Discorso al Parlamento italiano
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2002
33
Discorso al Parlamento italiano
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 2002
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Introduzione
Il presente Fascicolo contiene il testo integrale del Discorso che Giovanni
Paolo II ha tenuto al Parlamento italiano riunito in seduta pubblica comune
a Palazzo Montecitorio giovedì 14 novembre 2002. In appendice riportiamo
anche qualche commento apparso sui quotidiani nazionali, che definiscono comunque
"storico" tale avvenimento.
Tra le voci critiche si è fatto leva sulla "laicità"
dello Stato, che avrebbe subito un "vulnus" dalla visita papale
nel massimo tempio della Repubblica Italiana.
A tal proposito, va ricordato, su un piano strettamente giuridico - essenziale
per regolare la vita di ogni comunità - che la nostra Costituzione,
all'art. 7, ha recepito i Patti lateranensi che regolano i rapporti fra lo
Stato e la Chiesa in Italia. E va ricordato che gli Accordi di revisione del
Concordato, approvati il 18 febbraio 1984 dalla stragrande maggioranza del
Parlamento italiano e quindi diventati legge dello Stato, all'art.1 dichiarano:
"La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la
Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani,
impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla
reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese".
Questa dichiarazione da una parte intende affermare che la Comunità
politica e la Chiesa non sono e non possono essere subordinate l'una all'altra
e viceversa; dall'altra si esclude però una separazione e un disinteresse
reciproco, anzi viene esigita una "reciproca collaborazione" fra
lo Stato e la Chiesa. E la motivazione risiede non nell'interesse della Chiesa
e dello Stato, ma nel servizio da rendere alla promozione delle persone e
al bene comune. Non solo, gli stessi Accordi richiamano un dato storico inoppugnabile,
che per altro sta a fondamento della presenza dell'insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie: ossia la Repubblica italiana,
"riconoscendo il valore della cultura religiosa", tiene "conto
che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo
italiano". Dunque, se è stata abolita l'antica dizione del cattolicesimo
come "religione di Stato" - perché ciò è incompatibile
con la concezione moderna, appunto "laica", dello Stato - non si
può certo abolire la storia e la cultura di un popolo, che ancora a
grande maggioranza si riconosce nel cattolicesimo. Questo è il quadro
giuridico-istituzionale nel quale è avvenuta la visita del Papa al
Parlamento italiano. Nessuna invasione di campo. In una democrazia moderna
e laica, il rispetto reciproco e il riconoscimento di una presenza religioso-culturale
significativa rendono, a mio parere, più che legittima e normale la
visita del Papa in un consesso parlamentare, così come rendono normali
le visite dei responsabili istituzionali presso la Santa Sede e in tutte le
sedi religiose ritenute più opportune. Giovanni Paolo II ha fatto visita,
nei suoi viaggi, ad altri Parlamenti e anche nelle sedi di alcuni organismi
internazionali, come l'Unesco, la Fao e l'Onu. Dunque, dove sta il problema?
Non ci sono forse legami - storici, culturali, giuridici - fra la Chiesa e
l'Italia? Può forse dimenticare Roma di essere anche la sede del papato?
E non è, questo fatto, un titolo comunque di universalismo, che rende
onore a Roma e all'Italia, consegnando a tutti gli italiani, al di là
delle loro scelte religiose, una missione e una responsabilità maggiori
rispetto ad altre nazioni? Va letta in questa direzione anche la recente visita
di Giovanni Paolo II al Comune di Roma, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria.
Non si dimentichi, infine, che a sollecitare la visita di Giovanni Paolo II
al Parlamento italiano non è stata la Santa Sede, ma i presidenti di
Senato e Camera, Violante e Mancino, nella passata legislatura, e gli attuali
presidenti Pera e Casini.
Nel suo Discorso Giovanni Paolo II ha confermato, anche in questo aeropago
dove siedono i rappresentanti dei cittadini italiani, quel che ha predicato
in tutti questi anni agli italiani, a Roma, come nelle tante contrade italiane
e del mondo. Il Papa ha garbatamente ricordato ai rappresentanti del popolo
quel che il popolo italiano, in larga misura, si aspetta da loro. E ha chiesto
quel che un Papa ha il diritto e il dovere di chiedere a tutti: il rispetto
e lo sviluppo dell'esistenza di ogni persona umana e quelle condizioni di
libertà, a cominciare da quella educativa, finalizzate alla costruzione
del bene comune, nel rispetto e nella valorizzazione di "quella linfa
vitale che è costituita dal cristianesimo", senza del quale ben
difficilmente si potrebbero comprendere "l'identità sociale e
culturale dell'Italia e la missione di civiltà che essa ha adempiuto
ed adempie in Europa e nel mondo".
La visita di Giovanni Paolo II alle Camere è stata - con i gesti e
con il messaggio - un grande atto di amore all'Italia. Se un atto di amore
può essere definito un'invasione di campo, ben vengano certe invasioni.
don Alberto Franzini
Casalmaggiore, 24 novembre 2002
Domenica di Cristo Re dell'universo
Signor Presidente della Repubblica Italiana,
Onorevoli Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato,
Signor Presidente del Consiglio dei Ministri,
Onorevoli Deputati e Senatori!
1. Mi sento profondamente onorato per la solenne accoglienza che mi viene
oggi tributata in questa sede prestigiosa, nella quale l'intero popolo italiano
è da voi degnamente rappresentato. A tutti ed a ciascuno rivolgo il
mio saluto deferente e cordiale, ben consapevole del forte significato della
presenza del Successore di Pietro nel Parlamento Italiano.
Ringrazio il Signor Presidente della Camera dei Deputati ed il Signor Presidente
del Senato della Repubblica per le nobili parole con cui hanno interpretato
i comuni sentimenti, dando voce anche ai milioni di cittadini del cui affetto
ho quotidiane attestazioni nelle molte occasioni in cui mi è dato di
incontrarli. E' un affetto che mi ha accompagnato sempre, fin dai primi mesi
della mia elezione alla sede di Pietro. Per esso voglio esprimere a tutti
gli italiani, anche in questa circostanza, la mia viva gratitudine.
Già negli anni degli studi a Roma e poi nelle periodiche visite che
facevo in Italia come Vescovo, specialmente durante il Concilio Ecumenico
Vaticano II, è venuta crescendo nel mio animo l'ammirazione per un
Paese in cui l'annuncio evangelico, qui giunto fin dai tempi apostolici, ha
suscitato una civiltà ricca di valori universali ed una fioritura di
mirabili opere d'arte, nelle quali i misteri della fede hanno trovato espressione
in immagini di bellezza incomparabile. Quante volte ho toccato, per così
dire, con mano le tracce gloriose che la religione cristiana ha impresso nel
costume e nella cultura del popolo italiano, concretandosi anche in tante
figure di Santi e di Sante il cui carisma ha esercitato un influsso straordinario
sulle popolazioni d'Europa e del mondo. Basti pensare a San Francesco d'Assisi
ed a Santa Caterina da Siena, Patroni d'Italia.
