Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 1999
10
Parrocchia di Santo Stefano
Casalmaggiore 1999
10
La vita storica di Gesù, dopo la risurrezione, secondo l'evangelista Luca termina con la sua ascensione al cielo, dove siede alla destra del Padre. Secondo le immagini bibliche, Gesù entra definitivamente nella gloria di Dio, simboleggiata dalla nube e dal cielo. L'ingresso nel cielo descritto secondo lo schema della intronizzazione del re. Per l'autore della lettera agli Ebrei, il Cristo risorto esercita il suo sacerdozio nel santuario celeste, dove presiede una liturgia eterna di rendimento di grazie a Dio Padre. L'ascensione di Cristo significa dunque la sua partecipazione alla potenza e all'autorità di Dio stesso. Gesù diventa il Kurios, il Signore, un titolo che appartiene solo a Dio. Cristo é al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione, perché il Padre ha sottomesso tutto ai suoi piedi (cf. Ef 1, 21-23). L'immagine di Cristo dominatore di tutto ha sempre molto colpito la comunità cristiana, che fin dai primi secoli ha visibilmente trasferito anche all'interno della chiesa-tempio la figura solenne del Cristo pantocratore. Dopo l'ascensione il disegno di Dio é entrato ormai nel suo compimento. L'umanità, mediante la Chiesa che é il corpo di Cristo, ha già il suo capo e il suo salvatore. Per questo, afferma la Lumen Gentium, " é già arrivata a noi l 'ultima fase dei tempi e la rinnovazione del mondo é stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo realmente anticipata in questo mondo" (n. 48). Ma questo compimento, già iniziato, ha ancora una pienezza davanti a sé, una pienezza che il NT annuncia come parousia del Cristo glorioso. Parousia, in greco, significa venuta, ritorno: adventus, traduce la Volgata. Dunque, alla fine il Cristo ritornerà. Come recita il simbolo di fede: "e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti". E il giorno del giudizio sarà anche il giorno della risurrezione di tutti. Nella storia della salvezza, tutto é compiuto, tranne il giudizio dell'ultimo giorno, del Dies Domini, del Giorno del Signore. Nella professione di fede, si esplicita che la parousia avverrà nella gloria, mentre la prima venuta del Signore si era aperta e conclusa nell'umiltà, nella spoliazione: nell'umiltà povera della nascita a Betlemme, nell'umiltà vergognosa della croce sul Golgota di Gerusalemme.
1. I testi del NT
Fra i testi biblici che danno informazioni sulla parousia, ne scegliamo due, dove si trova profondamente intrecciata la venuta finale del Signore con la nostra risurrezione corporea.
a) Tessalonicesi 4,13-18
Il primo si trova nella prima Lettera ai Tessalonicesi:
"Non vogliamo lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono
morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno
speranza. Noi crediamo infatti che Gesù é morto e risuscitato,
così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di
Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi
che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun
vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine,
alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal
cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti,
saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore
nell'aria, e così saremo sempre con il Signore"(4, 13-18).
Paolo qui ha lo scopo di rassicurare i cristiani di Tessalonica, i quali temevano
che i loro fratelli già morti non potessero più essere presenti
al ritorno, ritenuto imminente, del Cristo glorioso. E' del tutto probabile
che Paolo, anch'egli teso alla imminente parousia di Cristo, avesse predicato
a quei cristiani il loro prossimo e imminente rapimento in cielo. Si pensava
dunque, dopo la risurrezione di Cristo, che la morte fosse stata debellata una
volta per tutte e che i cristiani sarebbero stati trasferiti, rapiti in cielo,
senza passare attraverso l'esperienza del morire. Ma poiché la morte
continuava a colpire, Paolo ha dovuto ripensare la sua teologia della speranza
e arriva a questa soluzione: nel giorno della parousia di Cristo, ritenuto come
prossimo, i credenti già morti risorgeranno, alla maniera di Cristo,
partecipando così all'evento finale; mentre i vivi, insieme ai risorti,
saranno rapiti sulle nubi incontro a Cristo. E' una soluzione in grado di far
recuperare la speranza ai cristiani di Tessalonica. E questa speranza é
cristologicamente fondata: se infatti Gesù é morto ed é
risorto, afferma Paolo, allo stesso modo Dio per mezzo di Gesù condurrà
insieme con lui anche quanti si sono assopiti nella morte. Il superamento della
morte attraverso la risurrezione non è alla portata delle risorse naturali
dell'uomo, ma é opera di Dio, che per ha già risuscitato Gesù.
