"In memoria Johannis Pauli II"
"In memoria Johannis Pauli II"
Omelia pronunciata da don Alberto durante la messa di suffragio per Giovanni Paolo II il 6 aprile 2005
"Non abbiate paura. Cristo sa che cosa è dentro l'uomo. Solo Lui
lo sa!". Queste parole, pronunciate in piazza San Pietro durante la messa
di inaugurazione del suo ministero papale il 22 ottobre 1978, costituiscono
la chiave di volta della testimonianza e dell'insegnamento di Giovanni Paolo
II. Sono parole che vengono da lontano. Vengono dalla sua vocazione al sacerdozio,
dai suoi studi di filosofia e di teologia, dalla sua attività di professore
di etica, dal suo ministero fra i giovani, soprattutto dalla sua partecipazione
ai lavori del Concilio Vaticano II, dove il giovane arcivescovo di Cracovia
contribuì, in misura determinante, alla stesura della Gaudium et spes,
la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. In questo importante documento
del Concilio, al n. 22, c'è un passo, continuamente citato in tanti testi
e in tanti discorsi del suo pontificato, a partire dalla sua prima enciclica,
la Redemptor Hominis (del marzo 1979), che contiene il programma e lo stile
dell'intero suo ministero successivo: "Solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo
Cristo, rivelando il mistero
del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota
la sua altissima vocazione". Questa è la "forte antropologia"
di Giovanni Paolo II, la quale spiega tutti i suoi gesti, tutto il suo prezioso
insegnamento, tutta la sua coraggiosa testimonianza, tutto il suo "non
aver paura" di alcuna sfida. L'insegnamento fondamentale di questo Papa
è stato proprio la continua, insistente affermazione della profonda dignità
della persona umana, liberandola da ogni manipolazione ideologica e da ogni
strumentalizzazione politica.
La Chiesa, quando il giovane cardinale di Cracovia fu eletto Papa, era impigliata
in una preoccupante crisi spirituale e culturale del mondo occidentale, che
Paolo VI aveva avuto l'ardire di denunciare, con toni perfino drammatici, ma
che non era riuscito ad affrontare. Il Concilio aveva certamente riportato successi
significativi, ma il clima della Chiesa postconciliare era diventato "aspro
e aggressivo", secondo una lucida analisi dell'allora arcivescovo di Monaco,
il card. Ratzinger, diventato poi uno dei collaboratori più stretti e
più fidati di Giovanni Paolo II. Sul piano culturale - si era negli anni
sessanta e settanta - si era passati dall'euforia circa le illimitate prospettive
di progresso alla disillusione e agli entusiasmi rivoluzionari. Si stava passando
dalla "stagione dei valori tradizionali" a quella del pensiero debole,
dell'individualismo radicale, del nichilismo.
E la Chiesa? Il concilio l'aveva spinta, coraggiosamente, sulle strade evangeliche
del dialogo col mondo. Ma o il dialogo con la modernità - appassionatamente
e sinceramente voluto e vissuto da papa Montini - riprendeva la strada della
radicazione nella santità e nella identità cattolica, oppure la
Chiesa era destinata a diventare lo specchio del mondo, risucchiata essa stessa
dallo Zeitgeist, dallo spirito dei tempi che in quel momento era costruito su
un umanesimo autodistruttivo e senza speranza. E fu proprio l'intesa fra il
cinquantunenne bavarese e il cinquantottenne polacco, a dare il via alla elezione
del card. Wojtyla, nel conclave che seguì alla morte di Giovanni Paolo
I. I due cardinali si trovarono istintivamente in sintonia: occorreva ritrovare
- furono le parole stesse di Ratzinger - "l'audacia di accettare, con cuore
gioioso e senza tema di sminuirsi, la follia della verità".
La parola "verità" - che costituisce il titolo di un'importante
enciclica, Veritatis splendor - è un'altra chiave per capire il ministero
di Giovanni Paolo II, o meglio è una dimensione essenziale della sua
"forte antropologia". Proprio perché egli stato sempre dalla
parte della verità, non è sempre stato capito, anzi è stato
spesso osteggiato. Ricordo, soprattutto nei primi anni di pontificato, con quanta
supponenza gli intellettuali, anche cattolici, del nostro Occidente, guardavano
al "Papa polacco": dove l'aggettivo "polacco" aveva un sapore
anche di dispregio. Ma Giovanni Paolo II non si è mai lasciato intimorire
da alcuna critica.