2. Davvero profondo è il legame esistente fra la Santa Sede e l'Italia!
Ben sappiamo che esso è passato attraverso fasi e vicende tra loro
assai diverse, non sfuggendo alle vicissitudini e alle contraddizioni della
storia. Ma dobbiamo al tempo stesso riconoscere che, proprio nel susseguirsi
a volte tumultuoso degli eventi, esso ha suscitato impulsi altamente positivi
sia per la Chiesa di Roma, e quindi per la Chiesa Cattolica, sia per la diletta
Nazione italiana.
A quest'opera di avvicinamento e di collaborazione, nel rispetto della reciproca
indipendenza e autonomia, hanno molto contribuito i grandi Papi che l'Italia
ha dato alla Chiesa ed al mondo nel secolo scorso: basti pensare a Pio XI,
il Papa della Conciliazione, ed a Pio XII, il Papa della salvezza di Roma,
e, più vicini a noi, ai Papi Giovanni XXIII e Paolo VI, dei quali io
stesso, come Giovanni Paolo I, ho voluto assumere il nome.
3. Tentando di gettare uno sguardo sintetico sulla storia dei secoli trascorsi,
potremmo dire che l'identità sociale e culturale dell'Italia e la missione
di civiltà che essa ha adempiuto ed adempie in Europa e nel mondo ben
difficilmente si potrebbero comprendere al di fuori di quella linfa vitale
che è costituita dal cristianesimo.
Mi sia pertanto consentito di invitare rispettosamente voi, eletti Rappresentanti
di questa Nazione, e con voi tutto il popolo italiano, a nutrire una convinta
e meditata fiducia nel patrimonio di virtù e di valori trasmesso dagli
avi. E' sulla base di una simile fiducia che si possono affrontare con lucidità
i problemi, pur complessi e difficili, del momento presente, e spingere anzi
audacemente lo sguardo verso il futuro, interrogandosi sul contributo che
l'Italia può dare agli sviluppi della civiltà umana.
Alla luce della straordinaria esperienza giuridica maturata nel corso dei
secoli a partire dalla Roma pagana, come non sentire l'impegno, ad esempio,
di continuare ad offrire al mondo il fondamentale messaggio secondo cui, al
centro di ogni giusto ordine civile, deve esservi il rispetto per l'uomo,
per la sua dignità e per i suoi inalienabili diritti? A ragione già
l'antico adagio sentenziava: Hominum causa omne ius constitutum est. E' implicita,
in tale affermazione, la convinzione che esista una "verità sull'uomo",
che si impone al di là delle barriere di lingue e culture diverse.
In questa prospettiva, parlando davanti all'Assemblea delle Nazioni Unite
nel 50° anniversario di fondazione, ho ricordato che vi sono diritti umani
universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispecchiano
le esigenze oggettive di una legge morale universale. Ed aggiungevo: "Ben
lungi dall'essere affermazioni astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa
di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo e di ogni gruppo sociale.
Ci ricordano che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma
che, al contrario, vi è una logica morale che illumina l'esistenza
umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli" (Insegnamenti
di Giovanni Paolo II, vol. XVIII/2, 1995, p. 732).
4. Seguendo con attenzione amica il cammino di questa grande Nazione,
sono indotto inoltre a ritenere che, per meglio esprimere le sue doti caratteristiche,
essa abbia bisogno di incrementare la sua solidarietà e coesione interna.
Per le ricchezze della sua lunga storia, come per la molteplicità e
vivacità delle presenze e iniziative sociali, culturali ed economiche
che variamente configurano le sue genti e il suo territorio, la realtà
dell'Italia è certamente assai complessa e sarebbe impoverita e mortificata
da forzate uniformità.
La via che consente di mantenere e valorizzare le differenze, senza che queste
diventino motivi di contrapposizione ed ostacoli al comune progresso, è
quella di una sincera e leale solidarietà. Essa ha profonde radici
nell'animo e nei costumi del popolo italiano e attualmente si esprime, tra
l'altro, in numerose e benemerite forme di volontariato. Ma di essa si avverte
il bisogno anche nei rapporti tra le molteplici componenti sociali della popolazione
e le diverse aree geografiche in cui essa è distribuita.
Voi stessi, come responsabili politici e rappresentanti delle Istituzioni,
potete dare su questo terreno un esempio particolarmente importante ed efficace,
tanto più significativo quanto più la dialettica dei rapporti
politici spinge invece ad evidenziare i contrasti. La vostra attività,
infatti, si qualifica in tutta la sua nobiltà nella misura in cui si
rivela mossa da un autentico spirito di servizio ai cittadini.
5. Decisiva è, in questa prospettiva, la presenza nell'animo di
ciascuno di una viva sensibilità per il bene comune. L'insegnamento
del Concilio Vaticano II in materia è molto chiaro: "La comunità
politica esiste (...) in funzione di quel bene comune nel quale essa trova
significato e piena giustificazione e dal quale ricava il suo ordinamento
giuridico, originario e proprio" (Gaudium et spes, 74).
Le sfide che stanno davanti ad uno Stato democratico esigono da tutti gli
uomini e le donne di buona volontà, indipendentemente dall'opzione
politica di ciascuno, una cooperazione solidale e generosa all'edificazione
del bene comune della Nazione. Tale cooperazione, peraltro, non può
prescindere dal riferimento ai fondamentali valori etici iscritti nella natura
stessa dell'essere umano. Al riguardo, nella Lettera enciclica Veritatis splendor
mettevo in guardia dal "rischio dell'alleanza fra democrazia e relativismo
etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento
morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità"
(n. 101). Infatti, se non esiste nessuna verità ultima che guidi e
orienti l'azione politica, annotavo in un'altra Lettera enciclica, la Centesimus
Annus "le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate
per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in
un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia" (n.
46).
6. Non posso sottacere, in una così solenne circostanza, un'altra
grave minaccia che pesa sul futuro di questo Paese, condizionando già
oggi la sua vita e le sue possibilità di sviluppo. Mi riferisco alla
crisi delle nascite, al declino demografico e all'invecchiamento della popolazione.
La cruda evidenza delle cifre costringe a prendere atto dei problemi umani,
sociali ed economici che questa crisi inevitabilmente porrà all'Italia
nei prossimi decenni, ma soprattutto stimola - anzi, oso dire, obbliga - i
cittadini ad un impegno responsabile e convergente, per favorire una netta
inversione di tendenza.