Quanto é capitato a Gesù, capiterà anche ai suoi, perché
il vincolo contratto con lui non potrà essere spezzato neppure dalla
morte.
b) 1 Corinti 15
Il secondo testo si trova nella prima Lettera ai Corinti ed é costituito
dall'intero cap. 15. Dopo qualche anno, rispetto alle questioni poste dai tessalonicesi,
Paolo deve affrontare una crisi ancor più grave. A Corinto ci sono alcuni
cristiani che negavano decisamente la futura risurrezione dei morti ("come
possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?": 15,
12). A motivo del contesto culturale di matrice greco-platonica, si trascurava
il valore della corporeità umana. C'erano in quella comunità alcuni
entusiasti, alcuni carismatici, che si ritenevano dei perfetti, perché
in possesso della vera conoscenza spirituale, della gnosi. Per questi entusiasti,
il futuro non poteva riservare grosse novità, perché la salvezza,
limitata all'anima e alla sfera spirituale, era già venuta. La morte
avrebbe al massimo fatto cadere l'ultimo diaframma, avrebbe finalmente tolto
di mezzo l'opacità del corpo. Dunque non potevano sperare nella risurrezione
dei corpi, se il loro interesse principale era la liberazione dal corpo. Sembrano
ironiche le loro domande a Paolo, riportate in 15,35: "Qualcuno dirà:
'Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?"'. Di fronte a questa
nuova situazione, Paolo reagisce mediante una trattazione profonda sulla speranza
cristiana. Anzitutto egli parte dalla risurrezione di Gesù come contenuto
dell'annuncio cristiano: "Cristo morì per i nostri peccati secondo
le Scritture, fu sepolto ed é risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture" (15, 3-4). E poi mostra lo stretto legame fra il dato della
fede cristiana e la nostra sorte futura, fra l'annuncio della risurrezione di
Cristo e la prospettiva della speranza cristiana:
"Ora, se si predica che Cristo é risuscitato dai morti, come possono
dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione
dai morti, neanche Cristo é risuscitato! Ma se Cristo non é risuscitato,
allora é vana la nostra predicazione ed é vana anche la vostra
fede.(...) Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo é risorto;
ma se Cristo non é risorto, é vana la vostra fede e voi siete
ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da
compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo é risuscitato
dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un
uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei
morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita
in Cristo" (15, 12-22).
La risurrezione di Cristo non é stata un evento sporadico e isolato,
ma un evento che coinvolge il destino di tutti gli uomini. Negare la risurrezione
futura dei morti equivale a negare anche la signoria di Cristo. Il futuro di
Cristo e il nostro futuro sono indissolubilmente legati.
Solo a questo punto Paolo risponde ai quesiti dei cristiani di Corinto circa
le modalità della risurrezione, chiarendo in che modo dobbiamo comprendere
i corpi risorti:
"Ma qualcuno dirà: 'Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?'.
Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore; e quello
che semini non é il corpo che nascerà, ma un semplice chicco,
di grano per esempio o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha
stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. Non ogni carne é la medesima
carne; altra é la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella
di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri,
ma altro é lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri.
Altro lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore
delle stelle; ogni stella infatti differisce da un'altra nello splendore. Così
anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile;
si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza;
si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale " ( 15, 35-44a)
.
Dunque i corpi risorti non vanno compresi secondo rappresentazioni di pura
e crassa materialità. Quando si dice corpo, nel linguaggio biblico si
intende qualcosa di diverso dal significato che lo stesso termine ha nelle scienze
anatomiche. Il corpo, teologicamente inteso, é l'attrezzatura necessaria
per essere in relazione con gli altri, col mondo, con Dio. Corpo umano é
la strutturale relazionalità della persona agli altri, al mondo, a Dio.