La persona umana è fatta per la verità, non per le opinioni, non
per la menzogna. E solo l'accesso alla verità, che si è fatta
splendore nel Verbo incarnato, può dare all'uomo quella felicità
e quella libertà dalle ideologie e dalle ideolatrie che conducono l'uomo
alla sua pienezza. Questa "verità" piena sull'uomo il Papa
l'ha predicata ai quattro venti, ai potenti e ai semplici, a Roma e sulle tante
contrade del mondo. E' una verità che riguarda tutto l'uomo: dal suo
concepimento nel grembo materno al suo tramonto, nella famiglia, nella scuola
e negli ospedali, nella Chiesa e nella società. Il suo magistero sulla
vita, sulla famiglia, sulla donna, sulla pace, sui poveri è un prezioso
patrimonio che lascia a tutta la Chiesa e che porterà frutti negli anni
a venire. E' difficile trovare, nell'insegnamento di Giovanni Paolo II, qualche
"ramo scoperto". Ogni dimensione della vita umana è affrontata
secondo l'ottica della "verità". Il suo insegnamento spazia
dai problemi sociali e politici, a quelli - attualissimi - delle frontiere della
bioetica e delle biotecnologie; dai problemi filosofici e culturali - da qui
una delle sue encicliche più forti, la Fides et ratio, che è un
canto alla dignità e alla capacità dell'uomo di guardare al mistero
trascendente - a quelli del rinnovamento della vita della Chiesa, che hanno
visto negli anni del suo pontificato alcune pietre miliari, come il nuovo Codice
di Diritto Canonico e il Catechismo della Chiesa cattolica.
La sua lotta contro ogni forma di totalitarismo, di sopraffazione, di degrado
umano, di relativismo morale, la sua ostinata predicazione sulle radici cristiane
dell'Europa (di quell'Europa che egli ha tanto amato, ma dalle cui sedi istituzionali
da tempo non ha mai ricevuto alcun invito), il suo amore alla Tradizione vivente
del deposito apostolico come alla fonte autentica di ogni progresso e di ogni
riforma nella Chiesa non provengono da alcuna ideologia politica, non sono ascrivibili
a nessuna bottega culturale, non nascondono alcuna strumentalizzazione di parte,
ma sgorgano dal suo amore appassionato all'uomo, nel quale risplende l'immagine
di Dio e sul quale si riflette lo splendore di Cristo. Riconosciamolo: non siamo
sempre riusciti a sintonizzare i nostri passi su quelli del Papa. Lui ci precedeva
sempre. E noi non siamo stati sempre capaci di andargli dietro.
Se ci chiediamo - e tanti in questi giorni se lo stanno chiedendo - da dove
Papa Wojtyla ha attinto la forza e il coraggio per un lavoro così immane,
io credo che la risposta sia una sola: dalla sua profonda fede, che quotidianamente
alimentava in una preghiera intensa e perseverante. A me è capitata la
grande fortuna di poter concelebrare la messa con il Papa nella cappella privata
del suo appartamento (era il 13 giugno 1996) insieme al Vescovo Nicolini e ai
miei compagni di ordinazione. Lì ho scoperto il segreto della personalità
di Giovanni Paolo II: il suo amore al Signore Gesù Cristo e alla Vergine
Madre Maria, alla quale si è totalmente donato ("Totus tuus"
era il suo motto episcopale).
Il testamento che ci lascia è che non dobbiamo mai vergognarci di essere
cristiani, (come non ricordare quelle parole all'inizio del suo pontificato:
"Non abbiate paura. Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo. Alla sua
salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici
come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo":
che respiro ampio! Il suo cristianesimo non è mai stato un cristianesimo
bigotto, da sagrestia, intimistico o doloristico
), perché solo
così siamo veramente liberi di accogliere e di dialogare con ogni persona,
di qualunque cultura e religione. C'è, piuttosto, da vergognarci di essere
troppo poco cristiani, ossia di chiudere le porte a Cristo: quelle del nostro
cuore e quelle della nostra società. Questo è il dramma del nostro
tempo. E questa è forse anche la malattia più oscura e più
grave, anche perché è la meno percettibile e la più subdola,
della cristianità attuale.
Tantissimi, in questi giorni, giovani (che egli amava e da cui è stato
ricambiato) e meno giovani si sono recati e si stanno recando in pellegrinaggio
a Roma, sfidando anche fatiche e disagi. Perché? Io credo: per una esigenza
di gratitudine, per un bisogno di ricambiare l'amore che questo Papa ha voluto
a tutti noi, a tutta l'umanità. Ma soprattutto perché vediamo
in questo straordinario uomo una vita umana pienamente realizzata: la sua mai
nascosta fede cristiana, dall'inizio alla fine, è stata un canto alla
vita in tutte le sue forme e in tutte le sue dimensioni.
Sì, papa Wojtyla è un grande dono alla Chiesa e all'umanità.
Siamone degni! Che il fascino e il sussulto emotivo di questi giorni non si
spengano con l'attenuarsi e lo spegnersi dell'esposizione mediatica, ma si spalmino
nei passi quotidiani del nostro cammino: per essere, come lui, viandanti e pellegrini
verso l'incontro pieno con il Signore, che è il vero traguardo della
nostra umana avventura. E che il Signore ci doni presto un altro Papa, che sappia
camminare davanti a noi e con noi per indicarci ancora, con la stessa fermezza
ed entusiasmo, le strade autentiche della verità e della libertà,
che sono le strade di sempre, le strade del Vangelo, le strade degli apostoli,
di Maria e dei santi, le strade dei nostri nonni, dei nostri papà e delle
nostre mamme.