L'azione pastorale a favore della famiglia e dell'accoglienza della vita,
e più in generale di un'esistenza aperta alla logica del dono di sé,
sono il contributo che la Chiesa offre alla costruzione di una mentalità
e di una cultura all'interno delle quali questa inversione di tendenza diventi
possibile. Ma sono grandi anche gli spazi per un'iniziativa politica che,
mantenendo fermo il riconoscimento dei diritti della famiglia come società
naturale fondata sul matrimonio, secondo il dettato della stessa Costituzione
della Repubblica Italiana (cfr art. 29), renda socialmente ed economicamente
meno onerose la generazione e l'educazione dei figli.
7. In un tempo di cambiamenti spesso radicali, nel quale sembrano diventare
irrilevanti le esperienze del passato, aumenta la necessità di una
solida formazione della persona. Anche questo, illustri Rappresentanti del
popolo italiano, è un campo nel quale è richiesta la più
ampia collaborazione, affinché le responsabilità primarie dei
genitori trovino adeguati sostegni. La formazione intellettuale e l'educazione
morale dei giovani rimangono le due vie fondamentali attraverso le quali,
negli anni decisivi della crescita, ciascuno può mettere alla prova
se stesso, allargare gli orizzonti della mente e prepararsi ad affrontare
la realtà della vita.
L'uomo vive di un'esistenza autenticamente umana grazie alla cultura. E' mediante
la cultura che l'uomo diventa più uomo, accede più intensamente
all'"essere" che gli è proprio. E' chiaro, peraltro, all'occhio
del saggio che l'uomo conta come uomo per ciò che è più
che per ciò che ha. Il valore umano della persona è in diretta
ed essenziale relazione con l'essere, non con l'avere. Proprio per questo
una Nazione sollecita del proprio futuro favorisce lo sviluppo della scuola
in un sano clima di libertà, e non lesina gli sforzi per migliorarne
la qualità, in stretta connessione con le famiglie e con tutte le componenti
sociali, così come del resto avviene nella maggior parte dei Paesi
europei.
Non meno importante, per la formazione della persona, è poi il clima
morale che predomina nei rapporti sociali e che attualmente trova una massiccia
e condizionante espressione nei mezzi di comunicazione: è questa una
sfida che chiama in causa ogni persona e famiglia, ma che interpella a titolo
peculiare chi ha maggiori responsabilità politiche e istituzionali.
La Chiesa, per parte sua, non si stancherà di svolgere, anche in questo
campo, quella missione educativa che appartiene alla sua stessa natura.
8. Il carattere realmente umanistico di un corpo sociale si manifesta
particolarmente nell'attenzione che esso riesce ad esprimere verso le sue
membra più deboli. Guardando al cammino percorso dall'Italia in questi
quasi sessant'anni dalle rovine della seconda guerra mondiale, non si possono
non ammirare gli ingenti progressi compiuti verso una società nella
quale siano assicurate a tutti accettabili condizioni di vita. Ma è
altrettanto inevitabile riconoscere la tuttora grave crisi dell'occupazione
soprattutto giovanile e le molte povertà, miserie ed emarginazioni,
antiche e nuove, che affliggono numerose persone e famiglie italiane o immigrate
in questo Paese. E' grande, quindi, il bisogno di una solidarietà spontanea
e capillare, alla quale la Chiesa è con ogni impegno protesa a dare
di cuore il proprio contributo.
Tale solidarietà, tuttavia, non può non contare soprattutto
sulla costante sollecitudine delle pubbliche Istituzioni. In questa prospettiva,
e senza compromettere la necessaria tutela della sicurezza dei cittadini,
merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono
spesso in condizioni di penoso sovraffollamento. Un segno di clemenza verso
di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione
di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l'impegno di personale
ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società.
9. Un'Italia fiduciosa di sé e internamente coesa costituisce una
grande ricchezza per le altre Nazioni d'Europa e del mondo. Desidero condividere
con voi questa convinzione nel momento in cui si stanno definendo i profili
istituzionali dell'Unione Europea e sembra ormai alle porte il suo allargamento
a molti Paesi dell'Europa centro-orientale, quasi a suggellare il superamento
di una innaturale divisione. Coltivo la fiducia che, anche per merito dell'Italia,
alle nuove fondamenta della "casa comune" europea non manchi il
"cemento" di quella straordinaria eredità religiosa, culturale
e civile che ha reso grande l'Europa nei secoli.
E' quindi necessario stare in guardia da una visione del Continente che ne
consideri soltanto gli aspetti economici e politici o che indulga in modo
acritico a modelli di vita ispirati ad un consumismo indifferente ai valori
dello spirito. Se si vuole dare durevole stabilità alla nuova unità
europea, è necessario impegnarsi perché essa poggi su quei fondamenti
etici che ne furono un tempo alla base, facendo al tempo stesso spazio alla
ricchezza e alla diversità delle culture e delle tradizioni che caratterizzano
le singole nazioni. Vorrei anche in questo nobile Consesso rinnovare l'appello
che in questi anni ho rivolto ai vari Popoli del Continente: "Europa,
all'inizio di un nuovo millennio, apri ancora le tue porte a Cristo!".
10. Il nuovo secolo da poco iniziato porta con sé un crescente
bisogno di concordia, di solidarietà e di pace tra le Nazioni: è
questa infatti l'esigenza ineludibile di un mondo sempre più interdipendente
e tenuto insieme da una rete globale di scambi e di comunicazioni, in cui
tuttavia spaventose disuguaglianze continuano a sussistere. Purtroppo le speranze
di pace sono brutalmente contraddette dall'inasprirsi di cronici conflitti,
a cominciare da quello che insanguina la Terra Santa. A ciò s'aggiunge
il terrorismo internazionale con la nuova e terribile dimensione che ha assunto,
chiamando in causa in maniera totalmente distorta anche le grandi religioni.
Proprio in una tale situazione le religioni sono invece stimolate a far emergere
tutto il loro potenziale di pace, orientando e quasi "convertendo"
verso la reciproca comprensione le culture e le civiltà che da esse
traggono ispirazione.
Per questa grande impresa, dai cui esiti dipenderanno nei prossimi decenni
le sorti del genere umano, il cristianesimo ha un'attitudine e una responsabilità
del tutto peculiari: annunciando il Dio dell'amore, esso si propone come la
religione del reciproco rispetto, del perdono e della riconciliazione. L'Italia
e le altre Nazioni che hanno la loro matrice storica nella fede cristiana
sono quasi intrinsecamente preparate ad aprire all'umanità nuovi cammini
di pace, non ignorando la pericolosità delle minacce attuali, ma nemmeno
lasciandosi imprigionare da una logica di scontro che sarebbe senza soluzioni.