Tale somaticità umana può realizzarsi esistenzialmente in maniera
distorta, ossia come ripiegamento dell'uomo su di sé: e allora abbiamo
il corpo carnale, ossia l'uomo guidato dal dinamismo della carne. Se la somaticità
umana é esistenzialmente vissuta in modo positivo, allora avremo il corpo
spirituale. La salvezza cristiana non riguarda tanto l'anima dell'uomo, ma l'uomo
nella sua totalità, l'uomo come somaticità relazionale. E' tale
somaticità a risorgere. In questo senso il NT parla della risurrezione
corporea: corporea nel senso di somaticità relazionale, non tanto nel
senso di fisicità organica. Per questo Paolo insiste sulla risurrezione
dei corpi, in contrasto con gli entusiasti di Corinto che si ritenevano già
dei risorti nel sacrario della loro coscienza. Quando Paolo dice che Cristo
é alla destra del Padre con il suo corpo glorioso, intende dire che Cristo
é nella gloria del Padre mantenendo intatta quella capacità di
relazione che ha assunto vivendo da uomo. E anche la nostra risurrezione corporea
andrà intesa come identità di relazione, e non andrà assolutamente
intesa come corpo diafano o etereo o angelico o altro. Ecco perché la
risposta di Paolo é: stolto! Come a dire: non devi porre queste questioni,
perché la fede ti dovrebbe dire che la partecipazione all'essere di Cristo
é la causa della tua risurrezione. E questo deve bastare. E Paolo porta
degli esempi e dei paragoni: come nella realtà creata esistono dei corpi
che sono identici nel loro essere profondo, ma molto diversi nella loro forma
manifestativa, così avverrà per la risurrezione dei corpi. C'é
un mistero di identità fra il prima e il dopo circa il nucleo essenziale
della persona, ma nella più completa difformità esteriore. La
stessa differenza che esiste fra seme e pianta serve da paragone per far comprendere
la differenza che esiste fra il nostro corpo terrestre e il corpo della risurrezione.
E come si prova meraviglia, quando si osserva la sproporzione fra seme e pianta,
così succede anche nel caso della risurrezione: saremo ancora noi stessi
(così come la pianta é ancora quel seme), ma saremo anche il compimento
straordinario e inimmaginabile di noi stessi.
La chiave che guida l'intero discorso sulla vita futura é la nostra partecipazione
al mistero di Cristo. Si deve dunque bandire ogni tentativo di descrizione geografico-corporea
delle situazioni che si dovrebbero creare nel mondo futuro. Mentre si é
cercato e si continua a cercare di fantasticare circa la sorte futura, il cristiano
ha appreso una cosa nuova: il suo dopo-morte é uguale al suo essere di
adesso - a parte l'aspetto esteriore - a partire da Cristo. In fondo, non cambia
molto fra il mio essere in Cristo ora e il mio essere in Cristo dopo, come non
cambia molto fra seme e pianta: cambia la espansione esteriore, la forma, l'aspetto,
ma la relazione fondamentale rimane la stessa: ora sono per Cristo la stessa
cosa che sarò alla fine.
E così Paolo conclude:
"Ecco io vi annuncio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo
trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba:
suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo
trasformati. E' necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di
incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità"
(15, 51-53).
2. Il linguaggio letterario
Nel quadro descrittivo della parousia - sia nei testi paolini, come anche nei testi evangelici - si ritrovano senza difficoltà gli elementi del genere letterario delle teofanie dell'Esodo, o dell'apocalittica giudaica, o del Giorno di JHWH. Paolo si é servito anche di elementi della cultura popolare religiosa, sia ebraica che ellenistica, per raffigurare un evento di cui evidentemente si ignoravano le modalità. In altri termini, Paolo sa bene che non é possibile fornire anticipazioni sulla fine, per cui si limita a darne possibili descrizioni, ispirate ai modelli culturali dell'epoca. Le stesse immagini del Cristo che scende dal cielo, e dei risorti che si librano nell'aria, riproducono in linea verticale lo schema classico del cerimoniale, tipico delle città ellenistiche, in occasione della visita di un personaggio illustre. Nell'ambiente ellenistico la parousia dell'imperatore o di un suo inviato era motivo di festeggiamenti, che si svolgevano proprio come incontro del personaggio con una delegazione che gli andava incontro, e lo scortava fin dentro le mura. In quest'ottica si spiegano le immagini di Paolo, costruite proprio su questo modello. E si capisce qual é il senso fondamentale: e così saremo sempre con il Signore.
3. Il giudizio di Dio
Il giorno del Signore é l'ultima delle visite di Dio al suo popolo.
