce, Pascal, Jacques Maritain in questo secolo, ecc.), il cristianesimo è stato capace di essere l'attore della propria storia: e questo gli europei sembrano averlo dimenticato. Ho sempre pensato che sono esistite tre forme di Europa: l'Europa dei fari, quella che ha illuminato il mondo attraverso il suo spirito e il suo pensiero; l'Europa dei muri, quella delle grandi tragedie della storia: muri che si sono sgretolati grazie all'ideale di libertà ma anche della fede; e l'Europa dei ponti, metafora del dialogo, dell'avvicinamento agli altri, della capacità di soffrire la sofferenza degli altri, come ad esempio madre Teresa di Calcutta. In queste tre Europe appare sempre il cristianesimo, in diverse espressioni: e per me spezzare questi tre momenti significa rompere l'anello di un'ancora rischiando di portare la nave alla deriva".
In un passo del suo articolo lei si chiede: "come accogliere l'altro se si nega se stessi?". Un certo pensiero dominante dice che per incontrarsi occorre appiattire le differenze, evitando così le frizioni. Le sue parole vanno però in un'altra direzione. Aggiunge anche che "le radici affondano nella terra, dove incontrano e incontreranno altre radici (…) L'incontro è possibile soltanto se si è consapevoli delle proprie radici". Potrebbe spiegarci meglio cosa pensa sia essenziale affinché culture e società così diverse possano incontrarsi e convivere?
"Io che per anni mi sono occupato di immigrazione e di multiculturalismo, sono sempre stato diffidente nei confronti dell'utilizzo della tematica multiculturale come mero strumento ideologico, perché esso tende a occultare la dimensione reale dei problemi. L'accettazione dell'altro non è sempre facile, ma la situazione peggiore per accoglierlo è l'indifferenza, il vuoto, la rimozione della propria identità, o l'appiattimento come lei dice. La diversità culturale non può essere considerata un indebolimento, bensì il contrario: ma questa diversità culturale ha senso soltanto se si è consapevoli del proprio essere, delle proprie origini. Perché sussiste sempre il rischio di diventare polvere. La terra ha bisogno dell'acqua, senza di essa non ha nemmeno la capacità di diventare sabbia, rimane semplicemente polvere. Non vi è la nobiltà del deserto: nel deserto l'uomo0 può interrogare Dio, interrogare se stesso, ma nella polvere rimane soltanto il nulla".
Lei ha scritto che "è sempre necessario interrogare la politica". Il Foglio ha chiesto al presidente Berlusconi di porre il veto italiano a qualunque testo di trattato costituzionale che non contenga un esplicito riferimento al retroterra giudaico-cristiano. E' d'accordo con questa proposta?
"La questione è delicata, anche perché attualmente il presidente del Consiglio Berlusconi è anche presidente di turno dell'Unione Europea. L'importante è sollevare un dibattito, che purtroppo è oggi molto timido. Gli europei farebbero bene a rileggere un testo degli anni '30 di Paul Valéry sull'Europa, in cui lo scrittore afferma che gli europei, come altre civiltà, sono mortali. Il rischio è proprio questo: la morte, non quella fisica, bensì la morte dell'anima europea, quella che ho amato e amo ancora".

intervista a cura di: EMANUELE BOFFI
(Tempi, n. 40/2003)