Illustri Rappresentanti del Popolo italiano, dal mio cuore sgorga spontanea
una preghiera: da questa antichissima e gloriosa Città - da questa
"Roma onde Cristo è Romano", secondo la ben nota definizione
di Dante (Purg. 32, 102) -chiedo al Redentore dell'uomo di far sì che
l'amata Nazione italiana possa continuare, nel presente e nel futuro, a vivere
secondo la sua luminosa tradizione, sapendo ricavare da essa nuovi e abbondanti
frutti di civiltà, per il progresso materiale e spirituale del mondo
intero.
Dio benedica l'Italia!
Appendice
Riportiamo alcuni commenti della stampa italiana, a documentazione delle reazioni, ovviamente non sempre condivisibili, circa l'evento della visita del Papa al Parlamento italiano.
"Una lezione di laicità senza sconti a nessuno"
Intervista di Mimmo Muolo a Giuseppe Dalla Torre
(Avvenire, 15 novembre 2002)
Non è stato un "discorso di circostanza". Tutt'altro. Quello
pronunciato da Giovanni Paolo II "delinea bene - secondo Giuseppe Dalla
Torre - quel concetto di sana laicità dello Stato, che il Concilio
Vaticano II ha sottolineato nella Gaudium et spes". E si segnala, dunque,
non solo per "gli elevati contenuti", ma anche e soprattutto "per
il linguaggio adottato". Il rettore della Lumsa (Libera Università
Maria Santissima Assunta), da giurista abituato a valutare sia la sostanza
che la forma, fa notare che il Papa "non si è limitato a tener
conto della diversità dei ruoli e degli interlocutori. Ha richiamato
tutti alle proprie responsabilità: Chiesa, Istituzioni politiche e
anche semplici cittadini".
In quali passaggi vede, in particolare, questa novità di accenti?
Prendiamo, ad esempio, il riferimento al problema della denatalità.
Il Papa ricorda che la questione non può essere risolta soltanto attraverso
l'impegno delle istituzioni. Per invertire la tendenza occorre l'apporto di
tutti i cittadini. Lo stesso vale per i mass media, per i quali il Pontefice
non fa un discorso di tipo censorio, ma invita a lavorare perché favoriscano
la crescita complessiva delle persone. E naturalmente per la tematica della
scuola e della cultura.
Che cosa significa il fatto che Giovanni Paolo II si sia riferito alla scuola
senza altre specificazioni?
E' un'ulteriore prova del linguaggio diverso usato dal Pontefice in un contesto
così eccezionale. Non vengono certo abbandonate le legittime richieste
fatte in passato a proposito della scuola cattolica. Ma qui si vuole sottolineare
che se la scuola serve a garantire la crescita complessiva della società,
il pluralismo delle istituzioni scolastiche consente di raggiungere meglio
questa finalità. E ciò avviene nell'interesse non solo della
Chiesa o delle famiglie, ma della società in generale.
Qual è, dunque, il profilo di maggiore novità in un discorso
che tocca tutti i temi più cari al magistero di Giovanni Paolo II sull'Italia?
Secondo me la novità è costituita proprio dall'aver rimarcato
i differenti ruoli e le differenti responsabilità della Chiesa , delle
Istituzioni politiche e dei cittadini. Il linguaggio adottato è un
riflesso di questo atteggiamento. Giovanni Paolo II ha voluto parlare non
solo alla comunità cristiana, ma a tutta la nazione, e quindi anche
a persone che non credono. Per questo dico che il suo discorso è stato
una lezione di sana laicità che ha smentito le preoccupazioni della
vigilia espresse da qualcuno. In altre parole i problemi che il Papa ha indicato
e sui quali ha dato valutazioni e orientamenti non possono e non debbono essere
relegati alla sola responsabilità delle istituzioni pubbliche.
In questo senso possiamo dire che la bussola è data dai valori cristiani
ai quali Giovanni Paolo II ha fatto riferimento fin dall'inizio del suo discorso?
Esattamente. Giovanni Paolo II ha ribadito che questi valori possono continuare
ad alimentare il tessuto sociale e quindi a garantire anche nel futuro, come
hanno fatto per quasi duemila anni, una crescita armonica e solidale della
società italiana.
C'è, da questo punti di vista, un ruolo specifico della Chiesa?
E' il ruolo di un soggetto - e questo il Papa lo ha detto chiaramente - che
alimenta e sollecita nel corpo sociale i valori etici e i grandi punti di
riferimento, in modo che tutti (persone e istituzioni) siano richiamati alle
loro responsabilità. Sottolineerei anche il passaggio in cui il Pontefice
ricorda il dovere della solidarietà, mette in evidenza come una democrazia
senza valori rischia la degenerazione e anche quelli in cui sottolinea il
ruolo fondamentale del diritto, inteso non come strumento di affermazione
della volontà del più forte, ma come mezzo per la realizzazione
della giustizia. Il che significa riconoscere a ciascuno il suo.
"Testimone unico su pace e giustizia"
Intervista di Pierluigi Fornari al filosofo Massimo Cacciari
(Avvenire, 15 novembre 2002)
"L'unica testimonianza forte sui temi della pace e della giustizia rimasta
di fronte ai problemi della poltica contemporanea". E' il parere di Massimo
Cacciari sul messaggio lanciato da Giovanni Paolo II. Il filosofo veneziano
liquida come "ridicole" le preoccupazioni di una invadenza della
fede nelle dinamiche laiche della vita politica, espresse da alcuni esponenti
della sinistra alla vigilia della visita in Parlamento. "C'è da
chiedersi se laicità non sia diventata sinonimo di realismo d'accatto,
politica d'abord", è il giudizio tranchant di Cacciari. Il quale
teme inoltre che dietro alcuni apprezzamenti espressi nei confronti del discorso
del Papa si nasconda un desiderio di "mettersi la coscienza in pace".
Oggi il vero dramma - aggiunge - non è il contrasto tra Stato italiano
e Chiesa, ma il modo in cui la predicazione viene recepita dal mondo attuale.
Eppure la critica al relativismo etico è stata molto applaudita, e
anche Marcello Pera l'ha ripresa nel suo discorso.
Ma Pera è un campione del relativismo etico. Ha mai letto un suo libro?
Forse la sua posizione si è evoluta.
E' rimasto totalmente coerente con la sua filosofia popperiana.
Non crede che il discorso abbia offerto una occasione di riflessione su questo?
Spesso l'applauso minaccia di coprire grandi contrapposizioni rispetto alla
predicazione di questo Papa. Questo non è assolutamente un limite del
suo discorso, che per me andava benissimo. Io non sono relativista, non lo
sono mai stato, perché si può essere non relativisti anche da
non credenti. Meno che meno sono stato a favore di una laicità agnostica
e indifferente. Mi piace una laicità che si appassiona nel confronto
e si decide.
Il Papa ha sottolineato il potenziale di pace delle grandi religioni.
Le religioni, ascoltate secondo il loro senso più profondo, certamente
hanno infinite possibilità di pace. Naturalmente bisogna saper storicamente
distinguere dalla dimensione politica.