E' l'ora del giudizio: un termine che dobbiamo intendere bene, perché
nel corso della tradizione esso ha finito per assumere una dimensione di paura.
La parola giudizio, come la parola giustizia, non vanno intese semplicemente
come applicazione e trasferimento in Dio dei nostri concetti e del nostro uso
di giudizio e di giustizia. Esse vanno comprese come giudizio di Dio, come giustizia
di Dio. Il giorno del giudizio finale é il giorno in cui si compirà
definitivamente la fedeltà di Dio all'alleanza col suo popolo. E poiché
il giudizio di Dio sul mondo si é già rivelato nella morte e risurrezione
del Figlio come condanna del peccato per la salvezza del peccatore (cf. ad es.
Rom 5, 21: "come il peccato aveva regnato con la morte, così regni
anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù
Cristo nostro Signore"; 2Cor 5, 21: "Colui che non aveva conosciuto
peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi
potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio"), é alla
luce di tale giudizio che si fonda la speranza del cristiano, che supera ogni
timore.
La parousia implica anche - secondo i testi del NT - una rovina, un castigo,
una collera: ma non é questa l'intenzione primaria di Dio. Castigo e
premio non stanno sullo stesso piano, non hanno le stesse chances, proprio a
causa di quel che Dio ha già realizzato in Cristo. Noi non siamo in una
specie di equidistanza da un giudizio di premio e da un giudizio di condanna.
Il senso fondamentale della parousia, e quindi del giudizio, sembra piuttosto
quello di una garantita possibilità di incontro definitivo con il Signore
che ci libera dalla collera futura: é un incontro per la salvezza. La
discriminazione che ne risulta, e che é descritta anche nei testi della
Scrittura (cf. ad es. Mt 25, 34.41: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete
in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo
(...). Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo
e per i suoi angeli"; Gv 5, 28-29: "Verrà l'ora in cui tutti
coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero
il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione
di condanna"), dipende non dalla parousia in se stessa, ma dalla situazione
in cui l'uomo ha scelto di stare. L'azione di Dio non é in se stessa
bivalente, anzi é unilateralmente definita nel senso della salvezza e
della misericordia. Questo é il senso della nuova e definitiva alleanza
di Dio con l'umanità mediante il Figlio Gesù Cristo. Dio ha già
deciso - attraverso non una semplice offerta all'uomo, ma attraverso la sua
volontà resa efficacemente operante in Cristo - nel senso della accoglienza
e del perdono. Dunque, nessuna bivalenza nel giudizio di Dio. Ma questa azione
é potenzialmente discriminatrice (i buoni e i cattivi, i salvati e i
dannati), se la si osserva sul versante dell'accoglienza umana. L'azione di
Dio é giudizio, sia nel senso che rivela l'autentica natura di Dio, che
é amore ostinato e indefettibile, sia nel senso che rivela anche l'autentica
natura dell'uomo, che é libertà. L'uomo, che é raggiunto
dalla grazia sempre preveniente di Dio, é anche l'essere della possibilità
della colpa e del peccato. L'azione di Dio é finalizzata a salvare il
mondo che accetta di essere salvato, ma non può salvare il mondo che
si chiude a tale salvezza. La bivalenza non é in Dio, ma nel fatto che
il Dio misericordioso e fedele non può rapportarsi ugualmente a ciò
che é conforme alle esigenze della alleanza, e a ciò che ne é
difforme. Qui ha tutto il suo peso e la sua serietà la risposta umana,
la responsabilità e la libertà dell'uomo. L'uomo é "senz'altro
l'essere che nella sua storia ancora in corso di svolgimento deve tener conto
in maniera assoluta e insuperabile della possibilità di un compimento
assoluto nel no a Dio e quindi nella perdizione (...). Di più però
egli non ha bisogno di sapere sull'inferno" (K. Rahner, Corso fondamentale
sulla fede, ed. Paoline, 1977, p. 562).
Ma attenzione: quando si parla della libertà umana, non bisogna neppure
cadere in una sorta di pelagianesimo, ossia in quella concezione che affida
esclusivamente alle forze della libertà umana il merito della salvezza:
come se Dio fosse lì a ratificare una salvezza che l'uomo conquisterebbe,
nella misura in cui l'uomo per primo si muovesse nella direzione della salvezza.