Giovanni Paolo II ha parlato infatti di una conversione delle culture, verso
la reciproca comprensione.
Esatto: allora c'è la pace della fede, laddove la fede è apertura
all'altro, prima di tutto un credere nell'uomo. Secondo quell'umanesimo cristiano
che nel mondo moderno a mio avviso è un'alba incompiuta. Che il Papa
lo rimetta al centro della sua predicazione, è un grande evento, un
grande stimolo, una grande provocazione. Ma c'è da chiedersi chi recepisce
il suo messaggio. Sto parlando in termini politici generali, ma non so cosa
effettivamente sia avvenuto nelle coscienze dei singoli.
E nella sua?
Io non lo ascolto come un messaggio retorico, ma perché mi fa sentire
la totale inadeguatezza, rispetto ai problemi che rimangono irrisolti nonostante
le sue parole. Ma il compito dei profeti è sempre quello di inquietare,
non di acquietare.
I simboli e le parole
Sergio Romano
(Corriere della sera, 15 novembre 2002)
Il Papa e la Curia ci hanno dato una straordinaria lezione di oratoria politica.
Il discorso di Giovanni Paolo II non è l'ingerenza negli affari italiani
che molti dichiaravano di temere. Ma non è neppure una generica allocuzione
al mondo e ai fedeli sui grandi temi dell'apostolato cattolico.
Invitato al banco di presidenza della Camera dei deputati, il Papa, con inattesa
energia, ha parlato soprattutto agli italiani e ai loro rappresentanti politici.
E non ha esitato ad affrontare i temi all'ordine del giorno della politica
nazionale. E' probabile che non potesse fare diversamente. Un discorso meno
"italiano" sarebbe piaciuto ai laici, ma avrebbe deluso il mondo
cattolico e sarebbe parso a molti una occasione mancata. Stretto fra due opposte
esigenze, il Papa ha pronunciato una magistrale allocuzione diplomatica in
cui ha detto con grande finezza, direttamente o indirettamente, tutto ciò
che la Chiesa desidera oggi dalla nazione italiana e, su alcuni grandi problemi,
dall'Europa.
Giovanni Paolo II ha sottolineato le radici cristiane dell'Italia e l'indelebile
impronta che l'"annuncio evangelico" ha lasciato sulla sua cultura
e la sua arte: è un modo per affermare che l'Italia è cristiana
o non è. Ha rivendicato i meriti di alcuni Papi italiani, fra Ottocento
e Novecento: è una risposta a coloro che lo hanno criticato per la
sua devozione alla memoria di Pio IX, Pio XI, Pio XII. Ha condannato l'alleanza
tra democrazia e "relativismo etico": è un modo per deplorare
il matrimonio fra gay, le coppie di fatto, le adozioni innaturali, la fecondazione
assistita. Ha ammonito che il futuro dell'Italia è minacciato dalla
crisi delle nascite e dall'invecchiamento della popolazione: è un modo
per condannare l'aborto e deplorare la mancanza di una vera politica per la
famiglia. Ha dichiarato che occorre rendere meno onerosa l'educazione dei
figli: è un modo per esortare lo Stato ad assistere le scuole private.
Ha reso omaggio alle esigenze della sicurezza, ma ha ricordato che lo stato
delle carceri esige un gesto di clemenza. Ha chiesto maggiore attenzione per
i membri più deboli del corpo sociale: è un modo per ricordare
che lo Stato deve assistere i disoccupati e gli immigrati. Ha chiesto che
nella "Casa comune europea" (espressione molto usata da Michail
Gorbaciov) vi sia il "cemento" della continuità religiosa
e civile del continente: è un modo per chiedere che la costituzione
dell'Unione contenga un cenno alle sue "radici religiose". Ha condannato
il terrorismo e ha deplorato l'uso distorto che si è fatto delle religioni:
è un modo per sottolineare che l'Islam non può essere considerato
ispiratore degli attentati. E ha deplorato infine che nelle vicende internazionali
sembri prevalere la logica dello scontro: è un mod per affermare che
la guerra con l'Iraq può essere ancora evitata e chela crisi palestinese
esige una soluzione politica.
Queste sono alcune delle cose che il Papa ha chiesto all'Italia e all'Europa.
Chi ha seguito la sua opera in questi ultimi anni sa che appartengono da tempo
all'agenda politico-religiosa di Karol Wojtyla. Del tutto nuovo, invece, è
il luogo in cui queste richieste sono state avanzate.
Resta quindi da dire una parola sul modo in cui il Papa è stato ricevuto
a Montecitorio. Pensavamo che i deputati e i senatori della Repubblica lo
avrebbero accolto con simpatia, ascoltato con attenzione e applaudito, alla
fine, con calore. Ma l'emozione per l'eccezionalità dell'evento ha
travolto alcune regole dell'etichetta politica e molti parlamentari si sono
impadroniti di quelle parti del discorso che maggiormente convenivano al loro
partito per salutarle con fragorosi applausi. Senza volerlo il Papa è
stato spregiudicatamente usato dalla politica italiana. E' probabile che la
Santa Sede, accettando l'invito, non avesse valutato questo rischio.
Il Papa laico e i sacerdoti
Rovesciamento delle parti: l'omino bianco si espone, gli altri scappano
(Il Foglio, 15 novembre 2002)
L'onorevole Giorgio La Malfa e altri sacerdoti della laicità dello
Stato avevano pieno diritto di scappare di fronte all'inconsueta e felice
visita di Giovanni Paolo II, con tanto di discorso parlamentare, alle Camere.
Scappare, si intende, come forma simbolica di non adesione al gioco di simboli
ideato da Luciano Violante (comunista), Pierferdinando Casini (democristiano)
e Marcello Pera (liberale in una composita maggioranza che si ispira senza
bigottismo ai valori cristiani). Il diritto di farlo l'avevano, e va rispettato,
ma avevano ragione di temere l'evento? E' probabile che avessero torto, e
lo dice l'evento stesso. Il Papa si è esposta laicamente su alcuni
fronti, dalla difesa della famiglia e della vita alla condanna del relativismo
etico, dal no alla guerra alla clemenza verso i carcerati. Scommettiamo qualunque
somma che la legislazione sull'aborto non verrà abrogata, che nella
dannata ipotesi di una guerra all'Iraq l'Italia farà il suo dovere
civile e politico, che un quantum di relativismo etico resterà ben
visibile o ben dissimulato nelle scelte future della nostra classe dirigente
(anche se il presidente Pera sostiene che il relativismo si può curare
con la sola ragione e con la cultura, forse in preda a un generoso eccesso
di ottimismo). Riguardo la famiglia e la clemenza, speriamo solo che le Camere
visitate dal Papa legiferino in concordanza con le belle parole, quella sola
parola che doveva dire e che naturalmente ha detta, pronunciate dall'onorevole
Wojtyla.
Tutto qui, e non è affatto poco. In fondo con il suo comportamento
laico il Papa ha abrogato la benedetta (ma esteticamente riprovevole) untuosità
concordataria, ha innalzato il suo carisma di vecchi che veste e parla bene,
che è titolare di una cattedra di pensiero forte, che ha delle cose
da dire al mondo senza badare ai proceduralismi ammuffiti e a regole gestite,
in questi tempi di modernità e di smarrimento, in forme troppo querimoniose
o lagnose. Ha fatto quel che era implicito nel nostro titolo di ieri, un magnifico
intervento parlamentare, rispettoso delle differenze e della sacralità
delle istituzioni ma non sottomesso al protocollo, dunque pieno piuttosto
che vuoto. La noia è nemica mortale della democrazia e di ogni principio
laico, e il Papa ha bucato la noia con il suo sguardo, con le leccatine di
dita per girare le pagine, con l'ostensione dell'anello e della mano tremante
quali prolungamenti della voce che non trema mai. Ora a te, caro Parlamento:
continua a lavorare in piena autonomia e, se lo giudichi utile alla salute
della Repubblica, fa' qualcosa di papista.
Il Leader morale
Ferdinando Adornato
(Il Giornale, 15 novembre 2002)
C'è chi (molti) punterà l'attenzione sul problema dell'indulto.
Altri cercheranno di esaltare questa o quella parola del testo a seconda delle
proprie sensibilità e convenienze. Era ed è inevitabile e, in
parte, è giusto così. Ma, in ogni caso, nessuno riuscirà
a nascondere, nelle ordinarie beghe della politica, i due grandi significati
storici ed etici della visita di Wojtyla a Montecitorio. Il primo era già
scritto nell'evento: la solenne chiusura della "questione romana".
Con il suo messaggio che, ascoltandolo, veniva voglia di titolare "Discorso
alla amata nazione italiana" il Papa, proprio perché parlava nell'aula
magna della sovranità politica (parlava un potere rivolgendosi a un
altro potere) ha fisicamente e simbolicamente rappresentato sia la distinzione
tra Dio e Cesare, sia l'amicizia che lega la Chiesa e l'Italia. Oltre un secolo
di ostilità e di incomprensioni, già superate nella coscienza
degli italiani e nella storia della politica, hanno così trovato un'istituzionale
e definitiva sepoltura. E' accaduto cioè esattamente l'opposto di ciò
che denunciava chi vedeva nella visita una sorta di oltraggio alla laicità
dello Stato. Proprio perché fisicamente vicini, i due poteri, quello
morale e quello politico, hanno finito per esaltare la loro reciproca autonomia.
Lo hanno ben colto Casini e Pera nei loro discorsi. Ma ancora di più
lo si evince dalla "scena madre" dell'evento: quei due presidenti
in abito scuro, accanto a quell'uomo vestito di bianco, erano distinti ma
non distanti, come si conviene ai rappresentanti di un popolo in dialogo con
il capo della religione più importante del loro Paese.
Il secondo storico significato dell'evento è emerso, invece, dal messaggio
di Wojtyla: in particolare quando il Papa ha segnalato il pericolo del matrimonio
tra "le democrazie e il relativismo etico". Vale la pena di tenerle
a memoria quelle frasi: "Se non esiste alcuna verità ultima che
orienti l'azione politica, le idee e le convinzioni possono essere facilmente
strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte
facilmente in un totalitarismo subdolo, come ha dimostrato la storia del XX
secolo". Non era certo la prima volta che il Papa richiamava questo concetto,
ma ascoltarlo nell'aula di Montecitorio ha trasmesso qualche brivido: perché
in quelle parole risuonava la grandezza della Storia ma anche la sua sempre
incombente tragicità. E si ricordava alla politica che, nelle sue mani,
sta davvero il destino del genere umano.
Nell'aula di Montecitorio, troppo spesso segnata da polemiche assai piccine,
quelle parole hanno riportato, appunto, una ventata di "grandezza".
In mezzo a tanti leader politici, Wojtyla è apparso per quello che
è: un leader morale, forse il più grande leader morale degli
ultimi secoli. Non credo che sia contestabile: Giovanni Paolo II, con il suo
lungo pontificato, con le sue encicliche e le sue lezioni pastorali, con i
suoi viaggi planetari e le sue allocuzioni mediatiche, si è ormai imposto
davanti agli occhi della contemporaneità, appunto, come l'unico leader
mondiale dei nostri tempi. Tanto che persino il mondo laicista ne avverte
ormai la grande seduzione intellettuale. Si può, com'è ovvio
e giusto, essere d'accordo o non con le sue tesi: ma è inutile far
finta di non vedere la "scossa filosofica" che Wojtyla ha dato al
mondo, sollecitandolo a svegliarsi dal torpore morale nel quale era caduto
e del quale, in gran parte, è ancora prigioniero.
La sua "eterodossa ortodossia", quella sua singolare capacità
di sposare la tradizione (anche nelle sue più rigide disposizioni)
e la modernità (anche nelle sue più inedite suggestioni) ha
avuto il merito di reinserire prepotentemente nell'agenda dell'umanità
le questioni prime e ultime dell'esistenza, cos'è la vita, cos'è
l'uomo, da dove veniamo, perché esistiamo, cos'è il bene, cos'è
il male, questioni che il XX secolo aveva annichilito con la sua politica
criminale e che le società del benessere stordiscono nella loro rutilante
superficialità.
Sono questioni che, al contrario di quanto pretendeva il "pensiero debole",
non abbandoneranno mai l'animo umano per il semplice motivo che esse appartengono
al permanente mistero del nostro passaggio terreno. E infatti sono questioni
che, da sempre, sono oggetto dell'attenzione delle più grandi menti
dell'umanità, da Aristotele a Kant. Solo il Novecento, ecco il punto,
ha considerato la filosofia morale come una sorta di filosofia inutile e anacronistica.
Wojtyla ha rovesciato questo schema mentale. Ha fatto capire sia al mondo
cattolico che a quello laico l'insopprimibile priorità di una pubblica
riflessione sulle modalità e sulle finalità dell'agire umano,
la drammatica attualità della "domanda di senso" che torna
ad elevarsi su tutto il pianeta. Ha posto la domanda delle domande: può
esistere la libertà senza un qualche richiamo alla verità? E
la libertà di cui noi oggi godiamo, la libertà costitutiva dell'Europa
e dell'Occidente, non nasce forse anche dalle verità rese universali
dal messaggio di Cristo, dall'esempio di un uomo che ha saputo morire per
difendere ciò in cui credeva?