La Scrittura é chiara su questo punto: é Dio che si é mosso
nella direzione dell'uomo, é Dio che efficacemente ha già donato
la salvezza! Ce lo ricorda con vigore Giovanni: "In questo si é
manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel
mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non
siamo stati noi ad amare Dio, ma é lui che ha amato noi e ha mandato
il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati " (lGv 4,
9-10). E Paolo, dopo aver affermato nella lettera agli Efesini che siamo tutti
meritevoli dell'ira di Dio, annuncia il vangelo della grazia, ossia della gratuità
della salvezza nel Cristo: "Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande
amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti
rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati (...). Per questa
grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi,
ma é dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno
possa vantarsene" (Ef 2, 4-5. 8-9).
Di fronte alla grazia salvante di Dio, l'uomo può avere un solo merito,
quello di respingerla; ma non può avere il merito di conquistarla. S.
Agostino ha scritto: "Cum Deus coronat merita nostra, nihil aliud coronat
quam munera sua" (Quando Dio corona i nostri meriti, non fa altro che coronare
i suoi doni) (Epist. 194, 5, 19). La nostra libertà non si trova in una
specie di zona franca rispetto a Dio, ma si trova avvolta dalla carità
di Dio, ossia dalla sua decisione, che si é efficacemente compiuta in
Cristo, di salvarci. C'é dunque una sproporzione - che nemmeno il più
vigoroso sforzo etico può annullare - tra l'amore salvante di Dio e la
libera risposta dell'uomo. Non si tratta di due amori che, per così dire,
gareggiano ad armi pari o si fronteggiano con parità di forze. La sproporzione,
che in Paolo viene chiamata sovrabbondanza (cf. Rom 5, 17: "Se per la caduta
di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più
quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno
nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo") da una parte alimenta
la speranza nella vita eterna, nonostante il peccato umano, perché fa
leva sull'amore di Dio, che é più forte del peccato umano, dall'altra,
però, non elimina l'impegno della libera accoglienza umana: libera, non
perché priva di soccorsi divini, ma libera, ossia liberata da Dio, per
giungere all'opus perfectum, alla pienezza della risposta.
Chiudiamo questa riflessione con una considerazione di J. Ratzinger: "Colui
che giudica nel caso nostro non é semplicemente - come ci sarebbe da
aspettarsi - Dio, l' Infinito, l'Ignoto, l'Eterno. Egli ha invece trasferito
l 'ufficio di giudice ad uno che, essendo uomo, é anche nostro fratello.
A giudicarci quindi non sarà un estraneo, bensì colui che già
conosciamo tramite la fede. Il giudice pertanto non ci si farà incontro
come una persona ignota e forestiera, bensì come uno dei nostri, come
uno che conosce e che ha sofferto intimamente la natura umana. Orbene: stando
così le cose, sorge automaticamente sul giudizio l'alba della speranza;
si delinea non il giorno dell'ira, bensì il ritorno del Signore nostro.
Ci si sente spinti a rammentare la grandiosa visione di Cristo con cui inizia
la misteriosa rivelazione (Ap 1, 9-19): il veggente cade a terra come morto
davanti a questo Essere insignito d 'incommensurabile potenza. Ma il Signore
stende la sua mano su di lui e gli dice, come quel giorno in cui gli apostoli
stavano attraversando il lago di Genezaret sotto raffiche di vento e in piena
burrasca: 'Non temere, sono io!' (Ap 1, 17). Il Signore onnipotente é
quello stesso Gesù, al quale il veggente s'era un giorno aggregato come
compagno di viaggio nella fede. L'articolo del Simbolo che ci parla del giudizio,
proietta appunto questa idea sul nostro incontro col giudice del mondo. In quel
giorno d'ansia, il cristiano potrà rilevare con beata sorpresa come colui
'al quale é stato dato ogni potere in cielo e in terra' (Mt 28, 18),
sia stato nella fede il compagno di viaggio dei suoi giorni terreni, e già
sin d'ora, con le parole del Simbolo, sembri quasi stendere la mano su di lui
dicendogli: Non temere, sono io!" (Introduzione al cristianesimo, Brescia
1969, pp. 268-269).
In questo fascicolo: Catechesi agli adulti, 18 maggio 1999