Allora, faccia pure l'indulto il Parlamento, se crede. Segua questa ed altre
indicazioni del Pontefice, se può e se deve. Ma la sfida più
grande che sta di fronte alla politica è quella di far ritrovare la
propria anima a democrazie sfibrate e spesso autoreferenziali, nelle quali
l'avere ha annullato l'essere e il relativismo dei valori rischia di intaccare
anche il valore della libertà, trasformandosi in nichilismo. Magari
lo stesso nichilismo che ha aperto il XXI secolo lanciandosi contro le torri
di Manhattan.
Il grande protettore della nostra Repubblica
Eugenio Scalfari
(La Repubblica, 15 novembre 2002)
Sarebbe improprio e inutilmente stridente invocare oggi con querula voce
l'autonomia dello Stato laico in occasione della visita del Papa al Parlamento
italiano. Quell'autonomia e lo spirito che vi presiede sono infatti stati
ricordati con sostanziale identità di accenti sia nei discorsi introduttivi
dei due presidenti delle Camere sia nell'ampio e alto intervento di Giovanni
Paolo II; i diversi ruoli tra le istituzioni religiose e quelle politiche
sono stati ribaditi; il rischio di indebite interferenze è stato accuratamente
evitato perché le parole del papa hanno evocato principi, idee e valori
senza mai scendere a livelli prescrittivi e senza mai disputare alla politica
il terreno che le è proprio.
Eppure l'evento che si è prodotto ieri sotto gli occhi di molti milioni
di italiani si è collocato fin dalle sue prime battute al di fuori
della normalità quotidiana. Sia il Pontefice che i presidenti delle
Camere nella loro funzioni di ospiti l'hanno definito storico, cioè
eccezionale, dunque innovativo nella lunga vicenda intercorsa tra la Chiesa
cattolica e lo Stato italiano. E non a caso Giovanni Paolo II ha ricordato
nominativamente tutti i suoi predecessori che a quella vicenda hanno preso
parte come protagonisti con varietà di posizioni: da Pio XI, il pontefice
dell'idea neoguelfa e poi del Sillabo, a Leone XIII, il papa sociale della
Rerum novarum, a Pio XI, il coautore del Concordato e del Trattato lateranense,
a Giovanni XIII e a Paolo VI, ispiratori del Concilio Vaticano II e del nuovo
afflato ecumenico della Chiesa di Roma.
Se l'evento di ieri si può definire storico - e sarebbe difficile negargli
questa qualifica - bisogna dunque domandarsi in che cosa consiste questa sua
storicità; soltanto dalla risposta a questa domanda sarà possibile
capire se la Chiesa e lo Stato ne siano usciti diversi rispetto a come reciprocamente
si erano configurati fino a quel momento. Diversi perché e in che cosa.
Diversi nell'immagine che ciascuna delle due istituzioni ha di sé e
che proietta all'esterno di sé sull'altra e sul mondo che le circonda.
Soltanto se sapremo cogliere correttamente la sostanza di ciò che è
accaduto in quelle due ore che ci stanno ancora dinanzi agli occhi, dalle
11 alle 13 del 14 novembre 2002 A.D., avremo gli elementi per dare un giudizio
sulla natura dell'evento e sui mutamenti dei quali potrà essere la
causa. Mutamenti che non riguardano soltanto l'Italia ma anche l'Europa che
infatti Giovanni Paolo II ha più volte evocato come il principale oggetto
della cura e delle preoccupazioni della sua Chiesa.
Cade qui acconcia una prima considerazione che riguarda la forza mediatica
dell'evento e vorrei dire la suggestiva potenza retorica del suo cerimoniale.
L'apparato era quanto mai solenne, a cominciare dai picchetti d'onore schierati
sulla piazza Montecitorio e dalle bandiere sventolanti sui pennoni: quelle
tricolori della Repubblica , quelle azzurre con le quindici stelle dell'Unione
europea e quella gialla e bianca con le chiavi di san Pietro al centro, simbolo
del potere di legare e sciogliere, e di aprire e di chiudere, che la Chiesa
si è attribuita fin dalla sua nascita.
Mentre il presidente della Repubblica arrivava nel palazzo raggiungendo gli
altri dignitari che già lo attendevano, il corteo papale partiva dal
Vaticano inquadrato fin dall'inizio dalle telecamere che ne seguivano dall'alto
il percorso nelle strade della città. La Città Santa, verrebbe
da dire, perché tale è stata vissuta dai protagonisti e da chi
ne ha colto e raccontato le movenze, dai commessi della Camera in uniforme
di gala ai membri del parlamento che gremivano l'aula di Montecitorio e che
hanno accolto il Pontefice con un applauso senza precedenti che sembrava mai
voler finire.
Lui, il Papa polacco giunto al ventitreesimo anno del suo pontificato, avanzava
con fatica ma sicuro per il lungo corridoio del Transatlantico quasi sommerso
dalla ressa dei fotografi, dei commessi che lo precedevano e facevano ala,
dalla schiera dei rappresentanti delle istituzioni. Indossava la tunica bianca
color della festa e della gioia; appoggiava al suo bastone la fatica del corpo
da tempo angustiato dagli anni e dai malanni, ma non tradiva incertezze nel
cammino come poi non avrebbe tradito incertezze nella voce limpida, chiara
e forte per tutta la durata del discorso che si è protratto per quasi
un'ora. Si è arrampicato sulla scaletta di mogano che porta al più
alto seggio dell'aula; sotto di lui il banco del governo, dinanzi a lui Ciampi
con al fianco Scalfaro. E dietro il grande ventaglio dei seggi parlamentari,
con deputati e senatori in piedi, acclamanti.
La banda dei carabinieri in alta uniforme ha attaccato l'inno pontificio e
poi, dopo un breve applauso, Fratelli d'Italia che molti deputati hanno cantato
a piena voce. E' stato forse quello il momento più toccante di civica
commozione perché quello era l'inno della Repubblica che ospitava nella
sua aula più prestigiosa il Vescovo di Roma, "quella Roma - come
poi lo stesso Wojtyla ha ricordato - onde Cristo è romano". Da
quel momento in poi l'evento si è trasformato: da una visita del Papa
al Parlamento di uno Stato in una grande e commossa udienza concessa dal Pontefice
ai rappresentanti di un'istituzione che gliene avevano fatto insistente e
ripetuta richiesta.
Sui motivi di tale richiesta, formulata anni fa da Violante e Mancino, poi
ripetuta da Casini e Pera con l'accordo unanime di tutti i gruppi parlamentari,
infine accolta dalla Segreteria di Stato e dal papa, non è stata data
alcuna motivazione. Eppure si trattava di una richiesta inusuale. Nessun parlamento
del mondo ha ospitato il Papa salvo quello polacco (che poco tempo dopo quella
visita votò la legge sull'aborto) e quello della Repubblica di San
Marino, che è di fatto un consiglio comunale. Non l'Assemblea francese,
non il Bundestag, non le Cortes di Spagna, non Westminster, non il Congresso
degli Stati Uniti. Nessun parlamento ha inoltrato una richiesta consimile
per la semplice e ovvia ragione che le istituzioni religiose e quelle politiche
sono due parallele che non si incontrano, operano con pari dignità
su terreni diversi, possono contrapporsi o collaborare ma alla lontana e nella
rispettiva e paritaria sfera di gelosa competenza.
Il cerimoniale non prevede incontri di questo genere, così come sarebbe
improponibile e impensabile che un capo di Stato fosse invitato a parlare
in un Sinodo di vescovi. Tantomeno il cerimoniale, quello di tutti gli Stati,
non prevede che il re (se c'è un re) o un presidente della Repubblica
assistano silenti all'allocuzione d'un capo religioso nel luogo più
alto della rappresentanza democratica dove lo stesso capo dello Stato non
entra e non parla se non nel momento della sua investitura e del suo giuramento.
Ecco dunque il primo segnale della storicità dell'evento di ieri: un'innovazione,
ma vorrei dire uno strappo del cerimoniale d'una vastità impensabile.
Non si creda che il cerimoniale sia un fatto di poco momento: esso equivale
per le istituzioni civili a ciò che è la liturgia per quelle
religiose; è il canone che registra le gerarchie tra i poteri, è
il sacrum dei regni e delle repubbliche. Ieri in Italia questo canone fondamentale
è stato innovato senza che nessuno ne desse spiegazione; forse senza
che nessuno se ne rendesse conto, il che sarebbe ancor più grave.
Si sapeva già che cosa avrebbe detto il Papa perché egli comunica
quasi ogni giorno il suo pensiero alle folle di tutto il mondo, in tutti i
luoghi e in tutte le lingue. Wojtyla è dotato d'una forza e d'un carisma
miracolosi; raramente la storia bimillenaria della cattolicità ha visto
un Pontefice della sua stura, capace di tenere insieme una Chiesa presente
in tutti i continenti e di rappresentarne il centralismo conservatore della
teologia e l'empito sociale, la difesa degli oppressi e l'obbligo della procreazione
senza limiti, la bandiera dei diritti naturali e la riaffermazione costante
della verità di cui la Chiesa è depositaria.
"Veritatis splendor" è stata l'affermazione centrale del
messaggio di Wojtyla a Montecitorio. E come poteva essere diversamente? Potrebbe
mai un Pontefice romano mettere in dubbio la verità assoluta e la sua
funzione salvifica che trova nella rivelazione la sua fonte e nella Chiesa
il tabernacolo che la custodisce? Il nemico - non l'avversario soltanto -
dello splendore della verità assoluta è, ovviamente, il relativismo
liberale e contro di esso infatti il Papa ha lanciato per ben tre volte la
sua condanna. "La vita d'una comunità - ha detto Wojtyla - non
può esser priva di senso". E il senso provvede a darglielo la
ricerca della verità, la quale non può indulgere al relativismo
poiché la verità è assoluta ed eterna.
Il Parlamento ha applaudito in tutti i settori; con maggiore intensità
sui banchi del centrodestra, ma comunque in tutti i settori. Per etichetta?
Per buona educazione? Per improvvisa conversione e convinzione? Difficile
dirlo, ma anche inutile: nel verbale della cerimonia resterà la parola:
"applausi vivissimi". Questa sarà dunque la nuova liturgia
della Repubblica? Lo splendore della verità unica anziché lo
splendore delle tante verità che sgorgano dall'autonomia della coscienza
individuale? Ebbene, questo è il punto di fondo dell'evento di ieri:
Wojtyla ha proclamato ancora una volta ciò che ci si aspettava da lui,
l'ha detto con forza, eloquenza, altezza di propositi e di fede. Il Parlamento
ha sancito con 21 applausi, due interminabili ovazioni al principio e alla
fine, un'adesione unanime e convinta. Tutto era già scritto nel momento
stesso in cui la visita papale fu richiesta e accordata. Qui sta l'eccezionale
storicità dell'evento che segna e inaugura l'altissima protezione del
Pontefice sulla Repubblica italiana.
Il merito del discorso papale non si presta a commenti particolari. Ha denunciato
l'invecchiamento della popolazione e la caduta delle nascite; ha invocato
una politica coraggiosa di sostegno della famiglia; ha ricordato l'importanza
del matrimonio; ha condannato il consumismo; ha lamentato la piaga della povertà,
della disoccupazione, dell'emarginazione, specie delle donne e dei giovani;
ha esaltato i diritti della persona; ha sottolineato l'importanza della scuola
e la libera scelta delle famiglie; ha inneggiato alla libertà contro
il totalitarismo; ha incoraggiato il Parlamento a operare in modo coeso nel
rispetto delle diverse opinioni improntate tutte al bene comune e allo spirito
di servizio; ha chiesto provvedimenti di clemenza per i reclusi nelle carceri.
Infine ha parlato della pace, della minaccia del terrorismo internazionale,
della piaga sanguinante in Terra Santa, della necessità di non farsi
comunque imprigionare nella logica dello scontro.
Sarebbe molto apprezzabile che queste affermazioni papali, fatte - lo ripeto
- con grande altezza di concetti e di linguaggio, non fossero ora tirate di
qua e di là dalle varie parti politiche. Esse rappresentano infatti
un tutto unico nel quale sarebbe indebito appropriarsi di qualche mattone
rifiutandone altri. Il cemento che tutto lega, in Italia e in Europa, è
secondo la concezione di Wojtyla il Cristianesimo, elemento fondante dell'umanesimo
moderno e della storia del continente. La missione specifica che il Papa assegna
all'Italia è quella di contribuire a formare un'Europa "che apra
la porta a Cristo", come già avvenne quando furono posti i valori
dell'Europa cristiana all'indomani della caduta del mondo antico.
Noi laici europei "non possiamo non dirci cristiani", così
come non possiamo allo stesso tempo non dirci eredi della cultura classica,
della libera scienza, del libero esame, dei valori di solidarietà,
libertà, giustizia. Questo è l'Occidente nel quale il cristianesimo,
la filosofia greca, lo scetticismo, i lumi della ragione, il trittico dell'89,
il socialismo, la democrazia, configurano tutti insieme e dialetticamente
tra loro il profilo dell'Europa democratica.
Su questo soggetto civile e politico possiamo anche intonare - come fecero
i padri fondatori della nostra Repubblica - il "Veni Creator Spiritus"
poiché lo spirito creatore appartiene a tutte le persone, quale che
sia la loro cultura religiosa o assenza di religione. E possiamo fervidamente
aggiungere "Mentes tuorum visita" poiché tutti abbiamo bisogno
d'esser visitati dalla vitalità dello spirito che incoraggia alla creazione
delle forme e alla loro fertile autonomia.